L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Cominciamo!

di Nicola Zitara

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Siderno, 18 Novembre 2005


Nonostante i guai che da qualche tempo affliggono le potenze europee, c’è ancora chi va in giro a raccontare la storiella di un Suditalia destinato a far da ponte tra l’Europa e l’infelice Continente africano. Il commento appropriato sarebbe: “Fonte di che, di altri profitti? “ Comunque questa funzione di stazione ferroviaria tra un mondo in cui il pane raffermo si butta (o si buttava) e un mondo in cui il pane è ancora scarso, è tutt’altro che certa. Gli architetti del Sud nuovo sono (non capisco bene se) contraddetti o coadiuvati da una legione di pessimisti (non escluso chi scrive), secondo cui l’avvenire del Sud si prospetta tutt’altro che felice. Più che fare da ponte con l’Africa, il Sud rischia di finire esso stesso in Africa. La diagnosi viene utilizzata come una minaccia dall’intera classe politica che canta l’Inno di Mameli, per incitare i meridionali a non essere insofferenti, ad avere pazienza; piuttosto a rimboccarsi le maniche (o forse a restare accosciati) onde possano meglio giovare a Roma, a Milano, a Vicenza, a Zurigo centrale di ogni finanza, e magari a Cuneo madrepatria di un grande mentore di virtù padane.

Fra gli storici che inneggiano al vincitore, non tutti sono motivati da basso servilismo, e non tutti i giornalisti si vendono l’anima per uno stipendio. Forse la maggior parte di loro, nel registrare lo strano fenomeno del dualismo italiano, non riesce a darsi altra spiegazione che quella ritrita di un meridionale abbarbicato a costumi antichi e selvaggi. Idee del genere sono alquanto diffuse. Sono passati ottant’anni da quando Gramsci, in un suo celebre scritto, cercò di spiegare, prima di tutto a sé stesso, la diffidenza che il proletariato torinese avvertiva verso i contadini sardi e meridionali vestiti in grigioverde. In appresso la diffidenza si è elevata di tono ed è vivace ancora oggi. Ma perché, poi, sorprendersi tanto, quando noi stessi siamo severi… con noi stessi? Vorremmo essere milanesi, genovesi, torinesi. I giovani nati in Settentrione da genitori meridionali – facilmente individuabili a scuola dal cognome - si affrettano a giustificarsi: “Sì, è vero. Ma io sono nato a Paullo.” E c’è persino chi nega il padre suo, come fece San Pietro.

Luigi Lombardi Satriani spiega che noi meridionali abbiamo introiettato la dipendenza. Ed ha ragione. Ma questo fenomeno incontestabile non dà una sola ragione del perché i meridionali e i settentrionali si avvertono nemici nel profondo.

L’italiano vero sarebbe il toscopadano. Gli altri si accostano sì e no. Centocinquant’anni di vita unitaria non sono bastati a superare i presunti ‘ritardi storici’ che il Sud portava con sé e che i perfidi Borbone, nemici di ogni progresso, non vollero affrontare. Siamo gente perduta, irredimibili, che è meglio perdere che trovare. Se da noi non si fosse fermato re Gioacchino, saremmo ancora al tempo in cui gli uomini si accoppiavano con le bestie.

Chi si limita a giudicare il presente, di regola addebita la colpa de ‘i mali del Sud’ alla cattiveria dei gruppi dirigenti e degli uomini di governo. ‘Piove, governo ladro!’ Spesso l’ho detto anch’io. Tuttavia una più matura riflessione porta a non separare il presente dal passato.

Partiamo da una constatazione. E’ noto che il Sud ebbe momenti di grande splendore e che registrò autentici primati civili e culturali. Credo di non sbagliare annoverandone tre. Uno di essi non disturba i sonni di nessuno, mentre sugli altri si mette la sordina. O più esplicitamente, sono noti agli addetti ai lavori e taciuti con l’opinione pubblica.

