L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Italia sì, Italia no

di Nicola Zitara

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Siderno, 20 gennaio 2005


Nel 1971, un mio libro vendette decine di migliaia di copie.  Oggi, che immagino di scrivere cose ben più interessanti che 35 anni fa, stento a vendere cento copie di ‘O sorece morto.

Il fatto è che 35 anni fa la questione meridionale era in auge e oggi no.   

Mi lamento, e invece sono un uomo fortunato. Almeno in parte. Se  il racconto non ha toccato molti cuori, la sfida politica è stata raccolta autorevolmente da Franco Crinò, senatore socialista. Il suo intervento mi dà l’imbeccata per  tornare alla  politica nella sua forma pura e dura. Infatti l’articolo fa risaltare ai miei occhi di vecchio  il cambiamento avvenuto nella classe politica meridionale.

Ricordo (e con gratitudine, nonostante l’attuale freddezza nei rapporti ) la recensione che  Sisinio Zito fece, 35 anni fa per l’Avanti,  del libro di cui ho fatto cenno. Zito, condivise alcune mie conclusioni,  si chiese, però, se  la separazione  del Sud non si sarebbe rivelata – ove attuata –  un rimedio peggiore del male.

Crinò si domanda e domanda invece molto meno, anzi niente. Piuttosto accusa: “La politica è la causa (unica) di tutti i mali (del Sud)? O è (l’unico) parafulmine (di questi mali)?”

In verità, il disagio personale, se merita considerazione umana, politicamente è irrilevante. Mi spiego.

Traducendolo le osservazioni in  termini di sentire politico si ha la seguente affermazione: la società meridionale è quella che è, e noi politici ne condividiamo le difficoltà. Le colpe della classe politica, se ci sono, non sono maggiori delle colpe della collettività.

Ma non è così. La rappresentanza indiretta (parlamentare) del popolo sovrano è in effetti una sovranità  trasferita. Il parlamento non è una macchina fotografica, o peggio, un registratore di cassa. Secondo  me le cose stanno in modo completamente diverso. Il corso inaugurato nel 1992 da Giuliano Amato comporta delle “divergenze parallele”: da una parte mano libera al profitto delle aziende, dall’altra il cetriolo in quel posto all’ortolano.

Ora, il Sud ha più ortolani del resto d’Italia. Qui il dolore si sente. Per lenirlo si apre la valvola e si lasciano fuoriuscire dei gas soporiferi. Oggi, più che ieri, sento per l’aria odore di oppiacei. Lo sento arrivare da Napoli,  da Vibo, da Crotone. Una nuova, colossale presa per il culo è visibile a occhio nudo: da parte governativa l’oppio antitributario, da parte dell’opposizione l’oppio dell’antimafia, a coprire il vuoto politico della destra e della sinistra.

In questo articolo affronterò parecchi  temi, che fra loro s’intrecciano .Il lettore dovrà scusarmi. Il vecchio non mira più a far bella figura. Vorrebbe invece insegnare, trasmettere quel che ha imparato dalla vita e dai libri, che sono le esperienze di altri, e di altri ancora, fino al principio dei tempi. Insomma sarò  prolisso.. 

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Primo tema. La classe politica è un argomento che oggi si studia nelle università di tutto l’Occidente. Come materia di studio emerse, in Italia, subito dopo l’unità. E non a caso. Difatti la “leggerezza morale”, il menefreghismo verso il paese reale da parte dei governanti, dei parlamentari, del re  e dei politici locali era senza confronti in altri paesi dell’Occidente (la famosa’ questione morale’).


Il padre della materia è Gaetano Mosca, un grande giurista palermitano, nato al tempo di Garibaldi e morto da senatore del Regno, al tempo di Mussolini. Secondo l’illustre costituzionalista, qualunque sia la forma di governo, il potere è detenuto da un élite organizzata, che mira a perpetuare sé stessa, e che pertanto, all’interno di ciascuno Stato diventa, con il passare del tempo, una forza conservatrice del sistema sociale su cui esercita il dominio (Gramsci contrappose le idee di “intellettuale collettivo” e di “egemonia culturale”, che poi una volta messe in pratica da Togliatti risultarono, almeno per il proletariato meridionale, più disastrose del notabilato giolittiano).

