L'unita d'Italia e una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Destino

di Nicola Zitara

(scarica l'articolo in formato RTF o in formato PDF)


Nella famiglia Fusco tutti concordavano sul fatto che alla tenera età di due o tre anni Mimmo era perdutamente innamorato di Sestia, che ne aveva ben diciotto ed era interamente sviluppata dentro e fuori. Sebbene fidanzata, pare che anche Sestia avesse una fiera attrazione per la personcina di Mimmo appena uscita dalle fasce e dalla fase anale; una stranezze dell'inconscio che, secondo gli informati, Freud avrebbe spiegato esaurientemente.

A stare al racconto, l'infante Mimmo stava parcheggiato fra le braccia di Sestia - a strettissimo contatto con quei muliebri argomenti che i maschi di tutte le età trovano di una travolgente eloquenza - per lunghissime ore che a quel tempo formavano la giornata di una casalinga. E pare anche che se qualcuno tentava di toglierlo da quella posizione afrodisiaca, si mettesse a strillare con la forza di un banditore di pesce al mercato.

Amor sacro o profano che fosse, erano tempi in cui una ragazza doveva avere una buona scusa per uscire di casa a incontrare gente. E quale migliore scusa che perfezionarsi nel ricamo con la madre di Mimmo, che aveva imparato l'arte nel miglior collegio di Palermo e passava, meritatamente, per una ricamatrice provetta? D'altra parte la mamma aveva soltanto venticinque anni, e siccome sia lei che Sestia avevano una bellissima voce e, siccome ancora, una suonava il mandolino e l’altra la chitarra, e siccome, infine, Sestia, le finezze della ricamatrice le imparava effettivamente, le due trascorrevano assieme le ore dei lavori domestici e del domestico riposo. Con Mimmo fra i piedi, freudiano disturbatore.

Ovviamente Mimmo non aveva un ricordo diretto di quella infantile passione. Un ricordo vivo aveva invece relativamente a un'età intermedia, non più fra le braccia di Sestia, ma sempre con Sestia a casa sua, a ricamare, a preparare qualche manicaretto in cucina, a cantare e suonare con la mamma. Diciamo che quando non era più un bambinello, ma non ancora il ragazzino libero di scorazzare per le strade del paese che divenne in appresso, accadeva quotidianamente che a una certa ora, sempre la stessa, Sestia esclamasse: "Sono le undici e mezza. Mo' passa Rinomata Ditta".

Rinomata Ditta non era un'azienda, ma il padre, e tutto lasciava credere che Sestia lo odiasse ferocemente. Infatti, nei suoi discorsi additava quel genitore manesco, burbero e obbligatoriamente taccagno, come uno dei peggiori nemici del genere umano; il quinto, se non proprio uno dei precedenti Cavalieri dell’Apocalisse. Anche la mamma contribuiva a trarre in inganno l'ingenuo Mimmo, in quanto pure lei, quando accennava a mastro Mico, lasciava intendere che lo considerava un mostro. E persino suo padre, parlandone, sottintendeva - sornione e divertito - che fosse uno strampalato.

Siccome l’insolito e stridente soprannome pareva fatto apposta per colpire l'immaginazione d'un ragazzino, il ricordo di Mimmo si fissava al momento del quotidiano transito di Rinomata Ditta per la via sotto casa. Mastro Mico Parisi era un uomo alto, vigoroso, solenne nell'antico mantello, che, quasi un ornamento o una divisa, teneva soltanto appoggiato sulle spalle e aperto davanti, se il tempo era clemente, e che invece tirava fin sulle orecchie, per avvolgervisi, quelle poche volte che spirava la tramontana. Così intabbarrato, passava senza mai accarezzare Mimmo - che una carezza la riceveva da tutti - anzi senza neppure guardarlo.

Incedeva lento, pesante e offensivo, burbero e chiuso; la barba nera, ispida di tre giorni, un cappello nero e torvo, a larghe tese. Se incontrava il padre di Mimmo, il farmacista Fusco, semialzava una mano con sole due dita aperte, in un gesto ambiguo tra il pretesco e il diabolico, e lo salutava senza parola. Pareva la Malanova. E Mimmo ne aveva paura. Avendone paura, lo osservava. E osservandolo, con il passare degli anni capì che quella del mastro era rabbia per i tempi avversi e per un mondo che lo aveva messo ai margini. In fondo non era l’orco. Infatti, così cupo e arcigno, andava semplicemente, ogni giorno alle undici e trenta, a comprare il giornale al chiosco di don Salvatore Carbonaro: un manufatto belle époque - cupola ottagonale, fiori di ghisa e vetri colorati - posto all’angolo di una vasta piazza e intonato con i lampioni; artistica struttura che Mimmo considerava la cosa più bella del mondo.

Qui giunto, Rinomata Ditta inforcava gli occhiali e sfogliava attentamente il giornale; ne leggeva i titoli stando appoggiato con un gomito sull’alta soglia del chiosco. Subito dopo si metteva a dottoreggiare con gli altri avventori. Pretendeva di saper dare un’esauriente spiegazione di tutto e su tutto: su Dio, su Mussolini, sul Re e la Regina, sull'Abissinia, sul re d’Inghilterra, che voleva abdicare per amore di una…(a quel tempo la parola non si pronunziava), sulla Francia, che era una repubblica, ma meglio era se fosse rimasta monarchia, sulla Russia, che era una repubblica negativa, perché i comunisti ammazzavano chi la pensava diversamente, sulla Spagna, che era una repubblica dove da un momento all'altro poteva scoppiare una rivoluzione proprio contro i repubblicani. Difatti il mutismo che, nei rapporti privati, era una componente decisiva della selvatichezza del mastro, si scioglieva completamente quando poteva pontificare in politica.

Parlava di qualunque cosa, ma non del nostro passato borbonico. Lo sorvolava non perché l'argomento fosse considerato da tutti ridicolo, ma per non andare al confino. Tutti, però, presupponevamo che fosse quello l’argomento su cui più gli sarebbe piaciuto dottoreggiare. In ogni caso la gente non amava intrattenersi con lui, perché era un interlocutore strambo e presuntuoso; quanto più informato, tanto più fastidioso. E poi quell’incubo che da un momento all’altro potesse mettersi a inneggiare ai Borboni, faceva tutti guardinghi.

Evidentemente sospinto dalla comune preoccupazione, don Salvatore, l'anziano edicolante, dopo averlo lasciato fare per dieci minuti, infilava una mano attraverso le metalliche volute del suo chiosco e toccandogli la spalla diceva: "E mò, Mico, vattene, perché mi allontani i clienti".

Mastro Mico grugniva, ma se ne andava. Si sedeva allora poco distante, su una panchina di ferro, dando le spalle al sole, e stava lì fino al rintocco della mezza, cioè fin quando suonava la mezz’ora dopo mezzogiorno. Infossato nel sedile, il rigido colletto del mantello gli risaliva lungo la nuca. Senza che lui se ne rendesse pienamente conto, sospinto dal mantello, il cappellaccio si sollevava dietro, abbassandosi di altrettanto sugli occhi. Così messo, a Mimmo ragazzino, mastro Mico sembrava meno arcigno. Allora chiedeva spiegazioni.

"Mammà, cos’è una Rinomata Ditta?"

"Una ditta famosa; una ditta di cui puoi fidarti."

"E mastro Mico ha una ditta?"

"L’aveva suo nonno... suo padre... Anche lui, però..."

"Ma suo padre quando è morto?"

"Più di trent’anni fa, io non l’ho conosciuto. Aveva una fabbrica di botti di legno. Le vendeva per l’esportazione dell’olio a tuo nonno... Si racconta che guadagnasse molti soldi."

"Le botti, le portava anche al re borbone?"

"Forse."

"E quel re non gliele pagava?"

"Una volta, i re, era come se fossero i padroni di tutto."

"Quel re l’hanno impiccato?"

"No, figlio, se ne è andato con i suoi piedi."

"No, l’ha cacciato Garibaldi."

"Sì, lui assieme al vero Re d’Italia."

"E adesso mastro Mico è povero?"

"Non propriamente. È un ricco impoverito. Ma certamente non gli manca il pane."

"È brutto essere povero?"

L’argomento era doloroso. - "Non devi chiedere queste cose, Mimmuccio mio... Non lo vedi?... È brutto... bruttissimo... Ma tu non aver paura. Se vuole Dio, non lo sarai mai... I tuoi genitori, se Dio vuole..."

"Mastro Mico è brutto perché è povero?"

"Anche se fosse ricco, mastro Mico sarebbe egualmente un malvagio..."

"Cos’è un malvagio, mammà?"

"Una persona che non ha carità... Uno che fa il male senza un motivo..."

Poi continuava: "Tu sei troppo piccolo per capire la vita... Non devi chiedere queste cose... La vita è difficile spiegarla... Quando sarai grande capirai che le cose cambiano intorno a te, senza che tu possa far niente... Noi diciamo il destino, ma non è il destino... è la vita... Allora bisogna rassegnarsi. Così vuole Dio... Principalmente non pigliarsela con quelli che non c’entrano..."

"Sestia ha colpa?", chiedeva il ragazzino.

