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Due Sicilie
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La borghesia ‘compradora’

di Nicola Zitara

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Siderno, 15 aprile 2005

Considero il neoconsigliere regionale, Luciano Racco, una delle persone più intelligenti e pratiche di Siderno. Egli appartiene alla speciale razza dei donisani (da Donisi, un borgo di Siderno) che è dotata di spirito d’impresa, d’ardimento e di realismo. La secolare emigrazione in America conferisce loro una visione moderna del business, che la Siderno restante non possiede. E’ merito loro se da una ventina d’anni  il paese si pone commercialmente all’avanguardia fra le Marine vicine. Luciano Racco è  inoltre un socialista rampante, un anima craxista per natura. Come imprenditore, se fosse  milanese, più che una Gru – la città mercato che amministra - avrebbe un intero Zoo. Come socialista, credo che vorrebbe un partito guidato da un’avanguardia di associati alla Confindustria.

Personalmente ammiro il realizzatore e  temo il politico. La Calabria  e il Meridione in genere non hanno bisogno di modernità al servizio di Milano,  ma di modernità idonee a  valorizzare, a rendere attivo e produttivo il potenziale umano, la forza lavoro (braccia e cervelli) di cui dispongono e che purtroppo rimangono inattive. Voltandola in termini di geopolitica, al Sud, la classe sociale, che gli economisti latino-americani  hanno definito  “borghesia compradora”, legata com’è agli interessi di Milano, rappresenta un nemico reale e possente. Trattasi di regola di imprenditori moderni che fanno da tramite tra le aree sviluppate e le aree sottosviluppate, tragicamente depresse dai  meccanismi del mercato capitalistico.

In un’intervista concessa la settimana scorsa a la Riviera, Racco ha affermato che “la Calabria deve imparare a camminare sulle proprie gambe". Siccome conosco Racco, so che non si tratta del solito bla bla del politicante che ripete una frase orecchiata nei comizi o colta nell’articolo  di un giornalista di Sole24Ore. Nella sua logica, come in quella del suo amico e compagno Saverio Zavettieri, il concetto “proprie gambe” equivale a una precisa visione della questione meridionale; una visione che essi si lusingano di considerare moderna.

Supponiamo che il lettore ignori questa loro visione, e ragioniamo. “Camminare con le proprie gambe”, prima d’ogni cosa significa che la Calabria ha le gambe, ma non le usa. A questo punto le ipotesi sono due. Prima: i suoi muscoli non reggono all’esigenza di muoversi. Seconda: essendo pigra, preferisce farsi portare dagli altri. Racco è sicuramente un fautore della seconda ipotesi.

Viviamo in un mondo in cui si vende e si compra. Chi non può comprare muore di fame: questo è assolutamente certo. Ma qual è il destino di chi non ha niente da vendere?

La posizione della Calabria come venditore è precisata come segue.



Esportazioni italiane da alcune regioni nel 2004

Regione
Valore in miliardi di euro Per abitante. Euro Per cento sulle esportazioni italiane

Lombardia

73,7

8.322

28,6

Veneto

36,4

8.308

14,1

Calabria

0,3

145

0,1

Nella storia di lungo periodo, la singolare aridità della Calabria, che la tabella mostra, è un fenomeno assolutamente inedito. Lasciamo andare il passato lontano, allorché la regione era la centrale mondiale per la produzione della seta e dei drappi serici e dello zucchero. Sorvoliamo anche il passaggio settecentesco e del primo ottocento relativo alle esportazioni olearie, che facevano della regione la seconda esportatrice del Regno napoletano e di Reggio la seconda o alternativamente la terza città dello stesso, immediatamente dopo Napoli e in concorrenza con Bari. Fermiamoci, invece, solo per un momento ai primi trent’anni del Regno d’Italia. Il Sud reagisce coraggiosamente alla sopraffazione e alle devastazioni unitarie (spostamento della capitale, fine delle forniture militari, chiusura delle industrie, blocco dei Banco, fuga di Rothschild e delle maggiori realtà straniere presenti nella capitale, drenaggio dell’oro, fiscalità). Per la nostra agricoltura fu un momento di fervore quasi magico. Le esportazioni di olio, vino, agrumi e zolfo pareggiarono le esportazioni padane di seta. L’Italia non aveva altro da vendere. Il Sud nel suo complesso raggiunse e superò le esportazioni di Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria. In quel concerto la Calabria suona, eccome! Aveva le gambe e le usò al meglio. Tutte le Marine joniche, Siderno compresa, sono state costruite su un mare d’olio, nei trent’anni che vanno dalla resa di Gaeta alla liquidazione fallimentare, nel 1892, della Banca Nazionale del Regno d’Italia (l’antenata della Banca d’Italia), che era stata  imposta, nel 1860, dal Piemonte e dalla Liguria al resto degli italiani, perché ne finanziasse lo sviluppo.

