L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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I dannati della terra

di Nicola Zitara

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Siderno, 14 gennaio 2006

La verità viene raccontata dalle favole. Non mi riferisco soltanto a quella immaginata da Antonio Orlando (di cui al numero scorso di la Riviera) a proposito della Fata Morgana - il fenomeno  che a volta sorprende i reggini a spasso sul Lungomare, - ma anche e soprattutto alla favoletta sul malessere delle periferie urbane raccontata su “la Repubblica” del 3 gennaio u.s. da Ulrich Beck. Riporto l’attacco dell’articolo: “Le cause delle periferie francesi in fiamme non vanno rintracciate soltanto in Francia, così come non fanno presa i concetti apparentemente ovvi di ‘disoccupazione, ‘povertà’, ‘giovani immigrati’. In effetti. qui affiora  una nuova linea di conflitto del ventunesimo secolo. La questione centrale è la seguente: che fare di coloro che vengono esclusi dal bel mondo nuovo della globalizzazione.

“La globalizzazione economica ha spaccato il mondo, provocando una frattura che taglia trasversalmente i confini nazionali.”

Non credo che si dovesse attendere la globalizzazione e il 2006 per avere contezza di un fenomeno che,  almeno da duecentocinquanta anni, determina - contemporaneamente e ambiguamente - la felicità di una parte (minore) degli uomini  e la dannazione dell’altra parte (maggiore) degli stessi uomini. Certo, adesso i dannati della terra stanno anche a Parigi, a Berlino, a Londra,  ma a New York ci vivono da sempre. E in Italia anche. La divinità che assolve o manda è stata fotografata nel famoso “Manifesto” di Carlo Marx, un libretto di cento pagine, che tutti dovrebbero leggere, pubblicato nel 1848, cioè ben 157 anni fa. Il tema è stato ripreso decine di migliaia di volte. Di recente, il più efficace epigono di Marx è stato Giovanni Paolo II, con la sua famosa enciclica ‘Centesimus annus’.

Di cosa si tratta? 

C’è un problema politico e c’è un problema pratico. Vediamoli separatamente. La storia politica del benessere e della dannazione mondiale ha un suo modello, un suo paradigma, un suo abbecedario, che riguarda  l’Inghilterra e l’India. Nel 1750 (solo duecentocinquant’anni fa, quindi, e non al tempo di Noè), l’India era la centrale mondiale per la produzione di cotonine, il tessuto a prezzi popolari che antropologicamente sopraggiungeva a prendere il posto delle pelli di capra, di mucca e di altre bestie, con cui si copriva la gente più povera, e della lana e del lino, con cui si coprivano i meno poveri. 

L’Inghilterra conquista l’India e, siccome in quel momento vengono scoperti e cominciano a essere impiegati nella produzione il telaio meccanico e la macchina a vapore, impone agli indiani di non esportare più le loro cotonine e di riservare alla sola Inghilterra tutta la loro produzione di cotone. Conseguenza alquanto ovvia, l’Inghilterra si arricchisce vendendo cotonine a tutto il mondo e gli indiani traghettano dalla povertà alla fame.

I giornali possono scrivere, e il cinema può rappresentare, la fame indiana come una giusta punizione per il fatto che gli indiani non mangiano le vacche, che pure nutrono, e per questo non finire  dinanzi a un giudice per falso. Resta, però, il fatto che mentono per smaccato servilismo (una volta si diceva: mentono per la gola).

Producendo ciò che gli altri popoli non sapevano,  o non potevano produrre per un veto militare, l’Occidente non solo si è arricchito, ma ha anche impoverito i non occidentali. Si prenda il caso della Somalia. Al tempo del Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, la Somalia, colonia italiana, era povera, ma non ancora dannata. I somali erano un popolo di fieri pastori, che vivevano allevando  bestiame bovino e caprino. Lungo gli assolati tratturi che le greggi percorrevano per trovare pascoli freschi, i pastori si portavano dietro l’acqua, in otri ricavati dalle pelli di capra. 

In Somalia la grande rivoluzione non è stata la mitragliatrice, ma il bidone di plastica, che costa meno di un otre, ed è più leggero e funzionale. Esistendo in commercio i bidoni, diventa inutile fabbricare otri. Quanto al latte, non c’è più necessità di allevare capre e vaccini. Il latte glielo regalano le organizzazioni caritatevoli. O meglio, le organizzazioni caritatevoli acquistano dalle industrie americane e svizzere del prezioso latte in polvere e lo regalano ai somali. Una volta si diceva: “Aiutati, ché Dio t’aiuta” (aiutati svizzero, se vuoi che Dio ti aiuti). Comunque, l’arrivo dei bidoni di plastica e del latte in polvere, donato dalle organizzazioni caritatevoli, ha portato la Somalia alla fame, alla disperazione, all’Aids. 