"Sestia è buona... un angelo, figlio mio... Solo che il destino..."

"Sestia ha un brutto destino?... Il fidanzato non la vuole?"

"Diciamo il destino, perché non abbiamo studiato, ma è la vita... Tu però studierai... La vita cambia continuamente, cambia la sorte delle persone... Per esempio... la nonna te lo racconta sempre... quel tale che andò a Napoli a imparare a fabbricare cappelli, ma quando tornò, in paese le persone non avevano più la testa.... Vuol dire la fortuna..."

"Ma questo non è possibile, mammà. Le persone, se gli tagliano la testa, muoiono."

"L’uomo vede e Dio provvede. Le cose si combinano fra loro senza tenere conto del dolore umano... Accade che uno paghi senza averne colpa... Il padre di mastro Mico fabbricava botti di legno e faceva fortuna, ma dopo la gente prese a volere i fusti di ferro, e lui dovette chiudere."

"E perché non si mise a produrre fusti di ferro?"

"Non era il suo mestiere. I fusti li fanno in America."

"Qui non li sanno fare?"

"No, qui no... Forse a Milano... Domanda a papà."

"Don Aniello dice che la guarnizione di un fusto non deve perdere neppure una goccia di petrolio."

"Sì. Se poi è benzina, è molto pericoloso... Te l’ho detto, devi stare sempre lontano dai fusti di benzina. Ti raccomando."

"Don Aniello dice che anche la benzina la fanno in America."

"Sì, credo di sì. La benzina si fa con il petrolio, e il petrolio si trova sotto terra, come le miniere... Qui non ci sono pozzi di petrolio. In America sì."

"In America si trova tutto?"

"Sì, così dicono."

"E questa è Calabria Ultra?... Don Aniello dice: 'Ultra eguale a dimenticata da Dio e dagli uomini’... Dice che qui ci sono soltanto briganti ... Anche mastro Mico è un brigante?"

"Che dici, figlio!... I briganti sono finiti…cent’anni... Non stare ad ascoltare don Aniello. Parla male della Calabria perché gli affari gli vanno male…"

"Oh mammà, ma tu non l'hai visto ieri sera al cinematografo che una volta, anche in America si usavano le botti e i barili di legno? Perché lì hanno imparato a fare i fusti di ferro, e qui no?"

"I vecchi dicono che da quando hanno costruito la ferrovia, invece d’andare avanti, qui, stiamo tornando indietro... Veramente, se debbo dire, troppe cose arrivano da fuori... La gente non ha lavoro e così non impara mestieri nuovi... Stiamo qui solo a pagare le tasse."

"Qui lo sanno fabbricare un treno?"

"Un treno?... Sicuramente no... Forse a Milano... Non so bene... In Altitalia."

"Ma mastro Mico non potrebbe fabbricare quelle botti grandi?.. Quelle che abbiamo visto a Mistretta, da zio Bixio?... Non ti ricordi?... Quelle che tanto sono grandi che possono entrarci dentro le persone in piedi... Così darebbe la dote a Sestia, e Sestia si sposa."

^^^

Nessuno - tranne i protagonisti - seppe mai quanto carnale e represso fosse il reciproco amore tra Sestia e Mimmo. Quella costanza potrebbe essere spiegata con il fatto che quando Mimmo, ormai dece/undicenne - scacciato con gli altri ragazzini, a opera del deciso intervento di due guardie, da una pubblica piazza che essi avrebbero voluto adattare a campo sportivo - spesso approfittava della complicità di Sestia per guidare i suoi coetanei nel vasto orto di mastro Mico, onde giocare a palla.

In verità l’orto non era un orto, ma un grande spiazzo incolto - quasi un campo sportivo - recintato da un muro perimetrale, all’interno del quale vi era un’antica casa d’abitazione, anzi un palazzotto padronale, e un vecchio capannone industriale. Anche il termine mastro, per mastro Mico, non era appropriato. Si trattava piuttosto di un 'don' degradato: quello che sarebbe spettato al predetto Mico Parisi, ove egli avesse conservato i fasti della

Rinomata Ditta Antonjo Parisi & Figljo

BOTTAZZJ SECCHJE BARILLJ

Benemeriti Approvvigjonatorj del Real Esercito

SAN POLICARPO DI CALABRJA ULTRA PRIMA

come risultava dalla targa bombata in lamiera nera, vergata con caratteri romani dorati, e tutt’attorno un fregio egualmente dorato,con sopra una corona regia; targa periodicamente ripittata e rifissata sulla possente colonna a sinistra della porta carrabile, proprio all’entrata dell’orto, la quale poteva rimanere lì dov’era, nonostante il divieto di legge, in quanto - sosteneva mastro Mico - da ben tre generazioni i Parisi erano pronti a "spaccare la testa a Dominiddio, anche ai Reali Carabinieri", se qualcuno avesse osato manometterla.

Quella pubblica offesa all'onore della Patria - quale Mimmo la riteneva - restava lì, sosteneva invece suo padre, "perché nessuno la vede, essendo quella parte di spiaggia assolutamente fuori mano. E poi, a leggere quell’epitaffio sei rimasto soltanto tu".

Quanto, poi, al ruolo di Sestia nel far penetrare Mimmo e gli altri ragazzini nello spiazzo recintato e tutt’ingombro di montagne di trucioli e di seghe a nastro arrugginite, si può dire che fosse minimo, poiché dell’intera famiglia, composta da padre, madre, una vecchia zia e otto fra figli e figlie, soltanto il citato mastro Mico tentava d'interdire loro l’accesso svillaneggiandoli e prendendoli a sassate.

Che mastro Mico fosse un bravo artigiano non v’era dubbio. Lo si vedeva sbrigare alquanto rapidamente e ottimamente, con l’aiuto di qualche discepolo, di un apparato di seghe speciali e di molta perizia con l’ascia, le commissioni di guttazzi che gli facevano i produttori di vino. Tuttavia era diffusamente mal giudicato, perché non solo era caristusu, ma anche arrogante nelle relazioni commerciali. E poi, bastava vederselo spuntare davanti, nero e grande com'era, perché riesumassero a livello della coscienza privata e sociale le responsabilità collettive dei calabresi verso l’idea santa di Patria: i Martiri di Gerace, il tradimento dei Fratelli Bandiera, il Vallone di Rovito e, più lontano, il Cardinale Ruffo, le bande contadine con gli stendardi di Santa Fé e i corpi penzolanti di Francesco Caracciolo e Luisa Sanfelice. Sarebbe stato difficile imbattersi in un simbolo umano più intonato di mastro Mico a rappresentare la negatività dell’infame dominazione borbonica. In effetti era sufficientemente violento, sufficientemente scostante, sufficientemente sconfitto, per deporre male di sé e per riflesso dei suoi punti di riferimento politici e dinastici.

^^^

Gli anni passarono, l'Italia divenne un Impero temuto nel mondo - almeno così si diceva. E alla fine arrivò pure la guerra, che sicuramente avremmo vinto, almeno così si diceva.

Nel 1942, per il costume del tempo, Sestia era già una zitella. Solo il fidanzato, se era ancora vivo, tornado dall'Abissinia l'avrebbe sposata senza offendere i canoni sociali. Altrimenti un vedovo. Un uomo giovane e fresco, giammai. Eppure Sestia era ancora fisicamente tosta, come si diceva in paese. Una donna bella e alquanto sexi, si direbbe oggi.

Nicola era andato in Etiopia, in cerca di fortuna, ma dopo l'invasione dell'Impero da parte degli inglesi, prigioniero o morto, non aveva più dato notizie di sé. Di tanto in tanto, Sestia andava a far visita alla futura suocera, ma sempre più sporadicamente e sempre con minor convinzione. Come ricamatrice aveva fatto progressi straordinari. Però le commissioni erano poche, quasi zero. E non solo per lei, ormai per chiunque. Non erano quelli, sicuramente, giorni adatti per pensare ai corredi ricamati. Sempre in urto con il padre, le sue giornate le trascorreva a casa di Mimmo, come una non remunerata dama di compagnia della mamma.

Mimmo non era più un infante, ma un diciassettenne sensibile e ricco di slanci generosi; un liceale studioso e promettente, anche se all'esterno non dava l'idea del ragazzo che passa l'intera giornata sui libri. Appariva invece vitale, fisicamente bello e solido, e anche allegro e vivace di spirito. In effetti egli sapeva nascondere a tutti il suo rovello, che era Sestia, quasi fosse improvvidamente emerso in lui il bisogno di stringere un legame rimasto incompiuto. Appena restava solo con se stesso, il desiderio di lei gli ardeva le membra e gli infuocava il cervello. Ormai, se voleva prepararsi per il giorno dopo, doveva andarsene a studiare a casa di un compagno.