E’ anche il caso di aggiungere che al tempo di Gaetano Mosca la corruzione non era un male dei politici meridionali, ma  un male tipico della Toscopadana, la cui classe politica aveva fatto e faceva della povera Italia un pozzo da prosciugare. Insomma la continuazione storica e risorgimentata del  “bordello” di cui aveva parlato  Dante sei secoli prima.

 Se oggi il malaffare appare come un  fatto tipicamente meridionale, ciò avviene perché il padronato padano, arricchitosi alle spalle di tutti gli italiani e divenuto padrone dei grandi giornali e della RaiTv, blocca alla fonte ogni notizia che possa rovinare la cipria che si dà sulle guance, e paga generosamente i giornalisti  più abili in reticenza e falsificazione dei fatti (Montanelli, Bocca, Biagi,  Scalfari etc.).

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Secondo tema. L’Italia è una nazione (una collettività culturale) identificata poeticamente da Virgilio. Una mezza identificazione politica  si ebbe soltanto due secoli dopo,  con la divisione tra impero d’Oriente e d’Occidente, tra imperatori e vice-imperatori.  Uno Stato italiano non è mai esistito prima del 1861. 

Un regno longobardo d’Italia, fondato qualche secolo dopo la caduta dell’Impero romano, non  giunse che a Benevento e finì nello spazio di due generazioni. Più di mille anni dopo, la Repubblica Cisalpina e, a seguire,  il napoleonico Regno d’Italia, non incluse il Sud. Il Regno di Napoli ebbe dei re francesi per circa undici anni. La Sicilia rimase ai Borbone. La complessiva esperienza dei regni napoleonici in Italia si svolse tra 1799 e il 1815, sedici anni in tutto.

 

L’unità d’Italia fu realizzata mercé l’intervento decisivo dell’esercito francese, sceso in campo, nel 1859, contro l’Impero austriaco per sabaudizzare il Lombardo -Veneto. La successiva impresa garibaldina (1860) fu preordinata dai baroni siciliani, avversi ai re Borbone. I  baroni sollevarono l’Isola con l’aiuto della mafia due mesi prima dell’arrivo di Garibaldi e prepararono le sue facili vittorie corrompendo i generali e galvanizzando le popolazioni con la distribuzione di piastre d’argento che gli Inglesi avevano portato appositamente dalla Turchia.

Garibaldi   ebbe un facile successo anche nel Sud continentale in quanto la classe padronale napoletana temeva che il re delle Due Sicilie non sarebbe stato   in condizione di difenderla dai contadini, senza l’aiuto  dell’Austria,  che, però sconfitta, si era  impegnata con Napoleone III a non intervenire in Italia. 

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L’idea di una nazione italiana era viva solo fra gli intellettuali, diciamo così, di sinistra. La cosa risaliva al tempo di Dante, Petrarca e Boccaccio, che avevano innalzato a lingua (a scapito del latino usato dai dotti e anche da loro in alcune opere) il dialetto prevalente nel tratto tirrenico compreso tra Napoli, Roma e Firenze.

Conseguentemente l’annessione del Sud al Regno sabaudo non fu il risultato di una rivoluzione “nazionale”,  estesa, popolare o borghese, ma la mera associazione di una frazione del padronato fondiario e del ceto degli intellettuali meridionali all’élite risorgimentale padana.

Ai rivoluzionari veri, come Mazzini, la condanna a morte infitta dai Savoia non fu revocata. Mazzini poté sì morire nell’Italia risorgimentata, ma sotto un falso nome e  vigilato a vista dalle guardie di finanza,  Cattaneo si rifugiò in Svizzera, Garibaldi formalmente “si ritirò” a Caprera, un isoletta disabitata, ma in effetti fu spedito al confino di polizia con qualche sacco di grano da semina.