Primo. Di Magna Grecia ci riempiamo la bocca, ma quando si va a cercare quello che fu e come finì, i contorni si annebbiano. Atene democratica, Sparta guerriera, la tragica Tebe, Itaca pietrosa, Achille, Ulisse, Ajace, Elena e Cassandra non spiegano la Grecia Magna. Siamo intorno al 300 a.C. Atene e le altre città greche vanno decadendo. C’è una sola strada per rinascere, quella d’incettare nuove risorse. Alessandro il Macedone prende il toro per le corna e aggredisce i nemici storici dell’Ellade. Si spinge oltre l’Eufrate, verso l’Indo. Come risultato di una memorabile serie di vittorie, la civiltà ellenica si espande in tutto il Mediterraneo centro-orientale. Dovunque, lungo le sponde, fiorisce una cultura fine e moderna, non più nazionale o nazionalista, l’ellenismo. Il Continente mediterraneo non ha frontiere. Le capitali della vasta Comunità sono Alessandria (d’Egitto) e Siracusa.

Domanda: Chi distrusse quella grande civiltà che portò il Suditalia (allora Italia soltanto) a un livello di civiltà più avanzato dell’attuale? Dispiacerà sentirlo, ma la risposta è Roma. Ma perché, chiediamoci, tanta barbarie? Perché ammazzare Archimede, il fondatore delle scienze fisiche, un uomo di cui Copernico, Newton ed Eistein, sono solo i continuatori?

Il perché è questo: solo al Sud Roma avrebbe trovato le risorse necessarie per difendersi dai barbari padani. In verità Roma non distrusse soltanto Cartagine, come si legge comunemente nei libri di scuola, ma anche la civiltà e soprattutto la libertà del mondo italico, e utilizzò il primo disastro storico del Sud per finanziare la romanizzazione della Valle Padana, per edificare una cinta muraria intorno a Piacenza, per recingere un castrum che in appresso si chiamerà Mediolanum, per mettere Virgilio, mantovano, in condizione d’imparare il greco e di comporre – una volta appreso il concetto - elegantissimi versi in lingua latina.

Per dirla in due parole, Roma inaugura una bilancia politica e culturale valida in eterno: i costi da affrontare, per innalzare il Centronord, vanno scaricati sul Sud. E’ tutt’altro che vero che Roma abbia unificato la penisola. Fu un romano, e non altri, a scrivere: “Latifundia Italiam perdire”, dove Italia corrisponde a Suditalia e i padroni dei latifondi non si chiamano barone Poerio o baracco Baracco, ma gens Julia, gens Popilia, gens Duilia, di stirpe senatoria; famiglie di grandi usurai e di grossi padroni di schiavi, ingrassatesi con il sangue dei milites quadrati, i poveri coloni a cui, dopo venti anni di servizio nelle legioni, se tornavano vivi in paese, veniva assegnato come ricompensa un campicello di poche are, il quale, poi, veniva regolarmente venduto a un qualche civis pleclarus dai figli indebitati.

Amor di patria (italiana) pretende che nozioni del genere siano nascoste alle menti dei giovani. Inquinerebbero l’albero genealogico dell’elmo di Scipio!

Secondo. E’ limitativo soffermarsi soltanto sui bersaglieri di Cialdini e sul brigantaggio. L’assassinio di Archimede e la morte in battaglia di Manfredi ci dicono ben altro circa la concezione politica, che ispira da sempre gli altri ‘italiani’. Nell’occasione della seconda aggressione, Roma non è sola. Le stanno attorno i Comuni toscopadani (i guelfi) ingordi di prede meridionali.

