L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Bossi e Fazio

di Nicola Zitara

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Siderno, 21 Ottobre 2004

Il nuovo Calvario, che la gente del Sud s’accinge a salire, è selciato di pietre aguzze, parecchie delle quali piantate da noi stessi. Ma le nostre responsabilità sono fin troppo note; quindi le sorvoliamo per soffermarci su due recenti passaggi, nei quali figuriamo come vittime.

Primo. La devolution federalista trasferisce alle regioni esistenti la sovranità erariale (incassi e spesa) relativamente alla materia sanitaria e a quella scolastica, e  addossa a ciascuna popolazione regionale  la connessa spesa. Naturalmente rimangono invariati sia la dipendenza dall’industria farmaceutica e degli strumenti medici e ospedalieri sia i costi di formazione universitaria e post-universitaria che il Sud sostiene per i suoi giovani nelle città toscopadane.

Quelli della spesa per la sanità e per la scuola sono gli unici settori economici in cui avvengono trasferimenti erariali dal Nord al Sud. I trasferimenti di ricchezza dal Sud al Nord, di regola, restano invisibili, essendo  incardinati nel meccanismi del libero mercato. Un unico esempio soltanto, e soltanto a favore delle teste più dure.

Il Sud ha una percentuale di studenti medi più alta che il Nord, ma neppure un testo scolastico è prodotto da un editore meridionale. La cosa vuol dire che il Sud, ad alto tasso di disoccupazione e denso di industrie tipografiche, paga il lavoro dei settentrionali, che per giunta costa di più, e lascia disoccupati i suoi lavoratori e ferme le sue tipografie. (Sarebbe doveroso mettere in conto un altro fatto: i giovani meridionali ricavano dai libri compilati al Nord l’estraneazione a se stessi, alla loro realtà, e il disprezzo per il loro passato “non settentrionale”, ma non trascureremo l’occasione per parlarne esaustivamente). 

Agli invisibili meccanismi spoliatori, che sono  connaturali al liberismo economico, bisogna aggiungere l’ambiguità con cui, in Italia, si legifera in materia di spesa pubblica. Per es., lo Stato inscrive nel suo bilancio una cifra X per le università. Sembra una legge uguale per tutti. Invece non lo è. Infatti nel testo legislativo, o negli atti amministrativi,  sono poste delle condizioni che sembrano imparziali e rivolte a tutti, ma che in effetti dirottano i soldi verso gli atenei centrosettentrionali.

Su tutto questo, che non è materia nuova in Italia,   il municipalismo stronzobossista fa orecchio da mercante. La sua strategia  è  sommare  nuove ingordigie alle storiche ingordigie delle città toscopadane; è cavalcare con una nuova sella il collaudato saccheggio dello Stato cosiddetto nazionale, che è stato stronzobossista sin da quando fu eretto da Cavour.

Peraltro, soltanto l’ingenuità e la malafede imperversanti portano a ritenere lo stronzobossismo un moto estemporaneo, nato con un Bossi che va a pittare i suoi slogan offensivi per i meridionali sulle cantonate dei borghi lombardi.

La prima elaborazione separatista/zoppa  e fiscale (meglio: erariale) è stata prodotta nella e dalla università  Bocconi di Milano, a partire dagli anni sessanta. Basta andare a spulciare  le annate della rivista Mondo Economico per averne ampia conferma.  Un paio di studi pubblicati negli anni settanta dall’editore Feltrinelli  rassodarono, poi, i vapori separatisti/zoppi già vaganti per l’etere.

In conclusione, devolution sì o devolution no, il Sud si prepari comunque a tornare al 1936.

Del secondo passaggio, il vero padre va cercato fra l’intellighentzia del centro sinistra. Amato, Ciampi, Dini, Prodi, Visco? Chissà chi è stata la grande mente! Si è partiti da un grossolano cambiamento del canovaccio  e si è approdati a una vera follia. Il cambiamento è facile da spiegare.

Una decina d’anni prima che i tedeschi ci imponessero la svalutazione della lira, la signora Tathcher era riuscita a rianimare l’economia inglese. Gli esegeti di tale miracolo spiegarono che la Signora di ferro aveva messo in liquidazione il vecchio apparato industriale inglese e che aveva chiuso con le procedure assistenziali del Welfare.

Fu messo in risalto il fatto che, per rianimare l’economia, la Tathcher aveva liberalizzato il sistema finanziario, sia sul versante interno sia sul versante internazionale, e aveva ridotto le tasse, offrendo così ai finanzieri stranieri una comoda la piazza per sottrarsi al loro fisco nazionale e per speculare non proprio elegantemente senza dover dar conto ai loro giudici naturali. Ma era una fanfaluca.

La sostanza vera della politica  tathcheriana è stata la rimozione di una managerialità appassita e inefficiente a favore di una managerialità nuova e prevalentemente straniera, che poté operare nella cornice  di una finanza moderna e molto forte.  