Con l’unità, il Sud, che era un paese indipendente, onorato da tutto il mondo e ben governato, divenne una colonia della Padana.

Al momento dell’unità, il Sud era in crescita e il Centronord ancora in declino. Erano due paesi molto diversi, perché diverse erano le rispettive borghesie. Al Sud gli istruiti erano sicuramente più numerosi che al Centronord  (diecimila studenti universitari, in un paese che aveva la  terza parte  della popolazione italiana,  contro seimila nell’Italia restante, pari a due  terzi della popolazione italiana). 

Ma la borghesia toscopadana era più evoluta (o meno arretrata), le città erano  più vitali (o meno spnente), l’agricoltura era basata su rapporti capitalistici (questa la causa del fatto che  i contadini settentrionali mangiavano meno ed erano meno forti dei contadini meridionali).

La Toscopadana  era stata la culla della civiltà moderna durante i secoli delle autonomie comunali e per tutto il Rinascimento. Negli stessi secoli il Sud aveva svolto la funzione di baluardo della Cristianità contro gli Arabi e Turchi. Per questa ragione, la Chiesa, i Francesi e gli Spagnoli vi avevano introdotto il sistema  feudale con le sue chiusure classiste, proprio quando il feudalesimo veniva superato nell’Italia comunale.

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La Toscopdana, culla della civiltà moderna,  prese a declinare verso il 1550, in seguito alla scoperta dell’America. La cosa dette luogo a una lacerante contraddizione: un popolo immensamente più civile degli altri (così lo celebrò nientemeno che William Shakespeare) era vittima e servo di nazioni meno civili e di gente meno capace (era il tempo in cui l’Italia, del Sud e del Nord, forniva i colti, gli artisti, i politici, i diplomatici, gli artigiani, i generali e anche i migliori soldati mercenari alle grandi potenze d’Europa).

La condizione della Toscopadana era andata così indietro che,  nel 1860, Firenze, Venezia e Genova non erano neanche l’ombra di quelle potenze commerciali e bancarie, di quelle centrali culturali e artistiche, che erano state 400 anni prima. Nel 1860 solo  l’agricoltura stava avanzando, in virtù della produzione di seta greggia, avviata subito dopo la caduta di Napoleone, sotto il regime austriaco.

    

Diversa la storia del Sud. Dopo la sconfitta e la morte di Manfredi (il figlio naturale di Federico II) ad opera delle forze papaline e dei Comuni toscopadani (1266),  oltre a perdere l’indipendenza e a essere portato indietro commercialmente, il Sud divenne anche una colonia dei mercanti e degli usurai fiorentini e genovesi.

Il fatto che sotto i Francesi e gli Spagnoli  Napoli fosse la città più grande e più ricca del mondo intero non nasconde che il resto del paese viveva in una condizione civile alquanto inferiore a quella dei Toscani, dei Lombardi, dei  Liguri e dei Veneti.

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La ripresa del Sud iniziò nei primi decenni del 1700, con la Rivoluzione commerciale. L’Europa atlantica e l’America divennero consumatrici di zolfo, di olio e di altri prodotti mediterranei. La Spagna e il Portogallo, al tempo,  non facevano molta concorrenza, il resto del Mediterraneo era come morto alle attività di esportazione, cosicché le esportazioni meridionali venivano pagate bene.

La fase iniziale di questo lungo periodo di sviluppo coincise con l’assegnazione di Napoli e della Sicilia al figlio di Elisabetta Farnese, duchessa di Parma e seconda moglie del re di Spagna Filippo V. Con l’arrivo di Carlo di Borbone(1734), Napoli e la Sicilia furono sganciati dalla Spagna. Antonio Genovesi, il fondatore dell’Illuminismo napoletano, salutò la nascita dell’indipendenza nazionale. Per giunta i Borbone furono  re saggi, amanti del popolo e del progresso. Sotto la loro guida il paese fece progressi velocissimi nel campo commerciale e industriale, e andò arricchendosi. 

