L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Gli inutili

di Nicola Zitara

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Siderno, 7 Novembre 2001

Il conflitto che si è aperto con l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono è visto in modo opposto dagli occidentali e dai loro avversari. Ma mentre questi ultimi sono unanimi e concordi nel considerare gli USA e i loro alleati come nemici, gli occidentali hanno messo in piedi una finzione, in base alla quale soltanto una parte dei loro nemici sarebbero in effetti dei veri nemici.

Per uscire da un concetto infarcito d’ipocrisia, basta capovolgere il bicchiere. Lo si vede: l’Occidente ha degli amici, dei simpatizzanti, degli alleati nelle terre abitate dai suoi nemici. Cose del genere sono avvenute in ogni tempo. Gli antichi romani e gli inglesi dell’Impero furono dei professori nella politica d’infiltrazione. D’altra parte, lo scontro - politico o militare che sia – porta spesso i contendenti ad allearsi con un nemico del proprio nemico che, in circostanze normali, non si vorrebbe per amico. L’abbiamo sotto gli occhi. Per combattere i talebani, gli USA cercano l’amicizia della Russia, che fino a ieri erano impegnati a schiacciare.

La quinta colonna (i Quisling, gli amici dei nemici della patria) non l’hanno inventata i tedeschi o i norvegesi, ma credo gli ateniesi e gli spartani in guerra tra loro.

Se vogliamo cogliere il senso intrinseco del conflitto tra gli occidentali e gli altri, credo che bisogni far ricorso alla storia meno recente. Persino all’antropologia culturale. L’uomo storico è profondamente diverso dalle altre specie, perché vive consumando quel che egli stesso produce con il proprio lavoro. Anzi la storia – persino quelle che non conosciamo, perché la scrittura era ancora da inventare, e che chiamiamo preistoria – comincia il suo percorso con il lavoro, questa ribellione alla primigenia sua natura alla natura altra.

La prima produzione dell’uomo – e quindi il primo lavoro umano – è stata la lavorazione della pietra dolce, per ricavarne armi e arnesi da taglio. L’agricoltura e l’allevamento nascono solo dopo la produzione della pietra lavorata.

Con la nascita dell’agricoltura, alla forma collettiva e cooperativa del lavoro, al cosiddetto comunismo primitivo, su cui poggiava la vita sociale del clan di cacciatori, sopravviene il lavoro individualistico e familistico. La terra, la zappa e dio (la natura, il silenzio, le stelle, gli spiriti).

La produzione del contadino individualista è, di regola, appena sufficiente a nutrire la sua famiglia. Questo fatto fondamentale dell’antropologia culturale si è protratto, quasi dovunque, fino al secolo XVIII. Per esempio, nell’Italia di Cavour il mondo rurale comprendeva circa il 70 per cento della popolazione, e spesso sia gli stessi contadini che gli urbanizzati pativano la fame.

Certamente la storia della scarsità pare interrotta dalla presenza di civiltà che non soggiacciono al ricatto della produttività agricola. Per esempio i Fenici, i Greci, gli Arabi, o da noi, i veneti, i genovesi, i fiorentini del Rinascimento. In tutti questi casi, però, lo squilibrio alimentare positivo è chiaramente caricato su altre popolazioni. Oggi avviene l’identica cosa. Il benessere di noi occidentali è duramente pagato dalle popolazioni che stanno fuori dei confini dello sviluppo. Gli storici e gli economisti non amano tale tema, ma far finta di niente non basta a cancellare i fatti.

A partire dalla fabbricazione delle ceramiche, della lavorazione del bronzo e del ferro, nelle terre meno avare il contadino può trovare convenienza a dare qualcosa delle sue sussistenze, pur d’avere manufatti che rendono più produttivo lo stesso lavoro nel campo, o che per lui è molto impegnativo copiare. Per esempio asce, falci, zappe, vasi, orci, brocche.

Da questo momento il livello della civiltà di un popolo - la forza con la quale la sua cultura penetra e permea le altre – viene misurato in base alla tecnologia artigianale che ha raggiunto. Gli Arabi dominano il Mediterraneo, possiedono la Sicilia e buona parte della Spagna per via delle loro spade, ma non tanto perché le usano, quanto perché le vendono a chi non sa fabbricarle. Il Rinascimento italiano è più frutto del lavoro di umili tessitori, che sanno adoperare il telaio in modo magistrale, che di Giotto e Michelangelo. A fare ricche Firenze, Siena, Bologna, Padova, Milano, non furono sicuramente Piero della Francesca o Paolo Veronese, ma i damaschi, i velluti, le trine. E anche i muratori, gli orafi, i falegnami, i sellai, i fonditori, i fabbricanti di arpe e di violini.

Ma mentre Leonardo, in piedi su una rozza impalcatura di travi, affresca, usando un pennello di crini di animale e colori ricavati pestando sassi e scorze d’altero, il refettorio di una comunità ecclesiale, alla cui alimentazione provvedono migliaia di contadini disseminati per i campi delle basse contrade di qua e li là del Po, un falegname russo produce uno sgabello o un tavolo, un fabbro ungherese forgia una falce, un sarto turco cuce un abito, una tessitrice indiana fabbrica alcuni metri di cotonina. Voglio dire che se, tra Leonardo e gli artigiani citati, la qualità del lavoro è incommensurabilmente diversa, gli attrezzi e gli strumenti, con cui entrambi lavorano, stanno nella stessa era antropologica. Anche se con diversa perizia, sono strumenti semplici, fabbricati a mano e destinati all’uso manuale. Donde manifattura.