Per quella brama, si sentiva colpevole, sleale, sozzo, incestuoso. Voleva scacciarsela dalla testa, ma non ci riusciva. Sapeva che non c'era niente di morboso, che il suo tormentoso desiderio era un'istanza della compiuta virilità. Aveva letto ben due libri di Paolo Mantegazza - a quel tempo un autore alquanto noto ai giovani e ai meno giovani - nei quali la sua condizione trovava una circostanziata spiegazione. E ne seguiva i precetti igienici. Infatti l'autore avvertiva i giovani a star lontani dalla triste pratica dell'onanismo, che portava alla perdita della memoria, alla stupidità e alla tisi. Impressionato e coinvolto, se ne andava, invece, al casino, ben munito di preservativi, che sottraeva in farmacia, a suo padre. Sebbene non avesse l'età richiesta, la padrona, che era una del paese, lo faceva entrare egualmente. Ma l'ambiente maleodorante, il locale zeppo di soldati, le carni mollicce delle "mestieranti d'amore" lo disgustavano profondamente, al limite della castrazione. Peraltro quei miserabili amplessi erano come una goccia d'acqua per una persona disidratata. Mimmo continuava a sognare le gambe, i seni, la vulva di Sestia e ad avere una o più polluzioni notturne, una cosa che costituiva l'unica, vera, sua liberazione.

A volte gli sembrava che Sestia lo fissasse con il fiato sospeso, invitante. Ma evidentemente si sbagliava. Mimmo aveva letto fin troppi romanzi per non sapere che le donne dissimulano il naturale bisogno di sesso. Ma proprio per questo sapeva anche che la dissimulazione, a volte, assume il carattere vincolante di una legge, come nelle tragedie di Schiller. Certo, qualche volta Sestia si lasciava andare e confidava alla mamma, sussurrando, che non voleva morire sotto le bombe perché "ancora non aveva visto niente del mondo", metafora che Mimmo traduceva: "non ho ancora mai fatto l'amore e non ho ancora goduto il meglio della vita". Ciò nonostante, lui, che pur tanto la desiderava come donna, non riusciva a rendersi conto che lei provava - allora e subito - i bisogni di una donna.

Venne l'estate, con le vacanze, i bagni, le lunghe, interminabili nuotate e vogate, attività a cui Mimmo si prodigava con slancio, perché davano requie alla sua passione. Le cose erano a questo punto, quando una sera fu chiamato in terrazza. Dopo cena, la mamma e Sestia ci salivano a prendere un alito di fresco; e anche per appartarsi e suonare senza disturbare la nonna, che era andata a dormire, il farmacista, che per ascoltare Radio Londra chiudeva il balcone, e Mimmo che leggeva un romanzo, anche lui con il balcone chiuso, per via dell'obbligo dell'oscuramento.

La richiesta era che Mimmo collegasse meglio il fonografo portatile alla presa che era posta a qualche distanza, all'interno della casa, poiché il filo volante che avevano steso si scollegava a ogni piccola vibrazione del pavimento. Mimmo cercò un rotolino di nastro isolante, e trovatolo, compì l'operazione. Poi rimase un po'lì, a godersi, con l'aiuto del cielo stellato e difeso dal buio della notte, la vicinanza di Sestia.

Stava implorando la stella più lucente perché desse pace al suo tormento, allorché la mamma scese d'abbasso per una sua esigenza. Parve che Sestia non aspettasse altro. Si alzo in piedi e gli disse: "Vieni, balliamo".

Ballando, Mimmo non poté impedirsi di stringerla a sé. Sestia aderì alla stretta. Lui avvertì che incassava beata il turgore dell'asta, irresistibilmente erettasi. Tempo un minuto, il corpo dell'una era incollato a quello dell'altro. I forti freni sociali vigenti a quel tempo non la poterono contro quel che la natura da sempre pretende. Finirono stesi sul pavimento. Le mutandine di Sestia vennero divelte da una mano d'acciaio, le sue cosce si aprirono incapaci d'opporsi al destino. Solo una ventina di minuti dopo, i passi della mamma, che risaliva, li riportarono al mondo degli altri.

Erano già le undici passate. Sestia disse: "E' troppo buio. Non torno a casa. Dormo qui". Non era la prima volta, e nessuno si sorprese. La notte, andò in camera di Mimmo e stette con lui. Il giorno dopo si fece convincere dall'insistente richiesta della nonna, che voleva lei dormisse nella camera accanto, così da aiutarla a correre, se fossero arrivati gli aerei a bombardare.

Con lei, Mimmo riacquistò la serenità e la felicità di vivere. L'angoscia che l'aveva avvilito, si spense. La soavità di un rapporto completo, stabile e appagante, trasformò la sua passione in amore. Nacque fra i due, la donna trentaduenne, che l'amore aveva appena sfiorato dieci anni prima con un bacio e una carezza furtivi del promesso sposo, e il ragazzo diciassettenne, quel che oggi si dice un legame.

La notte, stretti nel lettino a una piazza, Sestia, raggomitolata accosto al corpo nudo di Mimmo, una mano carezzevolmente adagiata sul suo pene esausto, diceva come se la cosa riguardasse un'altra persona:

" Se rimango incinta, mio padre mi ammazza…Ma forse ci ammazzano prima le bombe…".

"Ci sposeremo…".

"Tu sei minorenne, come potresti! Mio padre mi ammazza prima".

"La mamma dirà di no, ma la vincerà papà. Lo sai che non ammette sbagli. Chi rompe, paga, dice sempre. Anche per me dirà così. Ti amo. Se bella, bellissima. Con te sono felice. ".

"Ma io ti passo quindicianni!"

"Quando siamo assieme, la differenza non si vede… E poi, non sappiamo se domani una bomba ci ammazza…"

^^^

Nonostante gli anni trascorsi dacché era entrato, per via indiretta, nella vita di Mimmo, mastro Mico non era cambiato, né nel carattere né fisicamente. Pareva che, con lui, il tempo si fosse fermato. Era vicino ai sessanta, ma non dimostrava che quarantacinque o quarantasei anni. In quell'estate del '42, i rapporti fra i due presero una piega prima impensabile. Infatti Mimmo, che era realista e d'indole responsabile, decise di cattivarsene le simpatie, in modo da potere colloquiare con lui nell'eventualità che la pancia di Sestia portasse agli occhi del mondo quel che i loro amplessi avrebbero prima o poi prodotto.

Sapeva che verso le sei mastro Mico smetteva il lavoro, chiudeva bottega e se andava a mare. Alle sei meno dieci, Mimmo usciva di casa, scavalcava il muricciolo della ferrovia e andava a fare un bagno, sistemandosi proprio in corrispondenza dell'orto dal quale, dieci minuti dopo, sarebbe uscito mastro Mico.

Puntualmente alle sei e quattro minuti, con indosso ancora il gilè, questi varcava una porticina seminascosta dai cespugli di macchia mediterranea cresciuti vicino al muro dell'orto, si guardava attorno circospetto e, costatato che non c'erano occhi indiscreti, si sfibbiava l'enorme cintura, si calava i pantaloni e, nonostante in casa avesse il cesso, e un altro l'avesse giù in bottega, si accosciava per defecare.

Liberatosi all'aria aperta, tra il profumo del ginepro e dell'alloro, scendeva a riva, qui si sedeva sul bordo di una barca, si toglieva le scarpe e le calze, si rimboccava i pantaloni e si spingeva con i piedi nell'acqua. Ci stava un pò, e poi tornava alla barca. Si risiedeva sul bordo e prendeva a spogliarsi con estrema lentezza: prima il gilè, poi la camicia, poi i pantaloni, alla fine il largo cappello nero e la maglia invernale con le maniche lunghe. Rimasto in mutande, girava lo sguardo attorno per assicurasi che non ci fossero donne a osservare, per poi spettegolare sulla sua impudica trasandatezza. Ciò constatato, si varava a mare con un tuffo.

In acqua rimaneva una buona mezz'ora, sempre fermo allo stesso posto, a cinque metri dalla sponda. Duecento metri lontano, ormeggiate all'antico pontile, erano le solite zattere tedesche, che si fermavano lì a passare la notte, poiché i fari marini, posti alle due estremità dell'insenatura, osservavano l'oscuramento. Una trentina di biondi giovanotti si godevano il mare, chi nuotando e chi, non sapendo nuotare, infilato in una camera d'aria.

La presenza di soldati stranieri, che usavano il mare come fosse loro, se irritava Mimmo, a dir poco imbestialiva mastro Mico, che usciva dall'acqua mormorando ininterrottamente: u Cagnolu…u Cagnolu…u Cagnolu… Pareva che si dicesse il rosario.

