L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il Buon Natale delle banche

di Nicola Zitara

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Siderno, 17 dicembre 2006

Da quando è finito il bilanciamento connesso al comunismo, l’ingordigia del capitalismo finanziario si è sfrenata. I signori del danaro telematico si sentono i padroni di tutto: dell’economia, della morale, degli Stati, dei continenti, di chi lavora e di chi ozia, delle madri e dei figli, di chi dovrebbe godersi la pensione in attesa della morte, degli americani, degli europei, degli africani, degli asiatici, dei polinesiani e degli eschimesi, del sapere e dell’ignoranza, della guerra e della pace. 

Nessun orizzonte chiude più i loro appetiti, neanche le distanze stellari sembrano impossibili alla loro voglia di lucro. Legioni e legioni di giornalisti d’ogni lingua e paese spandono per l’universo mondo le loro lodi, osannano alla loro benefica presenza. Senza il loro fattivo intervento il genere umano tornerebbe alla barbarie. 

La verità è, invece, che sotto il loro imperio la “questione sociale” , il dramma esistenziale dei diseredati, che il mondo occidentale aveva ricacciato verso altre terre e altri continenti (il Sud del mondo), da una quindicina d’anni in qua sta tornando in Europa, da dove era partita.

Sono cose che si vedono a occhio nudo, ma che si fa finta di non capire, perché non si allineano docilmente dentro la logica da orda predace, che presiede ai nostri giudizi. La nozione è falsificata, capovolta: quando va bene, il merito è di Ford, di Rockefeller, di Montezemolo, di Tronchetti-Provera, quando va male è colpa delle “cose”, tutt’al più del mostro Berlusconi. Chi, per caso, dispone degli occhiali affumicati, necessari per non farsi abbagliare dal sole, vede tutto, persino i particolari, ma, poi, beccatosi anche lui un raggio di sole, gabba lettori e ascoltatori proclamando che la Terra e la Luna, accidentalmente, non sono entrate in combinazione con l’orbita di Marte.

E’ un gioco perverso che annulla la ragione. La fonte di tutti gli imbrogli è la cosiddetta “razionalità” del mercato. Ora, se il mercato fosse così razionale come si ama sostenere, non esisterebbero né lo Stato né le leggi, i quali lo tutelano e contemporaneamente lo limitano. 

Tutti sappiamo che le capre producono un liquido buono e gustoso che si chiama latte, e che dal latte si producono cose altrettanto buone e gustose, che chiamiamo ricotte e formaggio. Il prezzo del latte, delle ricotte e del formaggio si forma sul libero mercato. I pastori si fanno concorrenza e chi di loro produce al costo più basso guadagna di più. Il costo di produzione dipende fra l’altro dalla disponibilità di pascolo brado. 

Accade però che le capre mangino erba e che non essendo ancora passate al partito ambientalista mangino anche i germogli dei pini, degli abeti, dei castagni, dei faggi e persino dei fichi d’India. Ma lo Stato ama i boschi, conseguentemente, violando le regole del libero mercato, vieta alle capre (e ai pastori) di avvicinarsi ai terreni boschivi. I pastori d’Aspromonte calano al mare e, invece di produrre ricotte, fanno casini d’ogni sorta. Intanto ricotte e formaggio scarseggiano, cosicché gli agricoltori che abitano la vale, dove producono grano e fagioli, abbandonano dette produzioni e si danno al pascolo delle capre e alla produzione di latte.

L’esempio puerile mostra che il mercato non è il fenomeno naturale che gli economisti pretendono di descrivere. Esiste sicuramente il mercato, senza il quale lo scambio di lavoro contro danaro, che rappresenta un altro lavoro (presente e passato), si trasformerebbe in saccheggio, dando luogo a quell’ “homo homini lupus” che si studia a scuola. A volte la ragione, a volte la forza restringono la libertà di mercato. La più consistente violazione della libertà di mercato non è costituita dai virgulti dei faggi, ma dal monopolio. 

Noi conosciamo il monopolio dei tabacchi, del gioco del lotto, del Superenalotto, un tempo c’era anche quello del sale, ma ce ne sono stati e ci sono ancora degli altri, e notevoli. Al tempo dei miei verdi anni, si faceva fuoco c fiamme contro il monopolio elettrico (Edison, SME), contro il monopolio chimico (Montecatini), contro quello automobilistico (Fiat), contro quello giornalistico (Corriere della Sera). 

Ancor di più si faceva fuoco e fiamme contro il monopolio della terra, il latifondo, che, essendo siciliano e meridionale, era alquanto più facile e piacevole maledire. C’era anche il monopolio bancario, ma contro di esso non c’erano proteste popolari, in quanto la gente subdorava che il libero mercato bancario sarebbe stato peggio del monopolio statale.

Nel 1971, proclamata l’inconvertibilità del dollaro, i capitalisti americani si ritrovarono più ricchi. Infatti, se dovevano acquistare delle merci straniere, la banca centrale stampava dollari e glieli prestava. 

