L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Solitudine Disperazione Retorica

Gioia Tauro è un'isola, Reggio in cima all'Aspromonte

di Nicola Zitara

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Siderno, 27 Maggio 2009

Un grande giornale, regolarmente milanese e confindustriale, dà notizia del progetto di un polo portuale tra Venezia, Trieste, Ravenna e Capodistria (ex-Jugoslavia) che dovrebbe fare da sponda al traffico oceanico dell'Europa centrale con l'Oriente, nonché riassorbire in Adriatico parecchio del traffico portuale delle stesse regioni venete attualmente dirottato su Genova, che dispone di attrezzature portuali adeguate. Sarebbe un risparmio e anche una difesa dell'ambiente, sostiene il presidente del consorzio.

I Veneti sono un popolo forte e laborioso, che con l'unità d'Italia ha pagato a Milano a Genova e Torino costi durissimi, almeno quanto il Meridione. Ma ultimamente ha saputo riscattarsi e diventare in Italia il ceppo regionale d'avanguardia. Bisogna imparare dai Veneti. Ovviamente non a fare quello che loro fanno, perché tra il Triveneto e il Sud la geografia è diversa quanto è diversa la terra dal cielo, ma a progettare attività che diano lavoro e benessere. Il Triveneto è in parte pianura bassa in parte vera montagna, a ridosso dell'Europa centrale; le Due Sicilie sono terra circondata dal mare. Il mare ci lega al resto del mondo, l'Italia ha spostato questo legame sulle Alpi. E' dal tempo dell'unità che, quando comunichiamo, ci tocca farlo attraverso il filtro di Roma o di Milano. Chi ha i miei anni e la mia formazione familiare, ricorda Reggio negli anni del dopoguerra, quando l'Italia era ancora divisa o non ancora veramente riunificata. Nel porto approdavano le navi Liberty con gli aiuti americani. Farina, zucchero, caffè, scatolette, baccalà. Questi aiuti viaggiavano verso la Calabria restante e le altre regioni sulle due linee ferroviarie appena riparate. La Città sembrava una metropoli. Sorgevano molini e pastifici. Nasceva Mauro. Le vie intorno al porto pullulavano di spedizionieri, uffici commerciali, ciurme per lo scarico, il Miramare era affollato quanto mai lo era stato prima e mai lo sarebbe stato in appresso. Ma la terra vinse sul mare. Priolo, Andiloro, Calarco e decine di altre persone rispettabili si scannavano fra loro per chi avesse diritto a un posto a Roma.

 Oggi i legami del Sud con il resto d'Italia si esauriscono alle istituzioni politiche, alla lingua, a forme accettabili d'integrazione sociale connesse all'emigrazione. Per il resto sono due mondi che non comunicano. La crisi mette a nudo l'estraneità. Che sarebbe assurdo ridimensionare a incomprensione. Basta aprire un giornale tendenzialmente di sinistra o vedere un telegiornale qualunque, per farsi coinvolgere nel sentimento di tragedia incombente sulla classe operaia e sull'economia nazionale. Eppure, a esser freddi e a usare la ragione, quel che sta accadendo o potrebbe accadere nell'Italia dominante è del tutto una bazzecola rispetto alla condizione in cui versa il lavoro meridionale. Il tasso di disoccupazione è ingannevole, falsifica la realtà. E' invece il tasso di occupazione sulla popolazione in età di lavoro il dato da controllare. Rispetto al Centro-nord, che ha un tasso d'occupazione intorno a 65 persone su 100 in età di lavoro, il Sud è bloccato a poco più di 50. Al Centro-nord in crisi basta un cerotto sulla ferita per rimediare, qui sarebbe necessaria l'opera di un intero reparto di chirurgia, impegnato in un intervento di durata decennale per ridare al malato un po' di respiro.

Al Centro-nord i cerotti hanno un senso. Qui, no. Si versano lacrime sulla condizione dei precari a 700/800 euro al mese. Il giovane disoccupato meridionale che ottiene un posto precario da 800 al mese è un raccomandato del partito, una persona invidiata dai coetanei che si grattano le ginocchia e che ottengono dal padre o dal nonno i 15 euro necessari per una pizza e una birra.

Il Sud va ripensato in grande. Non in piccolo. In grande. Nonostante le leggi unitarie, il Sud è un paese a sé stante per geografia, storia ed etica sociale. Un paese che le regioni settentrionali hanno sfruttato per pagarsi lo sviluppo e che non è mai riuscito e non riesce a darsi un senso da sé, come hanno fatto e fanno i Veneti.

 E' accaduto che mentre i calabresi stavano a cantare "Calabrisella mia, 'chiuri d'amuri" un ministro svagato della Roma votocratica, per calmare i reggini in rivolta, fece costruire un porto a Gioia Tauro che nessuno capiva a che potesse servire. I calabresi, occupati a rincorrere eletti ed eleggibili, si dimenticarono del porto, di modo che, un olandese vagante si rese conto che il porto ormai interrato, una volta ripulito poteva servire alle grandi comunicazioni marittime, come già si faceva a Hong Kong e a Rotterdam. E' nata così in Calabra, dopo centinaia e centinaia di anni, finalmente una cosa importante per il sistema mondiale. Ora il Porto di Gioia è cresciuto, è diventato un'entità mondiale, un fiore all'occhiello, però i calabresi non ci lucrano molto. Occorrerebbe che il retroterra gioiese venisse utilizzato per allargare le funzioni portuali all'industria di montaggio, innestando un processo occupazionale di decine di migliaia di persone.

Gioia, un esotico neo nella provincia reggina, un esotico neo in Calabria e nel Meridione, non può essere comunque una rivoluzione occupazionale. E qui bisogna dire che il mondo è cambiato per la seconda volta in sessant'anni. La prima volta morì il mondo contadino, adesso sta morendo l'idea dell'Occidente officina del mondo. L'Europa commercia e scambia con l'America e con l'Oriente, produce per sé e per altri continenti e paesi, compra da altri. I traffici di grande stazza navale, appena finita la crisi, riprenderanno al ritmo interrotto. Il Sud, per lunghissimi decenni, ha chiesto allo Stato di diventare un paese industriale. Quest'idea adesso serve poco o non molto. I meridionali devono fare come i Veneti: puntare l'obiettivo sui traffici con i paesi vicini. I paesi nostri vicini sono sulle sponde del Mediterraneo. Non si tratta di paesi ricchi come l'Austria e la Germania, sono invece paesi poveri, spesso molto poveri, ancora più spesso paesi densamente popolati. Il Meridione deve imparare ad aiutarli a sviluppare le loro economie, al fine di creare una rete di scambi mediterranei, come al tempo in cui Archimede partiva da Siracusa per raggiungere Alessandria d'Egitto solo in un paio di giorni, su una trireme con 500 rematori. Non servono donazioni. Questi paesi li aiuteremo se compreremo da essi derrate agricole e animali, a preferenza dei fornitori europei, che ci fanno pagare cari il latte, le carni, le verdure, il vino e altri alimenti. L'operazione d'interscambio va condotta fuori dalle sale della politica e affidata alle camere di commercio, agli industriali, agli uomini d'affari, agli speculatori. La politica è senza fede e senza patriottismo, è un mondo bacato, in cui anche le persone serie finiscono con il diventare dei quaqquaraquà.









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