Mimmo lo sapeva da anni, u Cagnolu era Mussolini, che abbaiava come un cane da guardia, e abbaiando aveva salvato u Menza Botta, il re Vittorio Emanuele III, dai socialisti, che sicuramente l'avrebbero cacciato dal Quirinale. Sempre borbottando, si sedeva a mezzo metro dall'onda e aspettava che l'acqua salsa si asciugasse al sole calante. A quel punto Mimmo lo salutava a voce alta e con viso sorridente. Il mastro si degnava di rispondergli come usava lui: il braccio semialzato, la mano semiaperta e due dita mezzo piegate, che pareva benedicesse. Però una volta, inaspettatamente, s'avvicinò e gli disse: "Sapete che somigliate al pronnonno…Morì molto vecchio. Ero già grandicello, me lo ricordo bene. Le botti le comprava solo da noi…Di noi si fidava… Nelle annate cariche, anche cinquecento… perché non le portava indietro da Napoli. Non gli conveniva. Gli avrebbero ingombrato il bastimento. Le vendeva. Prima vendeva l'olio e poi vendeva le botti. A Napoli, le nostre botti le volevano tutti…Gli conveniva. Invece di un viaggio di botti vuote, il bastimento portava grano …

"Mi ricordo pure la pronnonna, donna Marianna…Mi accarezzava sempre quando tornava dalla messa…A maggio, al tempo delle more di gelso, ogn'anno le raccoglievo e gliele portavo…Appena erano mature, gliele portavo…Ma non per il regalo… E sempre lei diceva: 'Torna domani Minique'… Mi chiamava Minique, perché era del Belgio…Sapete il Belgio?…Di Lille…Lì si parla francese …'Torna domani', mi diceva ogni volta, 'ché ti preparo le paste di mandorle, ché le porti alla tua mamma'…Che signora!…Signore così non l'ho più viste…

"Quelli erano tempi buoni per noi…Adesso comanda u Cagnulu…Ma sta per finire anche lui. Presto finisce…La nostra disgrazia è che si tira dietro pure noi".

Mastro Mico si teneva al corrente. I Savoia le stavano buscando su tutti i fronti, pure in Africa. "E ancora non sono arrivati gli americani…Gli americani non sono più quelli della Grande Guerra…Il Giappone li ha svegliati. Vedrete che sbarcano a Tunisi. E se sbarcano a Tunisi, la Sicilia è a due passi…La flotta l'abbiamo perduta…Sbarcheranno in Italia e i tedeschi si ritirano di là delle Alpi. Non gli conviene difendere l'Italia".

A quel punto, i milanesi sarebbero insorti contro u Cagnolu e contro u Menza Botta. "I milanesi?…Non li conoscete, i milanesi! Sono sempre i primi a cambiare bandiera. Ma vedrete…Vedrete!… U Menza Botta, Churchill lo salva, se no qui arrivano un'altra volta i socialisti…E forse pure u Cagnolu salvano… Lo sapete? U Cagnolu era socialista, e mo' vedrete che lascia la camicia nera e piglia un'altra volta la camicia rossa, per inculare un'altra volta gli italiani".

La memorialistica di mastro Mico toccava, però, l'acme dell'autogradimento quando ricordava l'incontro con la regina.

"Ero prigioniero in un campo degli ungheresi…Esseri indegni…Sdisonorati…Si mangiavano tutto e ai prigionieri davano solo sciacquatura e scorcia 'i patati. E botte con i calci dei fucili sulla schiena, sui fianchi… Non vi dico!… Botte da orbi!…La fame era grande, anche le legnate erano dure, ma almeno avevi salva la vita…E fu lì che venne Sofia, a portare indumenti di lana ai prigionieri… Si sparse la voce…'La regina di Napoli…'

"Gli altri non capivano, non sapevano, ma io sì…Così m’inginocchiai – povera vecchia! - e dissi: 'Sacra Maestà'…Lei mi guardò sorpresa. Io dissi: 'Mio padre era a Gaeta’. Lei s'irrigidì…Ma poi mi porse la mano e mi fece alzare. Sudicio com’ero e pieno di pidocchi, mi abbracciò. E mi disse: 'Io mi ricordo sempre … Di dove sei?’…'Calabria Ultra, Sacra Maestà'…Disse qualcosa in tedesco al colonnello che l’accompagnava, e finché rimasi in quel campo fui trattato diversamente…"

Si può dire che a metà settembre, quando comincia il mare forte, tra Mimmo e mastro Mico era maturata una reciproca simpatia, quasi un'amicizia. Mastro Mico era, sì, strambo e permaloso, uno da trattare con le pinze, ma non aveva un animo cattivo. E poi era un uomo informato e un buon conversatore. Se avesse avuto la padronanza della lingua, si sarebbe potuto definire persino un uomo colto. Sicuramente era stato scolaro del canonico Tavernese, come tutti quelli della sua generazione che sapevano leggere, scrivere e conoscevano un po'di lessico toscano. Il di più, invece, curioso com'era di tutto, doveva averlo imparato da sé. E se non figurava adeguatamente, era lui stesso non volerlo. Difatti, avendo deciso di fare dispetto a u Menza Botta, infarciva deliberatamente il discorso di termini gergali.

Solo un'amicizia balneare, però. Infatti, finita la stagione dei bagni, mastro Mico non scese più a mare e Mimmo, riapertasi la scuola, tornò ad avere le ore occupate. Erano anche i giorni della vendemmia, molto impegnativi per mastro Mico. E proprio in quei giorni scoppiò la tragedia.

La briga si ripeteva ormai da un paio d'anni. Contrapponeva mastro Mico a don Pasqualino Baggetta, gestore del Consorzio Agrario. Bisogna ricordare che durante la guerra il vino fu il solo prodotto agricolo - e a quel tempo sicuramente un alimento - non distribuito con la tessera. In paese, poi, scorreva a fiumi, per il fatto che la componente più numerosa del reggimento di artiglieria costiera di stanza, era veneta. Gli agricoltori e i bettolieri pregavano la Madonna che la guerra (magari senza morti) durasse in eterno. Comunque, l’aumentato consumo aveva comportato un aumento della domanda di botti, a cui aveva corrisposto un aumento dei prezzi di mastro Mico. Di conseguenza, anche quell'anno i produttori e i commercianti si misero a fare pressioni su Baggetta perché importasse botti dai paesi vicini. Baggetta resisteva. Si diceva - ma la verità non si seppe mai - che ci fosse una promessa del negoziante a non guastare la piazza all’artigiano. Alla fine, apertamente accusato di connivenza, per non perdere la faccia, Baggetta s'indusse a cedere, e mise in esposizione, proprio dinanzi alla porta del negozio, delle botti fatte venire dalla vicina Serra.

Quando mastro Mico vide quelle novità forestiere, s’infuriò. Entrò d’impeto nel Consorzio e subissò Baggetta di male parole, ribadendo l’assurda pretesa che soltanto lui, in paese, avesse il diritto di vendere delle botti nuove.

Forse in altro momento Baggetta se la sarebbe tenuta, ma a quel tempo il Consorzio Agrario era una pubblica istituzione, ovviamente controllata dal Fascio, il quale certe private iattanze non le tollerava; specialmente poi se provenivano da chi dava l’impressione di barcollare in materia di fedeltà al Duce e al Re, e faceva supporre pensieri sovversivi, mentre la patria era in armi. Per tal motivo don Pasqualino, titolato esponente della pubblica e consortile Autorità, intese fosse un suo preciso e istituzionale dovere di bloccare l’irriverente energumeno. Tentò di farlo con l’aiuto dei propri dipendenti, ai quali - forse - dette anche l’ordine di pestare l’invasore. Ma il mastro, che era ancora parecchio prestante, sbaragliò con una sola manata gli assalitori. Quindi, estratto un coltello, intimò a Baggetta di farsi avanti.

Sfidato, Baggetta dovette estrarre il coltello anche lui, ma - faccia a faccia con il vigoroso amico-nemico tradito - evidentemente capì che la situazione non lo favoriva, e accettò i consigli della paura.

Negli anni successivi, fra il generale divertimento, la si sentiva raccontare in mille modi. In realtà nessuno seppe gli argomenti con cui don Pasqualino perorò la propria salvezza. Sicuramente le parole dovettero essere grandemente eloquenti, se la furia omicida di mastro Mico venne abilmente dirottata verso un diverso, imprevedibile bersaglio. Il fatto certo è che l’infuriato mastro, abbandonata la preda consortile, percorse urlando "carogne... bastardi…sdisonorati" i venti metri che lo separavano dalla sede della Banca e penetrò come un rapace nelle stanze interne. Lì giunto, alzò il coltello sull’esterrefatto ragionier Pisanti, il nuovo direttore, e glielo conficcò in mezzo al petto.

Il mastro venne subito arrestato da una pattuglia della milizia fascista che era già sul posto, richiamata dal trambusto che c'era stato prima al Consorzio. Il povero direttore, invece, fu dichiarato salvo solo dopo una quindicina di giorni, e soltanto per merito del dottor Cimato, chirurgo emerito, il quale aveva fama di non essere al primo dei suoi miracoli.

Quella mattina, rientrando a casa da scuola - una corsa in bicicletta di parecchi chilometri - Mimmo ci trovò soltanto la nonna, la quale lo informò dell'accaduto. La mamma era corsa con Sestia. Difatti alla notizia che mastro Mico aveva ammazzato una persona ed era finito in carcere, la moglie era caduta per terra morente. Il padre, invece, era corso a chiamare il dottor Panaijia.

Quando Mimmo giunse trafelato nell'orto di mastro Mico, ci trovò il finimondo: i carabinieri stavano perquisendo dappertutto, con mastro Agostino e gli altri dipendenti nelle vesti di guide e testimoni; i militi fascisti, con ottanta anni di ritardo, stavano schiodando dal muro la famosa targa; un popolo di curiosi stava a confabulare nell'orto, proprio davanti al portone; la casa era piena di donne in lacrime, che non si capiva bene se stessero piangendo per il povero Pisanti morente, o per mastro Mico in galera, o per sua moglie, morente anche lei.