La politica tathcheriana venne calata in Italia, invece,  con molti riguardi per la precedente dirigenza industriale. Si operò sul  sindacato soltanto, inducendolo a rinunciare alla scala mobile.  In pratica vennero rivoluzionati gli equilibri economici fissati dalla dottrina keynesiana, incidendo sul  lato del consumo, ma senza animare la concorrenza capitalistica.

Anzi si fece di peggio. Si privatizzò il sistema bancario nazionale, che in mano pubblica aveva consentito al governo (quantomeno fino all’avvento dell’indebitamento pubblico come surrogato dello sviluppo) di  regolare i flussi finanziari verso lo sviluppo generale del paese.

Passate in mano ai privati, le banche nazionali presero a muoversi in vista di rendite di posizione e tenendosi lontane da ogni tipo di investimento rischioso.  Lo stesso governo, tutto preso dai  balletti privatizzatorii,  dimenticò di occuparsi dei problemi dello sviluppo, consentendo che   i flussi finanziari si dirigessero verso il parassitismo e le rendite monopolistiche. Insomma, a centotrent’anni di distanza vennero ripetuti gli errori e le ingordigie con cui la Destra storica aveva umiliato l’Italia appena fatta.

L’avvento di Berlusconi e la connessa regia delle cose economiche, ispirata dal lumbardismo bossista e  affidata a Tremonti, si spiegano come reazione al fallimento plateale dei banchieri e dei loro adepti, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo con i governi di sinistra. Nella  visione del lumbardismo, il vecchio apparato proprietario e grand’industriale italiano (il Nordovest, specialmente Torino e Genova) aveva toccato il fondo quanto a inettitudine. La storica mungitura dello Stato (l’industria parassitaria), con cui era andato avanti per cent’anni, era da spedire in soffitta.

Promettente era, invece, la media e piccola industria del Nordest (che meglio sarebbe chiamarla dell’Adriatico, in quanto partendo dal Friuli raggiunge le Marche e tocca gli Abruzzi). Questa visione lumbard dell’avvenire venne condivisa da  D’Amato, nuovo presidente della Confindustria, mentre venne fortemente criticata e contrastata dal sindacato, dalla sinistra ex comunista e da una parte dei cattolici rietichettati.

Ma il disegno di Tremonti era nato sotto una cattiva stella: il ciclo economico occidentale era in fase calante. Ciò nonostante, egli insistette nella sua concezione volta a spostare ricchezza verso la classe dei lavoratori in proprio e della piccola impresa. I due settori si arricchirono ai danni dei consumatori e dello Stato, ma nel momento sbagliato: mentre tutta l’economia occidentale  perdeva colpi a favore della Cina, improvvisamente inseritasi  sul mercato mondiale a fare concorrenza ai vecchi paesi industriali.  Cosicché la rivoluzione piccolo-italiana di Tremonti trasformò gli artigiani, i commercianti, i professionisti e i piccoli e medi industrali in taglieggiatori dei bassi redditi, senza che per questo le imprese espandessero la produzione e la ricchezza nazionale.

La Waterloo dell’economia lumbard, interpretata  da  Tremonti, diventò definitiva con la svalutazione introdotta dall’euro: un subdolo e sotterraneo progetto della Banca Europea, punitivo degli operai, degli stipendiati e dei pensionati. In Italia si è all’anticamera del crack. Tremonti è stato  spedito a casa, e i suoi errori sono divenuti la “ragione” dei banchieri, pronti a riprendere in mano le leve di comando, come ai tempi di Ciampi, Dini e Prodi.

 

L’industria del Nordest – Fiat in testa – vuole i soldi che sono in mano alle banche, praticamente tutta la ricchezza nazionale, per impadronirsi delle stesse banche che finanziano gli acquirenti, e tutta l’industria strategica, gestita dallo Stato. Hanno avuto già una parte. Adesso sono all’asta truccata le Ferrovie, l’Eni, l’Enel, le Poste, aziende che sputano ogn’anno decine e decine di miliardi di profitti. Un nuovo “carnevale bancario” si profila all’orizzonte della Bell’Italia e delle sue amate sponde.

Dal canto suo la banca, guidata da Fazio, allarga le gambe  con malcelato ardore. Cosicché al disastro gestito dai lumbard della Bocconi si sommerà il disastro gestiti dal sistema industriale del Triangolo (Liguria, Piemonte e Lombardia) che, in un intero secolo ha funzionato soltanto per dodici anni, dal 1953 al 1965, allorché venne diretto dalle banche nazionalizzate e per tutti gli altri novanta visse di tasse, perché i prezzi di monopolio, tipo Fiat, Edison, Montecatini, Sip, Eni,  ecc. altro non sono che tasse fatte pagare all povera gente.

C’era invece un’alternativa, ma è stata sconfitta. In tre anni, i settori favoriti da Tremonti hanno risucchiato, a dir poco, un quarto del reddito nazionale. Dietro (o dentro) c’è gente nuova, che ha buone ganasce, quelle che piacevano alla Tathcher,  e che, se ben guidata da un nuovo IRI, avrebbe rinfrescato l’economia italiana, non escluso il Sud.


Nicola Zitara

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