Sopraffatto dai barbari nel quinto secolo dell’era volgare l’Impero Romano d’Occidente crolla. Qualche decennio dopo arriva in Italia l’esercito inviato da Giustiniano, l’imperatore romano d’Oriente. Nel tentativo di riconquistare (o non perdere definitivamente) l’Italia in mano ai barbari europei e agli arabi, i bizantini rimangono in Italia seicento anni, dal Quinto all’Undicesimo secolo d. C. Sono i secoli bui. Dei tempi in cui l’Italia viveva riccamente, in virtù dei tributi che Roma estorceva in tutto l’impero, è rimasto poco o niente. Persino il ricordo del passato si è offuscato. Soltanto i colti ne sanno qualcosa: notizie di seconda mano, mediate dagli storici greci e arabi. L’Italia è impoverita, imbarbarita. L’agricoltura, la manifattura, le città sono tornate duemila anni indiestro. L’ignoranza dilaga. In questo panorama desolato, soltanto al Sud si conserva, per effetto del legame con l’Oriente, qualcosa del vecchio ordine – per esempio gli scambi di mercato, la produzione artigianale, gli elementi imbalsamati dell’antico sapere. Più fortunata la Sicilia, che vede restaurata l’antica civiltà ad opera degli arabi. Tuttavia la decadenza del Sud non va confusa con la barbarie dominante al di là del Garigliano. Lo testimoniano cento cose, ma soprattutto il fatto che a fondare e a operare nei primi centri di livello universitario che il Papato avvia – Grottaferrata e Montecassino – sono dei monaci arrivati dal Suditalia.

La centralità del Sud nell’esportazione di manufatti, che venivano richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata. Accanto alla splendida Palermo e alla altre città siciliane, fioriscono Napoli, Amalfi, Bari, Mola, Rossano. Sui territori in mano ai bizantini, i centri marinari godono di una considerevole autonomia privata, e qualche volta politica. I marmi che i papi romani importano per edificare nuove cattedrali vengono trasportati da navi amalfitane. La flotta di Amalfi si schiera in battaglia nelle acque di Ostia, a difesa del papa, e batte i saraceni. L’architettura e la scultura decorativa dell’età classica trovano alimento nella ricchezza dei commerci. Chi ha qualche dubbio su questi primati può facilmente toglierselo leggendo qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio e, se non sa leggere, facendosi un giro turistico per il Barisano e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti che, altrove, hanno distrutto quasi tutto.   

Come e perché si esaurì questo corso, se non propriamente grandioso, quantomeno promettente?

Anche in questo caso fu la stessa Italia a concepire e a condurre l’operazione d’annientamento. La vicenda è connessa con le Crociate. Il Sud del tempo è una società aperta, la gente non fa questione di pelle, è tollerante in materia religiosa, i cattolici seguono il rito ortodosso, la messa viene celebrata in greco, l’imperatore d’Oriente ha il diritto di mettere una mano nella nomina dei vescovi, i monaci basiliani si sono insediati nei centri jonici e in Sicilia, in molti luoghi si parla greco e non si raccolgono oboli da mandare a Roma. E se questo non basta, gli arabi - che sono una seria minaccia per i regni barbarici d’Europa - al Sud non sono accolti male (o non lo sono ancora, perché le scorrerie saracene non sono peggio dei saccheggi dovuti ai barbari insediatisi in Italia). Ultima ciliegina: il papa, integratosi nella logica dei regni europei, non gradisce le interferenze dell’imperatore romano d’Oriente. Per altro è maturata una nuova idea di sé. Rolando, il mitico vincitore degli arabi, assurge a nuovo eroe delle stirpi germaniche romanizzate e prende il posto tenuto da Achille e da Ettore nell’epos collettivo. Bisognerà che Dante Alighieri e gli altri componenti del suo circolo poetico assorbano la lezione che sale da Palermo, perché Omero e Virgilio tornino in auge.

I papi e i re d’Europa pensano che a migliore difesa dell’Europa e del Papato sia necessario spezzare il Continente mediterraneo, e siccome il Sud ne è la punta avanzata, bisogna che esso diventi una colonia d’Europa. Il compito viene affidato ai normanni, i quali s’impadroniscono del Paese, ma avviano l’opera d’imbarbarimento con visibile perplessità. Una volta padroni di questa terra non gli conviene condurla a rovina. L’esaurimento della dinastia regnante porta sul trono di Sicilia Federico II, che eredita anche il trono imperiale. A questo punto il disegno di partenza è messo in serio pericolo. Il nuovo re, obbedendo alle istanze provenienti dalla progredita collettività siciliana, progetta, per primo al mondo, uno Stato modello: laico, robusto nelle istituzioni e aperto al progresso. Ma è proprio quanto non serve alla Chiesa e ai toscopadani. Federico viene fortemente contrastato. Non vince e non perde, anche perché muore in giovane età. Suo figlio Manfredi, che tenta di unificare l’Italia, perisce in battaglia. Gli altri successori di Federico cadono per mano francese. Per il concerto delle nazioni barbariche e per i liberi comuni italiani il Sud sale alla dignità di colonia d’Europa.