Mentre stava lì, mezzo istupidito, tornò suo padre con il capitano medico Ferrajolo, che in paese si sapeva essere un illustre cardiologo, e due altri ufficiali medici. Al trapestio delle ruote della macchina sulla ghiaia dell'orto, la mamma andò incontro ai medici, per guidarli dall'ammalata. Intanto il farmacista prese a pregare prima gli uomini e poi le donne d'allontanarsi, perché l'inferma aveva avuto un infarto e doveva restare nell'immobilità e nel silenzio.

I medici - il locale e i forestieri - fecero del loro meglio e dopo qualche giorno si cominciò a sperare nella salvezza di donna Bettina. Contemporaneamente il mutuo soccorso della vineja, che le antiche leggi non scritte prescrivevano a favore del vicino bisognoso d'aiuto, era passato dall'assistenza a corpo morto alla vigilanza disciplinata, con regolari turni presso donna Bettina; cosa imposta dai fatti, poiché di Parisi presenti sul campo c'erano soltanto Ottavio, venuto in convalescenza, e Sestia. Gli altri fratelli erano al fronte e le sorelle, tutte già sposate, avevano il rispettivo marito sotto le armi. Ognuna, quindi, aveva una famiglia a cui badare, e figli ancora troppo piccoli per essere lasciati a sé stessi. In realtà i Parisi si riducevano a tre, Sestia, la madre, la cui vita era appesa a un filo, e Ottavio, sofferente di febbri malariche.

La mamma s'impegnò fino a trascurare la famiglia, per aiutare Sestia. Il farmacista prese in mano l'amministrazione di mastro Mico, affinché i suoi interessi non subissero danni ingiustificati. Mimmo andava e veniva, si recava in farmacia con le ricette, sbrigava altre faccende, assisteva Ottavio e dava ogni aiuto che gli fosse richiesto. A volte il desiderio di Sestia lo mordeva dolorosamente, ma lui lo respingeva come inopportuno. In quella situazione, solo un bruto poteva pretendere di dargli sfogo.

Intanto, l’improvviso volgersi in tragedia di una farsa che aveva divertito giovani e vecchi, uomini e donne, in paese ebbe l'effetto di un sussulto morale. Nonostante che i bombardamenti si fossero fatti più frequenti, la gente andava in piazza per interrogarsi vicendevolmente. A speakers del pubblico dibattito erano assurti inaspettatamente i due fratelli Panaijia: Nicola, il dottore, e Gaspare, l’ingegnere – due signori molto distinti e anche molto riservati, i quali, però, ultimamente pareva avessero perduto ogni freno inibitorio, essendo sempre in giro a parlare e a far parlare la gente di politica. Proprio tutto il contrario degli ordini mussoliniani fissati sui muri con la vernice: Taci! Il nemico ti ascolta.

Quale argomento aveva usato Baggetta in quel momento drammatico in cui stava di fronte a un coltello brandito, per salvarsi? Non c’era dubbio alcuno, aveva accusato la Banca di un vero misfatto ai danni di mastro Mico. "Sicuramente il fatto delle cassette", tutti lo giuravano. Ma un fatto così lontano avrebbe mai potuto imbestialire il bottaio?

^^^

Raccontava il dottore Panaijia che circa vent’anni prima, mastro Mico, tornato dalla prima guerra, si era ritrovato "povero e pazzo", senza danari, senza più clienti e con una famiglia da campare. Il mestiere di bottaio era finito. Infatti i contadini non ripiantavano le viti seccatesi nei lunghi anni in cui essi erano stati al fronte. La fame era grande e chi sapeva tenere in mano una zappa la usava per piantare patate, che crescono presto e si possono mangiare subito. La produzione di vino s'era ridotta a un quinto, forse meno. Non avendo più commissioni, mastro Mico aveva deciso di avviare una nuova attività: le cassette per gli agrumi. L'esportazione dei limoni era l'unica cosa che tirava magnificamente. I vapori inglesi arrivavano sotto costa, persino in pieno inverno, quando non sempre il mare è calmo, a caricare. Con gli inglesi, l'imballo era a perdere, cosicché il fabbisogno di cassette si riproduceva costantemente. Per mettersi nel settore, mastro Mico aveva acceso un'ipoteca sulla casa e con il ricavato aveva acquistato seghe e pialle che andavano a motore. Ora – diceva sempre il dottore - essendo la nostra zona povera di pioppi, che è il legname meno costoso, più leggero e tenero sotto la sega, mastro Mico andava a comprare quel tipo di tronchi a Corigliano, che è un paese in provincia di Cosenza, dove i pioppeti sono abbondanti. Però, così facendo aveva pestato i piedi al cavalier Mittiga, che era l'amministratore dell'Azienda Boschiva Margherita di Savoia, con sede in paese. L'impresa era grossa e ogni anno tagliava milioni di metri cubi di legname. Dietro - si sapeva - c'erano niente di meno che gli interessi della famiglia reale, proprietaria de Le Cerze, un bosco che prima della guerra era tenuto in affittato da una fabbrica tedesca di fiammiferi, ma che in quel momento andava male, perché di legname d'opera se ne vendeva ben poco. Pochi, infatti, erano quelli che costruivano - sempre secondo Panaijia, che essendo ingegnere ben lo sapeva - e quei pochi ormai costruivano con il cemento e non più con le travi di castagno.

Si disse - ma nessuno poteva giurarlo - che il cavalier Mittiga avesse convocato mastro Mico per offrirgli tronchi di castagno a buon prezzo; che l'avesse persino pregato. Ma, incurante della convenienza, mastro Mico non avrebbe accettato per fare dispetto alla casa regnante. Gli affari gli andavano a maraviglia e lui se ne fregava di tutti, principalmente del re. Le sue cassette fruttavano quasi quanto i barili del nonno. Ma si trattava - continuava l'ingegner Panaijia - di un'impresa più grande di lui. Infatti, più crescevano le vendite, più capitale gli occorreva, perché gli esportatori si pigliano da sei mesi a un anno per pagarlo.

Il commercio degli agrumi - spiegava - è sempre stato in mano a gente che non ha grandi capitali. Ai proprietari dei limoneti, gli esportatori danno solo una caparra. Saldano poi, quando arriva la rimessa dall'estero. Le sterline, però, prima d’imboccare la via della Calabria, dovevano passare da Roma per essere trasformate in lire italiane. Ma con quell'operazione, le autorità se la pigliavano comoda, mettendo in difficoltà mastro Mico, insisteva l'ingegnere. Ricco di crediti scritti a libro, ma senza più contanti, il mastro cominciò a sfigurare con i fornitori e con gli operai. Allora si ripresentò in banca, con i suoi libri, a chiedere un fido. In verità le sue carte erano in regola, i suoi crediti ammontavano quasi a centomila lire. Insomma c'erano tutti i numeri per ottenerlo. Invece gli fu risposto che, avendo egli già un'ipoteca, la Banca era costretta a rifiutare.

La risposta era poco credibile. Lo si sapeva: la regola non valeva per coloro che portavano sterline e franchi in Italia. Si cominciò a sussurrare che il cavalier Mittiga avesse fatto pressione sul fratello, che era uno degli amministratori della Banca, affinché mastro Mico pagasse caro l'affronto.

Altre banche a cui rivolgersi, in zona, non c’erano. Mastro Mico si recò a Reggio in compagnia d'un avvocato, presso una banca che, si sapeva, andava incontro alle imprese, ma lì gli fu risposto che essendoci un'ipoteca sui suoi beni era necessaria una fideiussione. Proprio la cosa che mastro Mico non avrebbe chiesto neppure a suo padre. Non restavano che gli usurai, e non fu mai chiarito se mastro Mico fosse approdato a quella sponda. Di sicuro era avvenuto che, perduta alquanto la bussola, ogni momento e con chiunque avesse a che fare, invocava ad alta voce l’ombra di Ferdinando II, Dio guardi.

La stramberia aveva fatto scalpore. Il sindaco del tempo, un massone che era molto ascoltato, si era sentito in dovere di convocarlo in municipio e di redarguirlo severamente. Poi, qualche giorno dopo, la commedia si era volta al tragico. A fronte di una fattura di chiodi di appena settecento lire, la cui tratta era tornata insoluta al venditore, il giudice Pessina, appassionato cacciatore ed intimo amico di Mittiga, aveva dichiarato il fallimento della Rinomata Ditta, nella sua nuova versione di cassettificio. Una decisione frettolosa e infondata. Infatti l'avvocato Glioti, con il consenso degli stessi creditori che concessero del tempo perché mastro Mico potesse pagarli in tutto, capitale e interessi, era riuscito a far revocare il provvedimento. I crediti superavano di gran lunga i debiti, cosicché mancava il presupposto dell'insolvenza. Tuttavia mastro Mico era stato egualmente rovinato, il cassettificio era stato chiuso e le moderne macchine svendute.

La caduta del mastro era somigliata a un tonfo; una famiglia, che stava ancora in alto, si era ridotta a navigare alla deriva. Di conseguenza non tutte le stramberie del povero mastro erano addebitabili alla natura, che fa gli uomini diversi l'uno dall'altro.