Tale larghezza di vedute era giustificata dal fatto che solo una parte dei dollari tornava negli USA a comprare un bene reale o un servizio vendibile, mentre un’altra parte, molto consistente, rimaneva in circolazione nel mondo come moneta che le altre popolazioni usavano per commerciare fra loro. Conseguentemente gli americani non avrebbero pagato la carta-dollaro con beni e servizi. Il processo di dilatazione all’infinito della stampa di cartamoneta bancaria non è antico. Risale al primo dopoguerra mondiale e alla grande crisi del 1929. 

La svalutazione del dollaro cominciò proprio quando, nel 1944, gli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale si accordarono per tenere fermo il suo valore, ancorandolo all’oro accumulato nel tesoro americano. Ma già nel 1971, invece che trentasei dollari, un’oncia d’oro costava più di cento. Dopo il 1971 il prezzo dell’oro è continuato a crescere velocemente, fino ai livelli oggi correnti (circa 500 dollari l’oncia), a causa dell’incredibile invasione di banconote; non solo di dollari ma anche di altre monete.

Ma che gusto c’è a stampare carta (e far crescere i prezzi delle merci) da parte delle banche centrali? Il fatto è che cane non mangia cane, e banchiere non mangia banchiere. La banca centrale presta danaro alle banche commerciali percependo un interesse, e le banche commerciali prestano danaro a tutti percependo un interesse. Insomma amministrare carta filigranata rende un’incredibile quantità di soldi e dà luogo a un potere immenso sia verso i poveri che verso i ricchi. Cosicché le banche mettono in circolazione tutta la carta che le popolazioni soggette possono assorbire, e anche quella che queste popolazioni non possono assorbire con nuova produzione. E ciò provoca un’inarrestabile inflazione del prezzi (nel 1950, la benzina costava meno di 20 lire a litro, oggi costa 2.500 ex lire a litro). 

Dal momento in cui il dollaro è stato dichiarato inconvertibile la struttura dei monopoli, che privilegiava l’industria e la terra, ha cambiato sembianze. L’egemonia è passata dai signori della terra e delle fabbriche ai signori della carta. Chi governa una produzione agricola, una produzione industriale o produce servizi vendibili sta sotto la banca. Conseguentemente hanno marciato e marciano a ritroso i dipendenti delle corrispondenti produzioni. 

La filosofia politica, prima orientata al riformismo, al Welfare, adesso è orientata al pauperismo operaio. Il trionfo della moneta bancaria ha prodotto una rivoluzione ancora più vasta e profonda a livello continentale, battezzando lo sviluppo industriale in alcuni paesi in cui il basso costo della manodopera fornisce una più alta remunerazione della carta. In pratica, i cinesi lavorano, ma chi ci lucra sopra sta, di regola, nei sacrari globali, abilitati a inventare il capitale bancario e la moneta fittizia (cioè cambiali monetarie che non saranno pagate da chi le sottoscrive, ma dal lavoro della gente qualunque).

Ovviamente lo sconquasso alberga anche in Italia. Vi abita dal tempo di Ciampi, ministro del tesoro, e Prodi, presidente del consiglio dei ministri. Con molta grazia i due palamidoni, con l’aiuto degli ex comunisti ormai senza una bussola, hanno regalato le banche dello Stato ai privati, proclamando che i capitalisti privati producevano ricchezza mentre quelli pubblici producdevano pidocchi. Più moneta bancaria avrebbe prodotto più industria, più agricoltura, più allegria, più mercato. Ma come si può ben vedere hanno combinato un tale disastro che ci vorranno vent’anni per uscirne.

E’ accaduto che i produttori non hanno richiesto tutti soldi che la banca era vogliosa di distribuire, così quei soldi sono stati offerti ai consumatori. Questi si sono indebitati fino al collo, e difficilmente potranno restituirli perché producono quanto producevano prima, anzi meno. 

Dove prima compravano un chilo di pane e lo mangiavano, adesso comprano lo stesso chilogrammo, ma ne mangiano ottocento grammi, mentre duecento grammi li girano alla banca. 

La bomba è scoppiata la settimana scorsa a opera dell’Istat (su queste colonne, però, la situazione era stata descritta già alcuni medi fa). Venti milioni di italiani hanno debiti così pesanti che è ben difficile li possano pagare nel corso di pochi anni. Il governo si ripromette di presentare una legge affinché vengano rateizzati. 

Resta il fatto che 20 milioni di persone si sono indebitate per comprare molte cose in meno di quelle che dieci anni fa compravano senza fare debiti. La ricchezza delle banche è cresciuta sull’impoverimento della gente. Conclusione: il mercato non ha colpe. La colpa è di chi manda le capre a pascere nel bosco.

C’è ancora da aggiungere che il sistema bancario italiano è congegnato in modo che il profitto bancario fluisce a Milano, Torino e Siena. Insomma il Sud riceve carta non faticata e restituisce carta faticata per capitale e interessi. Un regalo che gente intelligente non farebbe. Comunque, Viva la Juventus, anche il Milan!




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