Nel corso dei cinque secoli compresi tra il tempo in cui Dante era un giovanetto a quello in cui si spegne Gianbattista Vico, il Sud percorre un cammino a ritroso, taglieggiato com’è dai baroni francesi e spagnoli, e impoverito dalle usure genovesi e fiorentine. Il ritorno all’indipendenza nazionale, nel 1734, è preparato da un moto, detto impropriamente ‘illuminismo napoletano’, e che meglio si chiamerebbe riformismo napoletano, di cui la dinastia borbonica si propone come garante e guida operativa. Chi ha qualche dubbio si rilegga le belle pagine che Benedetto Croce – di cui è ben noto il cavourrismo e il sabaudismo – dedica a questo passaggio della storia politica napoletana. I Borbone cercano di portare il paese alla modernità commerciale e industriale, e si difenderlo dall’Inghilterra e dalla Francia, che sventolano bandiere liberali e ugualitarie, ma sottobanco sgraffignano tutto quello che arriva loro a portata di branca.

Ma l’indipendentismo borbonico è mal digerito. Francia e Inghilterra non lo tollerano. Quasi una tacita congiura tra patrioti meridionali, scaltri politicanti e incalliti diplomatici, stronca l’intelligente e generoso tentativo di modernizzazione. Il Sud riprecipita nelle grinfie della politica europea, impostata sulla crescita attraverso la colonizzazione, e diventa nuovamente un territorio di pascolo aperto alle usure toscopadane.               

Per merito dei poeti e degli studiosi, e specialmente per merito (o demerito) della Chiesa romana gli italiani hanno elaborato una lingua comune e sedimentato una tradizione consimile. Ma non unitaria. Le due parti del paese sono state assieme politicamente soltanto per qualche secolo, dal regno di Tito a quello di Costantino. Sin dal tempo della prima colonizzazione greca esistono due formazioni sociali, due Italie, una che viene dal mare e una nata dalla terra. Roma, alle origini città etrusca o largamente etrusca, si é estesa verso nord, fin oltre le Alpi, ed è ancora la postazione più meridionale del continente politico e militare Europa. A sud di Roma, la società si apre quando arriva un contatto dal mare, e si gela quando a realizzare il contatto è il Nord. L’alterità è persino anteriore a Roma ed è testimoniata dallo scontro tra una flotta etrusca e una magnogreca nel Golfo di Gaeta. Questa alterità è tuttora visibile. Basta guardare una cartina geografica, per rendersene conto. Tra il reticolo metropolitano che si affaccia sul Golfo di Napoli e il reticolo urbano della Bassa Padana, se in mezzo non ci fosse Roma (in pratica il papato), si vedrebbe un forte calo di densità urbana. Il fatto era ancora più evidente prima che Roma divenisse la capitale del Regno d’Italia, nonostante che per millenni l’Italia fosse stato il paese più densamente popolato dell’Occidente. Quindi due formazioni sociali scarsamente comunicanti fra loro, e solo debolmente integrate sul terreno politico e sociale ad opera della Chiesa romana.        

Questo Sud che, non ascoltando i buoni consigli di Giorgio Bocca, potrebbe precipitare dal suo piedistallo italiano nel deserto del Sahara, non è mai stato Europa, ma una colonia desertica d’Europa. Il generoso tentativo di Federico II di fare dello Stato un’opera d’arte si è esaurita con l’inconsistenza di un sogno e la buona volontà dei dinasti Borbone, di allentare la morsa della colonizzazione europea, si è spenta con il tradimento della classe baronale e sotto l’onda del loro finto liberalismo, infognando la coscienza collettiva in ascarismo di facciata e nell’impotenza strutturale del meridionalismo.