^^^

Da quell’evento erano trascorsi più di vent’anni e il paese, impotente di fronte al mutare delle umane sorti, l’aveva quasi dimenticato. Il fallito mastro Mico, per campare la famiglia e pagare l'ipoteca, era tornato al mestiere di bottaio, ma questa volta di rango alquanto basso. Adesso il sangue d’un innocente forestiero metteva il paese di fronte all’esigenza morale di giudicare un concittadino. E non basta: anche dinanzi alla sua storia collettiva, quella recente e quella lontana, con tutta la questione delle botti borboniche e della Rinomata Ditta. In buona sostanza – spiegava il dottor Panaijia - il tentato omicidio era la fine di un capitolo iniziato intorno al 1830, quando i Parisi non fabbricavano ancora bottazzj ma già fornivano barillj al Real Esercito, che in paese aveva una fabbrica di salnitro.

La gente discuteva. Bisognava farlo. Leggi antiche, mai scritte - ciò che nelle tragedie greche si presenta come coro - pretendevano che il paese desse la sua sentenza. Tuttavia, affinché fosse una giusta sentenza, bisognava stabilire cosa fosse stata veramente la Rinomata Ditta, e se mastro Mico dovesse o non dovesse accettare il suo destino. E se potesse, esso destino, comportare la follia. "Insomma, Parisi non è il colpevole, ma la vittima", tuonava il dottor Panaijia.

Al tempo dell’avo Antonio, la prosperità della Rinomata Ditta aveva superato i cinquanta dipendenti. La stagione felice si era però conclusa intorno alla fine del secolo, allorché l’olio aveva preso a partire per ferrovia, in appositi vagoni cisterna. Tuttavia il vero colpo di grazia era arrivato - "questo lo sapete tutti", urlava Panaijia - qualche anno dopo, quando i fusti in lamiera avevano soppiantato le botti di castagno. L’olio, che in precedenza era rotolato in malsicure botti di legno, aveva preso a rotolare in solidi fusti per le vie del paese, fino alla piccola della stazione, dove veniva pompato nelle cisterne ferroviarie, in partenza per Lucca e per Genova.

Sicurezza certo - proclamava l'ingegner Panaijia - ma quanto lavoro aveva perduto il paese? Eziologica e successiva questione: in detta congiuntura, cosa avrebbe dovuto fare la gente, l’indistinta collettività, a difesa della Rinomata Ditta? Certamente non mettersi contro il progresso, anche se veniva da fuori. E allora?

"Se ci avessero lasciato le Ferriere della Ferdinandea e l’Officina di Mongiana, quaranta chilometri da qui, i fusti di ferro li avremmo potuti fabbricare benissimo noi. Adesso non più", proclamava l’ingegnere. Dopo di che voltava le spalle e se ne andava insalutato ospite. Certamente era un sovversivo convinto, anche se poi era molto guardingo, e il sabato, sotto la giacca, indossava la camicia e la cravatta nera. Diversamente dal fratello, conservava qualche paura e faceva il brusco. Non salutare poteva significare che lui, a quella conversazione, non aveva mai partecipato. E sì, perché l’affermazione che aveva lasciato cadere pareva anche a lui un pericoloso inno al passato. Un fosco passato patriotticamente e anche fascisticamente da dimenticare, e persino ragionevolmente dimenticato.

A spiegarlo era lui stesso. - "Al punto a cui sono arrivate le cose, che senso ha farsene assertore e paladino?... Solo un pazzo come mastro Mico... Ma il sottoscritto, ingegner Gaspare Panaijia, Politecnico di Torino, voti 108 su 110, Maggiore del Genio, Medaglia d’Argento al Valor Militare, un ponte sull’Isonzo proprio sotto il martellante fuoco dei mortai austriaci, più volte ferito, pazzo non è".

In effetti non lo era, anzi, in paese, era l’Ingegnere per antonomasia.

Se ne andava. Ma, registrato che attorno non c’erano i noti delatori, subito dopo tornava sui suoi passi. - "E non venite a dirmi che si trattava di roba vecchia; che non funzionava, perché altrove ha funzionato. Eccome se ha funzionato!...Sicuro!… E qualche pezzo certamente funziona ancora!"

Questa volta l’ingegnere se n’andava veramente. Perdere altro tempo sarebbe stato da sciocchi. Sapeva che la specialisticità dell’argomento costituiva il miglior alibi per la comune voglia di quieto vivere. "Ma che ne sappiamo noi di fonderie!", e gli astanti avrebbero fatto muro di gomma.

^^^

Se la gente restava inerte di fronte alle incazzature di Panaijia, non aveva tutti i torti. Lo si vedeva dalla confusione delle idee. In quella materia, fare e disfare era compito dei governanti. Era soltanto puerile - sostenevano i benpensanti - star dietro a Panaijia, il quale era indubbiamente un ottimo ingegnere, ma quanto a presunzione, era meglio non parlarne. Si ripiegava, allora, sull’avverso destino. Solo che Panaijia aveva introdotto la diversa questione se, oltre al destino dei singoli, ci fosse un destino delle collettività, dei paesi e paesini. A tal riguardo, anche se nessuno era così misoneista da parteggiare per mastro Mico a proposito delle botti, le quali evidentemente non potevano gareggiare con i fusti, molti dubbi sopravvenivano a proposito delle cassette, e circa la funzione delle banche.

"Ma quale destino!…Il governo…il governo…", urlava don Nicola Panaijia, il dottore.

Quelle pubbliche discussioni frastornavano Ottavio che, sebbene febbricitante, usciva al mattino di casa per appurare dalla gente le cose che il burbero padre non aveva mai raccontato ai figli. Per esempio la questione delle cassette, che egli conosceva nella versione materna, assolutamente negativa per il mastro, il quale avrebbe ipotecato la casa per la sua smodata presunzione.

"Ingegnere, Ingegnere...", invocava Ottavio. Si appostava con Mimmo all’angolo del Caffè Adua, e ne aspettava il transito, per avere notizie sul cassettificio. Sentendosi chiamare, l'Ingegnere

si voltava spaurito, ma costatato che si trattava solo di Ottavio, tornava a sorridere. -"Ah, sei tu, Ottavio...La mamma...?"

"Ingegnere, cos’è 'sta storia del cavaliere Mittiga, che voi dite...?"

"Ottavio, sono cose che si dicono, ma poi solo il Padreterno sa se sono vere…La mamma…? E tu come stai? La malaria… L'Albania è micidiale…Sì, alla Banca sono stati sempre stronzi…Solo con tuo padre?…Con tutti."

"Ma lo hanno fatto apposta a farlo fallire?, insisteva Ottavio.

"E come faccio a saperlo…Così si sussurrava…E poi pare che tu vieni dalla luna. Non lo sai com'è fatto il nostro paese"

In quelle tristi settimane, spesso Ottavio andava a cenare a casa di Mimmo. Subito dopo i due giovani si mettevano su un balcone, di fronte al mare buio e con gli occhi al cielo stellato. Cento metri avanti, dove il mare batteva l'onda nel silenzio notturno, la breve fiammata di un fiammifero illuminava per un attimo la sagoma di un soldato messo lì di guardia. Il lucore della sigaretta segnalava il ritmo con cui egli l'aspirava. "Mio padre è un pazzo…Chi può saperlo meglio dei figli…Ma loro non possono trattare così gli esseri umani…E poi il cavaliere Mittiga cosa c'entrava?"

"E' tornato al suo paese. Adesso l'Azienda Boschiva l'amministra un forestiero, il marchese Adilardi. E' uno che è sempre in giro".

"Sai che ti dico? Io vado alla Banca, non ammazzo nessuno, ma le vetrine gliele scasso".

"Si, così finisci in galera anche tu. Anzi finisci a Gaeta…Come militare, rischi la fucilazione".

^^^

Ottavio non fu fucilato, ma morì egualmente affondando con la nave che lo riportava in Albania. A donna Bettina non lo si disse, per non farla morire di dolore. Dopo questa ulteriore disgrazia, Sestia appariva un'ebete e, ovviamente non mostrava di voler riprendere il legame. Mimmo capiva e aspettava. Peraltro la furia con cui adesso i quadrimotori americani bersagliavano i centri della costa prostrava ogni umano sentimento, persino la passione. Un giorno mentre era seduto nell'orto dei Parisi - una cosa che faceva regolarmente dacché le scuole erano state chiuse anticipatamente - da una finestra Sestia gli fece cenno che sarebbe andata nel magazzino dietro al capannone, che era il ripostiglio dove mastro Mico chiudeva gli attrezzi da lavoro più importanti.