Da Londra a Calcutta, da Madrid alla Nuova Caledonia, da Napoli a Mosca, il mondo era uniformemente abitato da contadini e artigiani, equamente distribuiti secondo la domanda della collettività. Città e villaggi venivano alimentate essenzialmente dai contadini del loro contado e in ogni luogo c’era un giusto assortimento di mestieri. Solo un re era così ricco da potersi permettere l’ingaggio di un maestro forestiero eccezionalmente geniale, come Leonardo.

Certamente i contadini e gli artigiani del mondo non erano egualmente bravi e colti. Notevoli scarti nel livello delle tecnologie e della cultura sociale ci sono sempre stati. I greci dell’Italia meridionale, vinti e oppressi dai rozzi romani, si davano schiavi, per poter vivere. Però, con la loro superiore cultura e con le loro tecniche affinate divennero i maestri dei loro padroni. Conquistarono Roma vincitrice, annota uno storico latino. Vorrei rilevare, però, che i rozzi romani erano in condizione di capire e imparare. L’imitazione delle tecnologie più progredite, da parte delle popolazioni arretrate, è un fenomeno costante della storia universale fino alla rivoluzione capitalistica. L’uomo imita. Nella storia universale il capitolo relativo all’imitazione è molto più importante di quello relativo alle guerre e alle conquiste che ci fanno studiare a scuola. Quando Pizzarro s’impossessò del Perù gli indios non conoscevano i cavalli, ma appena due secoli dopo i pellirosse erano i migliori cavalieri del mondo.

Era, quello, un mondo felice? Più felice del nostro? Sicuramente no. Ma in quel mondo, tutti i poveri lavoravano, tanto è vero che il poema ebraico detta una frase che adesso non serve più, e nessuno capisce: E tu donna partorirai con gran dolore, e tu uomo produrrai il tuo vitto con il sudore della fronte.

L’equilibrio decimillenario tra agricoltura e manifattura è stato interrotto a partire dal secolo XIX, con la diffusione del sistema di fabbrica e del capitalismo, che trovò un favorevole terreno di coltura nella restaurazione degli Stati nazionali, dopo la sconfitta di Napoleone e l’affossamento del sistema continentale.

Nel corso di pochi decenni le fabbriche inglesi, belghe, francesi, tedesche, statunitensi, nipponiche si sono accaparrata tutta la manifattura del mondo. Dovunque non fosse cresciuta l’industria, o dovunque fu impedita – come nel nostro Meridione, in Argentina, in Brasile, in Cile – le popolazioni si sono trasformate in sovrappopolazione. Un fabbro non serve più, un falegname neppure, un barbiere meno che mai, un sarto è troppo caro. Certo è un incredibile progresso. Gli occidentali siamo tutti ricchi; persino i poveri lo siamo. Ma questo nostro progresso di industrializzati, non essendo governato - pretendendo politicamente, moralmente, religiosamente, filosoficamente, giuridicamente, di non essere governato - ha portato la fame nel mondo. La globalizzazione non corre con i cavalli alati del dio Apollo, ma su destrieri feroci, che seminano il mondo di morte, come i quattro cavalieri dell’Apocalisse. L’antico mondo del contadino individualista è tramontato dovunque. Come in un clan primitivo tutti gli uomini collaboravano alla caccia del cervo, oggi tutto il mondo collabora alla produzione. Solo che allora i vecchi e gli inabili non erano lasciati morire di fame.

Oggi, gli industrializzati comprano materie prime in tutte le parti del mondo e vendono i loro manufatti in tutte le parti del mondo. I manufatti antichi, richiedendo più fatica umana, sono stati aboliti dal progresso, ma una grande parte del mondo non partecipa alla produzione mondiale. E neppure al consumo mondiale. Da un lato è troppo arretrata, dall’altro è troppo povera.

Un esercito mondiale di inutili sta inutilmente sulla faccia della terra. Questi esseri di aspetto umano hanno persino dimenticato la prescrizione biblica concernente il sudore della fronte. Razzolano fra i rifiuti, come i gatti e i cani randagi[1].

La guerra di Bin Laden è la guerra degli inutili, i quali, in un rigurgito di umanesimo chiedono di tornare utili, come lo furono i loro padri e nonni. Ed è anche una guerra che gli inutili perderanno, perché per andare a caccia ci vuole un fucile. La Civiltà sa difendersi. Il console Gaio Mario, molto prima di Hiroshima, in un solo giorno fece fuori ben 200 mila barbari arrivati da oltre Reno (o da oltre Danubio, non ricordo) fin nelle vicinanze di Marsiglia. E dopo qualche tempo si replicò brillantemente nella Pianura Padana.

 

Nicola Zitara

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[1] E non c’è spazio per il cinismo. Fra dieci o quindici anni, anche in Meridione, chi ci sarà, sarà costretto a farlo. Infatti sarebbe un grossolano errore politico quello di dimenticare che il vero, grande nemico del lavoro meridionale fu ed è l’Italia restante. L’esempio più clamoroso si ebbe quando lo Stato appena unificato, con un’arroganza che meglio si sarebbe attagliata a un nemico in preda ad atti di saccheggio, divorò nelle regioni meridionali ogni risorsa disponibile, per impiegarla nelle regioni settentrionali; patriottica gentilezza che il Meridione pagò mandando la metà dei maschi in età lavorativa a servire l’Argentina e gli Stati Uniti.

 

 

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