Oggi, non c’è un solo aspetto della vita sociale che non sia impantanato. La disoccupazione imperversa sin dal giorno in cui i bersaglieri risorgimentarono l’ordine padanista nelle Fonderie di Mongiana e nello stabilimento di Pietrarsa. Da quel lontano anno il Sud italiano ha ininterrottamente prodotto   milioni di disoccupati e interminabili eserciti di emigrati. Ma il sogno esogeno di pane e companatico oggi è off limis. La valvola di sfogo è chiusa. Anche l’altro corno dello storico dilemma ‘o emigranti o briganti’, come dire la sollevazione popolare del paese, è inconcepibile. Anche la Chiesa, che al tempo di Pio IX aveva difeso i suoi privilegi, è passata dall’altra parte. Per giunta il sistema politico italiano prevede che i moti popolari meridionali possano avere dignità politica solo se ispirati e diretti dai partiti padanisti, untuosamente definiti nazionali. A qualche militante della vecchia sinistra brucia ancora sulla pelle lo sbarco a Reggio Calabria dei venti o trentamila metalmeccanici guidati dal resistenziale e liberator d’Italia, Luciano Lama, per fustigare come fascista una rivolta inequivocabilmente di origine popolare.

Quanto ai politici, non c’è da fare assegnamento. Il sistema italiano non lascia loro altro spazio che l’uso inverecondo del pubblico danaro. Le cose stanno anche peggio fra la gente comune. La mobilità sociale è possibile solo nel quadro della corruzione o con l’impiego della lupara. Le aziende private hanno la teorica libertà di sopravvivere, ma soltanto negli spazi lasciati vuoti dal capitalismo toscopadano. E solo se si appoggiano alle armi.

A tutto questo, che già bastava per configurare un disastro, è venuto a sommarsi una decina d’anni fa l’abbassamento della curva dei salari e ultimamente la confisca di stipendi e pensioni, collegata alla circolazione dell’euro.

E’ immaginabile che con il sopraggiungere delle nuove spoliazioni decretate dal monopolio elettrico e da quelli del gas, dei telefoni, della distribuzione di frutta e verdura, nonché a causa dal sensibile rialzo dei prezzi per i manufatti cinesi, scoppi – mafia permettendo – qualche disordine. E’ anche ipotizzabile che i disordini crescano nei mesi e negli anni, ma, mancando un progetto politico alternativo, tutto quel che il Sud otterrà sarà qualche lacrima di cordoglio in un editoriale del ‘Corriere della Sera’ e un titolo a tutta pagina su ‘il Manifesto’.  

Nessuno può dire quel che accadrà domani. Fra le tante cose, potrebbe avvenire che il prossimo governo decida di essere meno permissivo e consonante con la mafia. Ma la cosa non migliorerà in alcun modo l’assieme. Continuando a scambiare l’effetto per la causa, la mafiosità dilagherà come l’unica, possibile fonte di sopravvivenza. Danni ancora peggiori fa l’idea che il Sud debba modellarsi di più e meglio sull’Italia restante. Insistendo su questo equivoco, il meridionalismo si è spento per consunzione. Con smodato cinismo, il coordinamento romano continua a proclamare come modello da seguire, quello toscopadano, ben sapendo che esso non si attaglia alla siluette meridionale. Un disastro che dura da 150 anni lo dimostra a sufficienza. Il Sud è paese grande, con una sua storia antica. Come l’India e come la Cina, che avvizzirono sotto la dominazione o l’influenza inglese, e una volta libere sono rifiorite - così il Sud, che, portato al disastro dal governo unitario, riacquisterà la voce e l’anima, se e quando tornerà libero e indipendente.

L’idea che viviamo una condizione coloniale è chiara nella mente di tutti, ma non si sa come uscirne. Ora, dacché mondo è mondo, dal colonialismo non si esce per iniziativa del colonizzatore - nel nostro caso di Roma e consorti toscopadani - ma in seguito a un processo di liberazione e decolonizzazione.