Mimmo si preparò a seguirla, e preparandosi si eccitò. Qualche minuto dopo, Sestia attraversò il breve tratto d'orto che separava l'abitazione dal magazzino, tirò fuori la chiave, aprì ed entrò. Mimmo, bruciante di desiderio, la seguì. Sestia ardeva più di lui. Si abbracciarono con passione e si unirono sotto un vecchio bancone da falegname, che il mastro usava come ripiano su cui deporre arnesi vari. Sestia gli confessò un amore rinnovato e così grande che senza di lui non avrebbe voluto più vivere. "Appena la mamma sta meglio, scappiamo…Ce ne andiamo a Saluzzo. Lì c'è una mia cugina che sempre mi ha scritto d'andarci, ché lì la gente è ricca, e lavorando da ricamatrice si possono guadagnare bei soldi…Tu vai a Torino e ti laurei… Avremo dei figli…Non m'importa se ci sposiamo o no… Agli studi ti mantengo io…Ce ne andiamo con il camion del sergente Marcon, quando va a Torino a prelevare i ricambi…Sicuramente ci prende…Alla mattina, quando passavo, mi faceva la posta… Poverino, forse era innamorato …Figurati! …Ma è una persona buona…Ci facciamo una vita nostra…dei figli…Intanto la guerra finisce…"

Mimmo e Sestia s'incontravano tutti i giorni. Erano, però, incontri frettolosi che non davano piacere a nessuno dei due. La loro comunione si andava trasformando in calendario di coiti animaleschi. Anche Mimmo si andava convincendo che era meglio fuggire a Saluzzo. Donna Bettina stava meglio, adesso la cosa importante era un gruzzolo per affrontare il lungo viaggio in camion fino in Piemonte e sopravvivere lì qualche tempo, prima di trovare un lavoro. Perché una chiarezza l'aveva: doveva rinunziare all'università e lavorare. "Come garzone in una farmacia, mi prendono sicuramente…So tutto, meglio di un farmacista…" Ma questo, a Sestia, si guardava bene dal raccontarlo.

Il problema era a chi chiedere una consistente somma di danaro. "La mamma è troppo furba, papà figuriamoci…La nonna?…La nonna me li dà, ma subito lo va raccontare a papà…"

Non restava che zio Achille. "Zio Achille, se gli dico perché, senza nominare lei, mi dà i soldi". Era, in effetti, la persona giusta. Il fratello maggiore della mamma, l'avvocato Achille Portaro, professore di diritto della navigazione in due università, a Napoli e a Genova, era un anarchico, un materialista, un mangiapreti, uno scapolone impenitente, che irrideva a ogni regola della borghese convivenza. Era anche ricchissimo. Come avvocato delle società di navigazione guadagnava milioni senza fine. Se non avesse guadagnato tanto da essere di gran lunga il più ricco della famiglia, certamente la famiglia l'avrebbe emarginato a causa della vita immorale che conduceva, con amanti che lui agganciava durante i viaggi per i tribunali di tutto il mondo, italiane, inglesi, americane, francesi, spagnole. Per fortuna, l'onore dei Portaro e dei loro affini era salvo, perché non le invitava mai in paese, benché si fosse fatto costruire a tale scopo un bellissimo cottage, su una rupe a picco sul mare.

Lo zio arrivava da Napoli sempre con la macchina dell'ammiraglio Cordì, che poi era uno del paese che aveva fatto carriera. Questi infatti mandava tre marinai in uniforme a fargli da autista e a rendergli tranquillo e comodo il viaggio.

Mimmo cominciò a sorvegliare la villa, nella speranza che arrivasse presto. Intanto preparava mentalmente un discorso coerente, perché se fosse arrivato di fronte a lui balbettante, l'avrebbe fatto soltanto sorridere. Un pomeriggio, mentre nell'orto stava a comporre mentalmente l'orazione, sentì Sestia che tutta concitata insolentiva la signorina Schirripa, un'anziana vicina venuta a far compagnia a donna Bettina. Si precipitò in casa e vide Sestia accanto al letto della madre, che aveva perduto i sensi. Corse a chiamare il dottor Panaijia e ad avvertire suo padre e sua madre.

Donna Bettina riprese i sensi, ma le speranze che sopravvivesse non erano molte. Quanto all'accaduto, Mimmo lo seppe dalla madre solo qualche ora dopo. La signorina Schirripa era la sorella di uno dei geometri che lavoravano all'Azienda Boschiva. Fratello e sorella, entrambi celibi, vivevano assieme. Malauguratamente, il geometra aveva confidato alla zitella che nei progetti dell'Azienda c'era l'espropriazione dell'orto di mastro Mico, ubicato in posizione favorevole per chi volesse allungarvi un binario privato, cosa di cui l'Azienda doveva necessariamente dotarsi. Chiacchierando in Azienda, qualcuno aveva osservato che mastro Mico aveva i tre figli maschi rimastigli da avviare al lavoro - sempre che fossero tornati vivi dalla guerra - e Sestia ancora da maritare, nonché da sborsare chissà quanto all'avvocato di Napoli che lo difendeva. Primo o poi sarebbe stato costretto, comunque, a vendere l'orto e la casa. Siccome la Signorina non sapeva tenere un segreto, aveva ripetuto per filo e per segno la confidenza a donna Bettina convalescente, la quale, ascoltandola, s'era nuovamente sentita male.

Dalla voce rotta con cui la mamma raccontava, Mimmo capì che donna Bettina aveva le ore contate. Difatti morì il giorno dopo.

Su ordine della mamma, Mimmo passava le giornate a casa di mastro Mico, a disposizione di Sestia. La notte la mamma mandava a dormire da lei l'anziana Rafelina, la cameriera di fiducia. Un pomeriggio, Sestia gli spinse in mano un biglietto. Mimmo uscì dalla porticina che usava mastro Mico quando andava a mare, e si mise a sedere sulla riva, a leggerlo. Era amaro e toccante. Il Signore stava punendo tutta la famiglia per i peccati che lei sola aveva commesso. Aveva deciso, se ne sarebbe andata lontano, a scontare le sue imperdonabili colpe. Non la cercasse a Saluzzo, sarebbe stato tempo perduto. La dimenticasse. Si scegliesse una ragazza onesta e vivesse felice. Il destino aveva voluto per lei un amore impossibile, senza alcuna prospettiva, interamente fondato sul peccato, anche se lei l'aveva vissuto come una cosa pura e onesta.

Mimmo pianse accoratamente. Sestia era la pienezza della vita. Neppure sua madre gli aveva dato tanto. Non poteva perderla, ma non sapeva cosa fare. Gli sembrò di vivere una tragedia greca, con Nemesi sulla scena a punire lui per le colpe che tutta San Policarpo aveva verso mastro Mico.

Da ragazzo istruito, l'idea della nemesi storica lo avvolse. Intese che essa condannava lui e Sestia per colpe che erano invece sociali e collettive. E così, proprio mentre compiva lo sforzo di razionalizzare gli avvenimenti, cadde egli stesso vittima dell'irrazionalità.

"'Sti stronzi comandano agli uomini e alla cose…al destino della gente…Sciacalli… L' Azienda Boschiva è del re, ma u Menza Botta non è mai venuto a vederla…Forse non sa neppure d'averla…Si magia l'incasso. Vecchio incartapecorito, sta per perdere il regno, eppure vuole ancora comandare…Mastro Mico ha ragione, Churchill lo salva…Lo salva sicuramente…E 'sto stronzo del Marchese…Sempre coi guanti, sennò si spoca, il Marchese!…Non mi toccate, ché son di vetro…Adesso gli vuole anche fottere l'orto a mastro Mico… Altro che sfasciargli le vetrine, bisogna ammazzarli!…

"Sì, ammazzarli, ma come? Lui sta comodamente chiuso nel Quirinale. E il Quirinale non lo bombardano…

"Sì, almeno le vetrine a questi sciacalli…

"Se lo faccio a regola d'arte, nessuno saprà chi è stato". Lasciò stare tutto e se ne andò a osservare la sede dell'Azienda Boschiva Margherita di Savoia, che senza nessun riguardo spogliava un'intera provincia e fino a quando la ferrovia era stata in funzione, ogni giorno, aveva spedito all'Arsenale di Taranto vagoni e vagoni di tronchi. "E la povera gente deve pagarvi persino i rami vecchi che servono per fare il carbone, sciacalli!"

Erano ben cinque le vetrine a piano terra. Di fronte c'era la Clinica Cimato, una costruzione incompiuta a causa della guerra. Era facilissimo entrarci e facilissimo uscirne, perché mancavano ancora le porte e le finestre, mentre il tavolato di recinzione era stato a poco a poco rubato, per farne legna da ardere. Tra le finestre del manufatto e le prime tre vetrine dell'Azienda non c'erano più di quindici metri. Forse meno.

"Almeno tre…" Si coricò con quel pensiero. La mattina appresso scese dabbasso ed entrò nel magazzino dove la famiglia conservava le robe vecchie. Trovò il cesto che cercava, e nel cesto ancora quattro fionde, quelle che aveva adoperate per ultime, e quindi le migliori. Scelse le due più forti e se le ficcò in tasca. Fece colazione con molta calma e poi se ne andò a mare, a provarle. L'elastico era appena ossidato e funzionavano ancora.

Si ripeté in mente il progetto, il quale prevedeva l'accurata scelta di dieci sassi, quanti al massimo poteva nascondere nelle tasche della giacca e dei pantaloni. Una volta scelti, non li portò con sé, ma li ripose sul fondo di una vecchia barca in disuso. Sarebbe passato il pomeriggio a prenderli.