Per le regioni egemoni (Liguria, Lombardia e Piemonte, con Roma legata al loro carro in quanto capitale), il tracollo della Banca Nazionale fu come il suono di una campana a morto. Per colpa delle sue ingordigie municipali, effettivamente smisurate, l’Italia padana stava perdendo il treno della storia. Si cambiò politica. Si adottò il protezionismo commerciale, cosa per cui i Borbone erano stati severamente bacchettati. Si tentò la via dell’industrializzazione. Le rimesse degli emigrati in America fornirono i capitali occorrenti, ma l’industria andava sostenuta dall’intero paese anche nel corso del suo operare. La funzione dello Stato, che in precedenza era incentrata sull’arricchimento degli speculatori toscopadani e all’armatura urbana dei loro municipi (Firenze, Milano, Roma rifatte a spese di tutti gli italiani), si volge all’industria nascente. L’agricoltura meridionale è immiserita, le popolazioni meridionali taglieggiate. Un kilowatt di corrente elettrica costa otto volte che in Inghilterra, un quintale di concimi chimici sedici volte che in Germania, un chilo di zucchero tre volte che in Francia. Il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, che raccolgono una larga fetta delle rimesse dall’America, vengono letteralmente asserviti agli interessi padani. Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, le imprese meridionali sono annientate. Il Sud perde le gambe, diventa una “colonia di consumo” (delle merci industriali rivendute provenienti dal Settentrione).

Questa spremuta di storia patria dovrebbe essere sufficiente a spiegare che il Sud, le gambe, le ha perdute in guerra: in una guerra civile tra Nord e Sud, mai dichiarata, invisibile, fatta di interminabili corpo a corpo per un tozzo di pane, ma non per questo meno micidiale. 

La mia generazione ha visto il Sud senza pane. Non c’era, a quel tempo, chi non piangesse. Qualcuno se lo ricorda, altri, ottenuto un posto di maestro di scuola o di medico della mutua, l’hanno dimenticato. O forse hanno immaginato che quel tempo non sarebbe mai tornato. O più semplicemente, partiti con poco pane e niente companatico,  si sentono grati a uno Stato che gli ha assicurato uno stipendio dignitoso, benché proprio lo stesso Stato avesse impoverito le loro famiglie. Invece ci risiamo. Al punto in cui è scivolata la capacità d’acquisto delle classi subalterne, basta una sola spinta per riportarci al 1948, agli aiuti americani, all’Ente Comunale di Assistenza (ECA) e all’elenco dei poveri. Il Sud stringe la cinghia e la Toscopadana si dà alle follie. Ferrovie, trafori, fiere campionarie, aeroporti, teatri, cittadelle della scienza, cittadelle della nautica, cittadelle dell’agricoltura, Mose a Venezia, Giobbe a Milano, Sansone a Torino, David a Genova e dio sa cosa a Trieste. Puttane bibliche al lavoro sulle strade periferiche delle “città d’arte” (turistica), puttane hollywoodiane al lavoro sotto i fari della televisione, a Milano e a Roma. Attraverso l’opera fattiva di Amato, Ciampi e Tremonti,  il Sud è stato messo in riga per il prossimo “soccorso invernale”. 

Conoscendo  le vicende di questo Stato, si arriva a distinguere la storia dalle storielle. E la storia vera è che lo Stato nazionale italiano è stato ed è il più fiero nemico delle popolazioni meridionali. Peggio dei Normanni, peggio degli Angioini, peggio della Spagna, peggio della Chiesa romana. Le nostre gambe sono state maciullate dagli immondi cingoli del capitalismo protetto.        

Rimettersi sulle proprie gambe, per la Calabria e per il Sud significa, puramente e semplicemente, liberarsi di questo Stato. Categoricamente, non può significare una cosa diversa, come per esempio modificarlo dall’interno. Tuttavia la larga maggioranza dei meridionali ritiene – sulla scorta della sua acculturazione padanista e delle volgari insinuazioni che passano come verità nelle scuole e in televisione - che il Sud non usi le sue gambe in quanto gli fa comodo camminare con le gambe degli altri. Pensa che il nostro impegno dovrebbe consistere nell’emulare lombardi, liguri ed emiliani.

Non esiste una visione più manichea e al tempo stesso pericolosa,   antiquata, cavourrista, plebea,  del nostro voler essere fra le genti del mondo. La modernità, l’internazionalismo,  non si importano con le merci forestiere, e magari esponendole in uno splendido edificio. Se così fosse, l’Africa Orientale sarebbe la terra più progredita del mondo. Ma vendendo e comprando. Per vendere bisogna, però,  produrre, avere la libertà di farlo. Certo qualcuno dirà che gli investimenti suggeriti e incentivati dall’Unione Europea, dallo Stato italiano, dalla Regione, rappresentano un’occasione da cogliere, delle strade percorribili. Sono invece le Sirene che prima incantano e poi divorano l’incantato. A guardare  le cose nella prospettiva di lungo periodo, non è difficile paragonare i meridionali a un asino tirato per la cavezza. Il  quadro politico dell’appartenenza ciampica non è disegnato da noi, in funzione dei reali bisogni della nostra formazione sociale, ma dai bisogni e dalle convenienze di formazioni sociali allotrie. La causa della nostra rovina non sta nelle gambe, ma nel cervello. E un cervello disinformato  continuerà a esserne la causa finché non impareremo la verità.

Tutti gli Stati occidentali amministrano circa il 50 per cento del reddito nazionale. Da solo, uno Stato vale quanto tutte le aziende di qualunque nazione. Si tratta, allora di stabilire, se ci va bene uno Stato che sia una partigiana sommatoria delle regioni e dei municipi toscopadani o se ci convenga di più uno Stato nazionale napoletano.

Nicola Zitara

 

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