Avverrà sì o no? Come avverrà? Quando avverrà? Nessuno può dirlo. La risposta è nelle mani di Dio. Noi possiamo fare soltanto il nostro dovere di patrioti, di figli di questa terra, di uomini e donne di questo popolo, di padri e madri di altri meridionali, a cui potrebbe toccare in sorte la stessa impotenza e le stesse umiliazioni che noi abbiamo patito e patiamo. Il debito di amor patrio che abbiamo verso di noi e con il mondo, non lo assolveremo da barbari e ingordi di saccheggi liberisti, ma da esseri pensanti; lo faremo con la giusta umiltà dell’inerme, ma anche con l’orgoglio di sentirci pronipoti di Archimede, di Mafredi, di Antonio Genovesi, di Ferdinando II, di Carmine Crocco.

Il nostro primo dovere sta nell’immaginare un’alternativa al presente che sia coerente con i veri bisogni della nazione. Il primo dei quali è sicuramente un lavoro. Il quadro economico a cui facciamo riferimento è quello dal quale la politica delle potenze europee ci ha strappato: il Mediterraneo orientale. I paesi dell’arco orientale stanno rinascendo. Se un giorno si arriverà alla pace tra ebrei e palestinesi, l’avvenire sarà ancora più limpido. Certamente non è più il tempo di Atene o della Koiné alessandrina. Non è più il Mediterraneo orientale a produrre idee per il mondo. Però è necessario che nell’accettare gli input esterni, essi siano rielaborati, affinché aderiscano con minor dolore umano alla rimodulazione della realtà sottostante. Va soprattutto respinto il principio d’indifferenza rispetto all’occupazione, che è contenuto nel comandamento del minimo costo di produzione. Si tratta di una concezione spesso fallace, fatta circolare ad arte perché favorisce l’azienda capitalistica. Infatti il minor costo di produzione dell’azienda concorrenziale frequentemente si rivela come un maggior costo economico per la collettività circostante, oltre che - naturalmente - un maggior costo umano (l’indifferenza verso i costi umani della transizione è poi il credo non rivelato della filosofia liberl-liberista, come attualmente è facile vedere in Cina).

Il Mediterraneo orientale torna a essere un crocevia del commercio con l’Africa e e con l’Asia. Ma se resteremo nel quadro nazionale italiano, la cosa sarà per noi un’occasione perduta. E non perché l’Italia vorrà tenersi fuori, ma perché i centri nevralgici del movimento saranno dirottati dalle forze politiche verso Livorno, Genova, Trieste, Venezia, e questi porti saldamente collegati da mani milanesi. E forse l’operazione estorsiva ha già raggiunto Napoli, Brindisi, Gioia Tauro.          

Il resto del nostro progetto non è difficile da articolare. Il Sud ha gli uomini capaci e le risorse economiche necessarie per portarsi ai livelli più moderni in tutti i settori della produzione: agricoltura, industria, trasporti, commercio, banca, servizi sociali, scuola etc. Niente pensieri mediani. Il fattore che manca è la libertà statuale. Per questo motivo, è supremamente importante la capacità politica e la serietà del futuro governo. La restaurazione della monarchia borbonica è un dato fondamentale del progetto. Dopo 150 anni di casini elettoralistici, il paese ha bisogno di un punto fermo. Legge e ordine: e non nel senso reazionario, ma in quello della consapevolezza dei doveri personali verso la collettività. In particolare i giovani vanno riportati al senso dell’onore, del rispetto di sé e degli altri, all’amore per il lavoro e per il sapere, al senso critico.

Dove c’è lavoro, prosperità e sapere, crescono spontaneamente la cultura e l’arte.

Oggi c’è solo dolore e vergogna. Cominciamo! Non sarà facile, ma non c’è altra scelta. Che lo spirito dei nostri maestri ed eroi poggi una mano benevola sul futuro di questo paese!         

Nicola Zitara

  





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