Prima che scoccassero le quattro e mezzo era lì. In vigenza dell'ora solare, gli impiegati dell'Azienda smontavano non prima delle cinque. Qualche volta, anche alle sei. Mimmo s'infilò nell'edificio in costruzione, salì i gradini ancora grezzi, e arrivò al balcone più prossimo alle vetrine della banca, che era privo di infissi. Rimase, però, lontano dall'apertura, in un angolo morto sia per chi guardasse da sotto, sia per chi guardasse dai balconi di fronte - l'abitazione del Marchese - che rappresentavano il pericolo maggiore, in quanto la casa era piena di camerieri.

Si fece un sedile con dei mattoni forati e si mise ad aspettare le cinque meno cinque, prefissate come ora X. Per comprimere il battito del cuore, spesso, si alzava, espirava e aspirava profondamente. Intanto recitava a sé stesso i cento versi dell'Aiace, che il suo professore gli aveva fatto mandare a memoria, cercando di rispettare il metro greco.

I secondi trascorrevano lentamente. Così fermo, Mimmo avvertiva una sensazione di freddo. "E' la paura, Mimmo. E' mai possibile che t'impressioni per una cosa da ragazzi…Ho sbagliato a venir solo. Un compagno l'avrei trovato. In due, sarebbe stato meglio".

Il cielo era terso e il pomeriggio luminoso, tuttavia le ombre erano già lunghe. Il fatto di trovarsi a favore di sole l'avrebbe coperto. L'ora si avvicinava, ci fu però un imprevisto: l’alamarato usciere dell'Agenzia uscì prima delle cinque, con in mano l'asta per abbassare le saracinesche. Nacque, per Mimmo, il dilemma se agire immediatamente, sotto gli occhi di don Ciccio, oppure rimandare a domani.

Don Ciccio si spostò sulla strada che faceva angolo, per tirare la saracinesca a due porte laterali escluse dall'azione. Mimmo decise. Innescò il primo sasso, tese la fionda e lo fece volare. Fu un capolavoro, uno vero schianto. La cristalleria affumicata - al centro la cifra ABMS graziosamente intrecciata in un arabesco d'alloro e sopra la corona reale - venne giù in tre secondi.

Mimmo innescò il secondo sasso, tese la fionda, mirò e lasciò andare. Secondo scroscio di vetri in frantumi. Don Alessio, il proprietario del Bar Adua, con uno straccio ad asciugarsi le mani e uno straccio legato intorno alla vita a mò di grembiulino, mise il naso fuori della porta a scrutare il cielo. Evidentemente attribuiva l'evento all'opera distruttiva degli aerei americani. Don Ciccio, lasciata precipitosamente cadere la saracinesca, che stava tirando rispettosamente giù, apparve sull'angolo con l'asta in mano, come un oplita svegliato di soprassalto dal clamore del nemico che fa irruzione nel campo.

La terza vetrina venne giù con non minore fracasso. Qualcuno degli avventori del bar, che giocavano a tressette nel retrobottega, venne fuori. Venne fuori anche un geometra dell'Azienda, passando sui vetri rotti. A questo punto del piano era previsto che Mimmo scappasse via per le scale di servizio e apparisse disinvoltamente sul retro, intento a fare pipì contro il muro non ancora intonacato. Ma non riuscì a fermarsi. La quarta vetrina era certamente raggiungibile. Innescò il quarto sasso, e via. Quarto scroscio. Gli impiegati sulla soglia, ora, erano tre. Parecchi i giocatori. Forse anche la quinta vetrina era raggiungibile. "Aiace mio, come finisce finisce!" Innescò il quinto sasso. Ma questa volta, per inquadrare il bersaglio, dovette venire un metro più avanti. Il sasso sbattè conto la base in legno della vetrina. Non aveva più molta forza e il vetro non si ruppe.

Don Alessio, il barista, o vide o intuì da dove proveniva l'aggressione. Corse verso l'apertura centrale dell'edificio tirandosi dietro i giocatori più agili. Mimmo non ebbe altra alternativa che salire di corsa i gradini che portavano alla terrazza. E qui fu raggiunto dai giustizieri. I quali, rimasero incredibilmente sorpresi nel constatare che l'autore del misfatto era il figlio del farmacista Fusco, una ragazzo stimato, una vera promessa scolastica.

Probabilmente i sopraggiunti, visto l'inverosimile, da buoni meridionali si sarebbero messi a chiedere a Mimmo perché mai l'avesse fatto. E forse l'avrebbero lasciato andare, magari con le felicitazioni per l'ottima mira. Forse. Fatto sta che arrivarono i soliti militi fascisti che, storcendogli i polsi, lo portarono in caserma.

Mimmo rimase in camera di sicurezza tutta la notte. La mattina successiva fu condotto prima di fronte al maresciallo dei carabinieri e subito dopo in carcere. Seppe in appresso che l'accusa era pesante: devastazione, articolo 253 del codice penale, pena: l'ergastolo.

Secondo zio Achille un'accusa simile non poteva reggere, ma il procuratore del re era certo che dietro il gesto apparentemente folle c'era una cospirazione contro lo stato. Avrebbe trovato i complici e rubricato il reato di tradimento in tempo di guerra, da aggiungere ai reati già addebitati, i quali peraltro erano quanto bastava e avanzava per far condannare Mimmo a una ventina d'anni di carcere.

Invece Mimmo la fece franca, o quasi. Uscì dal carcere assieme agli altri detenuti, qualche giorno dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia, perché il carcere aveva esaurito le razioni alimentari.

Sapeva già che Sestia era scomparsa. Suo padre e sua madre erano sicuri che s'era rifugiata in un monastero. Un raptus mistico, secondo loro. Fuori delle patrie galere, Mimmo sentì dire che qualcuno l'aveva vista salire sul camion di Marcon in fuga per il Nord. Capì, era la versione giusta.

In settembre arrivarono gli angloamericani, fu anche annunziato l'armistizio, in ottobre ci si rese conto che l'Italia era divisa in due. Il nuovo ordine politico assegnò a Mimmo la qualifica di antifascista e di eroe. Lo stesso procuratore del re, che prima aveva rubricato un reato punito con l'ergastolo, smontò l'accusa, riducendo la cosa a un fatto punibile a querela della persona offesa. Ma essa non c'era più. I contadini in rivolta avevano occupato Le Cerze e costretto il Marchese a cambiare aria. Mimmo non respinse gli onori che gli venivano tributati, ma fece il possibile perché la gente se ne dimenticasse, in ciò favorito dal fatto che, ormai universitario, risiedeva più spesso a Messina che in paese. Due anni dopo, nel 1946, si trasferì al Politecnico di Torino. A Saluzzo incontrò la cugina di Sestia, presentandosi come il figlio di una sua cara amica. La signora Spanò, era perfettamente al corrente dell'affetto fra le famiglie, ma Sestia non l'aveva vista.

Prima di partire per Torino, Mimmo aveva detto tutto, anche il nome della donna, allo zio. Lo sapeva ben capace di mantenere un segreto. Gli chiese aiuto a cercare il soldato Marcon. Da lui avrebbe saputo dov'era Sestia. Lo zio, di fronte a una siffatta sublimazione dell'eros ebbe una gran voglia di ridere, ma si trattenne per non offendere la sensibilità del nipote prediletto. Fece anche, e speditamente, quanto gli era stato chiesto. All'indagine condotta presso il Ministero della Difesa risultò che il sergente d'artiglieria Marco Marcon fu Alvise e fu Rachele Cremona, nato a Chioggia, provincia di Venezia, addì 7 maggio 1914, ivi domiciliato e residente alla Via San Felice 26, meccanico, celibe, numero di Matricola 1445667, richiamato alle armi il 3 di giugno 1940 e assegnato al 325° Battaglione d'Artiglieria Costiera, ultimamente di stanza a San Policarpo, era perito a Bologna il 23 giugno del 1943 a causa delle ferite riportate il giorno precedente, nel corso di un bombardamento sulla città.

Mimmo si laureò con ottimi voti e trovò subito un lavoro nella stessa Torino. Cinque o sei anni dopo, assunto come direttore in uno stabilimento per la lavorazione del ferro, che fra l'altro produceva anche bidoni, neologismo per dire il vecchio fusto, si trasferì a Brescia. Rimase scapolo. In paese si era certi che Sestia facesse, o avesse fatto, la prostituta in Germania. Si era certi anche che avesse dei figli. Era una confidenza che veniva dalle sorelle. Mimmo gliene chiese, ma tutte e tre negarono. Comunque egli non ebbe più dubbi circa il motivo della sua dolorosa fuga. In appresso spese tutto quello che guadagnava per ingaggiare investigatori privati che cercassero lei e l'eventuale prole. Ma senza alcun risultato. Gli fu spiegato che verosimilmente s'era spinta in una regione poi finita al di là della Cortina di Ferro.

Per decenni, Mimmo, la notte, continuò a sognarla, e quando non la sognò più, era già troppo vecchio per pensare a un'altra donna.

Nicola Zitara

 

Torna su

 

Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilita del materiale e del web@master.