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Telecom: i soldi nostri che volano

di Nicola Zitara

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Siderno, 11 Aprile 2007

Quando le cose vanno male in Toscopadana, a pagare di più è sempre il Meridione. Se non fosse per questo, non mi occuperei del problema Telecom: il servo che si mette nei panni del padrone è due volte servo.

Se il Centronord naviga con il vento in poppa è una valvola di sfogo per la disoccupazione meridionale. A livello macroregionale, emigrazione significa una perdita secca dei costi sostenuti da un comune, una provincia, una regione per portare un giovane alla capacità di produrre.

Tuttavia a livello individuale e familiare l’emigrazione permette a milioni di meridionali di sottrarsi alla tenaglia della disoccupazione e della servitù ai corrotti potentati locali. O mangi la ministra o ti butti dalla finestra.

Un diverso aspetto della relazione fra le due formazioni sociali è sta nel fatto che il produttore nordista è costretto a lasciare una fetta del suo profitto al distributore meridionale. Senza tale ulteriore attività lavorativa, la merce prodotta non arriverebbe all’acquirente meridionale (e non intascherebbe i suoi soldi).

Oggi il Meridione vive in gran parte con tale lavoro. Le entrate corrispondenti girano invisibilmente anche fra chi apparentemente non c’entra: altri distributori, altri salariati, artigiani riparatori, pescivendoli, fruttivendoli, professionisti, insomma le famiglie in genere.

C’è poi anche il fatto che, quando le cose al Nord vanno bene, lo Stato incassa di più, e ciò gli consente di spendere qualche spicciolo in più anche qui: quantomeno foraggia un maggior numero di personalità addette all’inquinamento politico.

Se Telecom sarà venduta agli americani, i profitti realizzati in Italia viaggeranno verso altre sponde. Si tratta ogni anno di una cifra da capogiro. Per capire cosa significhi per un paese l’esternazione dei profitti, basterà pensare al petrolio, che nei luoghi di estrazione lascia dietro di sé una scia di fame e di guerra, mentre arricchisce le ancora vive e vegete Sette Sorelle.

La telefonia fissa dà luogo a una specie di tassa bimestrale, in tutto e per tutto simile a un’imposta a carico dell’abbonato (per esempio all’ICI) di euro 24,28 al netto di IVA. Moltiplicando per sei bimestri, in un anno fa euro 145,68 (pari a ex lire 280 mila).

Siccome i telefoni fissi familiari sono più di 25 milioni, solo per questa voce le entrate in contanti per Telecom sono di euro 3.642.000.000, che si legge 3,6 miliardi di euro, pari a più di settemila miliardi di ex lire.

Le aziende private e le pubbliche amministrazioni pagano canoni ben più elevati. Bisogna poi aggiungere le telefonate. A un’ipotetica media di 70 euro a bimestre, cioè di 420 euro all’anno, si arriva ai 10 miliardi di euro e passa, cosicché non è difficile ripetere quanto (con molta riservatezza) raccontano i giornali padronali, e cioè che il fatturato Telecom è il più alto in Italia. Le entrate della Società telefonica sono seconde soltanto alle entrate tributarie.

Questa cifra da capogiro staziona nelle banche milanesi; cosa che spiega come il Nord bossista “lavora e produce” e il Sud, per vedere un po’ di soldi, deve augurasi che prosperino le aziende mafiose.

Nella faccenda Telecom, che ottiene titoli di testa a cinque o sei colonne, gli americani sono soltanto “il compare”, il mezzano che s’infila nelle trattative per alzare il prezzo della vacca. Sicuramente saranno le banche milanesi a ricomprare Telecom. Cioè saremo noi a pagarla più di quanto vale, anche noi del Sud.

Basta canalizzare la pensione in banca e avremo messo i nostri 1000 euro di anticipazione di capitale per il riacquisto di Telecom e per premiare con 8000 miliardi di ex lire come buonuscita l’illustre socio di maggioranza (18 per cento del capitale),Tronchetti-Provera, che avendo portato a rovina un servizio che funzionava e un’azienda, la Sip, che stava al passo con i tempi, non reggendo ai debiti contratti, adesso lascia, ma per lasciare pretende una buonuscita di ben 7000 miliardi di ex lire.

Tuttavia , se Telecom andrà a stranieri, gli italiani si troveranno nella condizione degli africani e degli asiatici che, proprietari di pozzi petroliferi, arricchiscono i ricchi.

Lo Stato vendette la ex Sip, che valeva 100 mila miliardi di vecchie lire, per appena 600 miliardi alla Fiat (un duecentesimo del valore reale). Questa la rivendette per 45 mila miliardi a Colaninno e ai suoi soci banchieri. Colaninno non impegnò il suo, ma soldi prestati dalle banche dai soci. Poi la rivendette a Provera e soci bancari per 90 mila miliardi sempre di vecchie lire, ovviamente soldi delle banche, cioè soldi nostri.

Si tratta di grandezze finanziarie d’importanza nazionale, per cui non si capisce (o si capisce fin troppo bene) per quale motivo la nuova legge bancaria conceda tanta libertà alla banca di usare spregiudicatamente i soldi della clientela, oggi composta praticamente da tutti i lavoratori.

Il discorso tocca i princìpi. Il tanto declamato liberismo è un grande imbroglio. Sorvoliamo pure sul fatto che, se salva la collettività il cui consenso permette al grande capitale di compiere i suoi misfatti, diffonde altrove la fame, le malattie, la droga, i micidiali armamenti moderni; questo fra popolazioni disprezzate, e che tuttavia hanno attraversato centinaia di migliaia di anni d’esistenza umana su questa terra; e che impoverisce i poveri per permettere ai ricchi di accumulare il capitale. Ma basta mettere per un attimo in moto i ricordi per capire che se l’impresa va bene, essa giova al padrone e che se va male, paga la gente.

Vige, infatti, l’idea cretina che l’imprenditore incapace ha rischiato il suo. E invece non è così. Si è mangiato soldi della collettività.

Sebbene Telecom non sia un petroliere portatore di olocausti, è tuttavia un malanno; uno degli innumerevoli disastri della filosofia del saccheggio in guanti bianchi delle poche risorse disponibili fra le classi subalterne.

Il padronato degli intrallazzi, reso accettabile dalla retorica liberista, non solo infligge pesanti condizioni di esistenza alle famiglie, ma è anche riuscito a cancellare il vecchio confronto politico fra la classe del lavoro e la classe del profitto, che era sottinteso dalla Costituzione repubblicana.

In Italia, a fare da mosca cocchiera all’involuzione politica è stata sicuramente la cosiddetta sinistra, principalmente gli ex PCI, che per salvare il potere conseguito hanno abiurato la loro fede e ingannano gli italiani affermando che la giustizia sociale passa attraverso l’ingiustizia sociale e il maggior profitto, il più largo arbitrio, il più gran libertinaggio delle classi agiate e capitalistiche.

Siamo al punto che mettiamo alla gogna i ladri di galline parcheggiati nelle Asl calabresi e non vediamo le corna che troneggiano sulla fronte di chi governa e quelle che stanno in fronte a chi finge di stare all’opposizione.





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