Dai bidoni di plastica e dal latte in polvere è facile passare al problema pratico, a cui accennavo sopra. Poniamo che una fabbrica di bidoni di plastica e tutti i connessi processi industriali posti a monte, dall’estrazione del petrolio fino agli scarti di raffineria, da cui si ricava la materia prima,  occupino (esagerando) lo spazio dei paesi della Locride e impieghino (esagerando) tutta la popolazione della Locride. Ebbene, in questo spazio limitato e con un numero di persone che corrisponde a qualche millesimo della popolazione attiva mondiale, si possono produrre tanti bidoni da inondare tutta la Terra, e anche Marte, la Luna e Mercurio. Non solo: il costo di produzione del singolo bidone è ridotto all’osso.

 Perché, allora, costruire una fabbrica di bidoni in Somalia? Infatti non la si costruisce. E i somali, utili come consumatori, diventano inutili come produttori.  La globalizzazione, in pratica,  è questo. Però, come teoria (o filosofia della prassi), è una cosa diversa. E Giovanni Paolo II, nell’enciclica citata, non si oppone soltanto al fatto (la dannazione degli esclusi), ma anche alla filosofia che giustifica il fatto. La filosofia liberista è un verbo sottile, che sta portando il mondo alla morte. Dico quella fisica, corporale. Dopo averlo portato alla morte morale.

E veniamo a casa nostra. La disoccupazione endemica, nel Sud italiano, è antica quanto l’unità sabauda. Agli albori della prima ondata migratoria, intorno al 1885 – 1895, il tema della disoccupazione ed emigrazione meridionale coinvolse i settori del liberalismo, le correnti cattoliche e alla fine anche qualcuno fra i socialisti italiani. Nella proiezione secolare, Maffeo Pantaleoni,  Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, don Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, benché appartenenti a correnti di pensiero alquanto diverse e fra loro lontane,  ci appaiono più vicini di quanto fossero nella loro quotidianità politica, proprio perché il tema della disoccupazione li avvicina fortemente.

Come, novant’anni fa, la rottura di Salvemini con il partito socialista avvenne sul tema dell’impegno al Sud, in anni recenti, molte personali rotture  con la sinistra nazionale si sono avute sul tema delle aristocrazie del lavoro, che la sinistra privilegia, e sull’opposto tema della disoccupazione  meridionale, disinvoltamente dimenticato. 

Non potendo  servire due altari, la sinistra italiana, ossequiosamente  inquadratasi sulla strada prescelta  dalla socialdemocrazia tedesca (anche quando ha sostenuto di non esserlo) ha scelto la classe del lavoro occupato, adottando, di conseguenza, una forma di raggiro politico ed elettoralistico nei confronti degli inoccupati meridionali. 

Alti salari e sviluppo centralizzato della produzione significano anche la subordinazione del pensiero  operaio al sistema del profitto capitalistico. Era logico, matematico che il socialismo e la capacità di analizzare i processi storici, di cui alla lezione di Marx,  finissero travolti dall’obesità e dal marasma senile di socialisti e comunisti.

Oggi, tutte le soglie sono state superate. Muore la gente a milioni ogni giorno, muore l’ambiente in modo irrecuperabile. L’alternativa vera è che: o finisce il capitalismo o finisce il mondo. La fine alternativa dell’uno o dell’altro è già scritta nelle cose. Ma queste stesse cose sono intrecciate in tal modo che la spada di Alessandro si spezzerà, ma non riuscirà a tagliare di netto il nodo. Samir Amin, in “Classe et nation” (libro che la sabaudista Feltrinelli si è ben guardata dal tradurre per gli italiani, cosa che invece fa con  altre opere di Amin) e il sottoscritto in “Tutta l’égalitè” prefigurano delle “uscite laterali”. 

Forse altre forme di transizione sono ipotizzabili. Comune la proposta dei due autori che riguarda la fine del lavoro salariato (che non significa la fine del mercato e dell’iniziativa privata) e il controllo  del commercio mondiale, ad opera di “formazioni sociali” diverse e minori delle attuali potenze capitalistiche. Si tratta di un processo inverso a quello realizzato dalla Comunità europea, che ha allargato gli sbocchi delle grandi industrie e sacrificato le aziende minori, con il risultato di scassare le une, le altre e la vita della gente qualunque. Gli aiuti comunitari allo sviluppo delle regioni deboli sono - nonostante i clamori dei politici e della stampa addomesticata -  clientelismo, o forse meglio,  latte in polvere.    

Il mondo e gli esseri che lo abitano potranno forse salvarsi. Per farlo, la vera politica, la politica dello scontro di classe, deve riemergere dalle ceneri. Da noi, al Sud, questa politica si chiama separatismo. Separatismo tra gli italiani delle usure rinascimentali e gli italici dell’umile culto della famiglia.

Separandosi, il Sud chiude le sue porte alla sovrapproduzione europea e dà lavoro alla sua gente. La giustizia sociale, il socialismo, il comunismo, oggi stanno nella restituzione del lavoro a tutti gli uomini. 


Nicola Zitara

Nota. L’opera di Frantz Fanon, “I dannati della terra”, è stata pubblicata in Italia dall’editore Einaudi nel 1962. Una successiva edizione è tuttora in commercio.






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