Si pensi che i depositi privati presso il Banco delle Due Sicilie salirono, tra il 1830  al 1858, da circa 50 milioni a oltre 250 milioni (lire piemontesi del 1860); la massima ricchezza presente nell’Italia preunitaria. I Borbone allontanarono i mercanti toscani e liguri. Gli usurai erano stati cacciati anche prima.

I Banchi pubblici furono un fattore d’indipendenza e un serio aiuto per la povera gente. Sotto Ferdinando II la flotta mercantile duosiciliana divenne la seconda in Europa e il Regno delle Due Sicilie fu giudicato lo Stato più industrializzato d’Italia.  

Tranne l’espansione dell’olivicoltura, furono invece molto stentati i progressi in agricoltura. I Borboni non vollero danneggiare i contadini, che esercitavano i diritti di pascolo e di legnatico sui demani comunali, e neppure la Chiesa,  gran proprietaria terriera. Ma neanche vollero  inimicarsi i nuovi proprietari non aristocratici, che a loro volta anelavano a impossessarsi delle terre destinate all’uso promiscuo. Lasciarono marcire il problema, ed è probabile che fu la loro indecisione a portare il Sud sotto il governo padano.

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Terzo tema. La parola Risorgimento implica l’idea di rinascita dopo una caduta. Nelle città toscopadane l’idea d’unità d’Italia era in funzione del loro Risorgimento. Nel Sud, l’idea di unità nazionale aveva una valenza del tutto diversa. Per i cosiddetti patrioti consisteva nella fine dell’assolutismo regio e nell’introduzione delle libertà parlamentari e costituzionali.

Dal 1848 in poi, le simpatie dei baroni siciliani e dei patrioti napoletani si rivolsero al Piemonte, dove Carlo Alberto aveva avuto la forza morale e politica di mantenere in vita il regime costituzionale, nonostante fosse stato sconfitto nella guerra intrapresa per conquistare il Lombardo-Veneto.

L’inganno e la soggezione del Sud gira intorno all’equivoco tra risorgimento del paese, indipendenza  dall’Austria, unificazione della penisola e costituzione regia. Comunque sia, l’unità d’Italia stroncò lo sviluppo del Sud, lo spogliò di tutte le risorse monetarie, bloccò i commerci, dissipò il potenziale agricolo,  chiuse le industrie, decapitò la classe imprenditoriale e  sottomise le popolazioni ai dazi sui consumi alimentari e più in generale a una fiscalità inaudita, quattro o cinque volte che nell’Italia restante. Insomma fu il Sud a pagare “il risorgimento” delle città toscopadane. Perché l’incasso non mancasse, il nuovo  Stato trattò il Sud da nemico vinto e conquistato.

Per coprirsi le spalle,  da allora il sistema toscopadano  compra il ceto politico meridionale (gli asacari), pagandolo con la libertà di dissipare le pubbliche risorse per fare  del clientelismo elettorale.

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La premessa era necessaria per capirci. Quarto tema. Veniamo all’oggi, anno del Signore 2005. Sud e Nord sono ancora due paesi diversi, come nel 1860. La sola differenza da mettere in risalto è che allora il Sud era in crescita, mentre oggi è in retromarcia veloce e viaggia verso l’ultima fase cavourrista: una condizione subsahariana.

Al tempo della partitocrazia (1943-1994), al centro della cosiddetta questione meridionale stava il problema detto volgarmente della disoccupazione, in effetti il problema della non produzione industriale. I termini dell’antitesi italiana erano il capitalismo padano, da una parte, e l’assenza di un capitalismo meridionale, dall’altra. 

L’antitesi attuale è parecchio diversa. La subordinazione del Sud viene realizzata principalmente dalla grande distribuzione e dalle finanziarie. La classe politica di destra e di sinistra assolve un ruolo secondario, logistico, di retroguardia, che consiste nel benedire il meccanismo in parlamento e negli enti territoriali: Regioni, Comuni, Province.

Se guardiamo agli sprechi regionali e comunali, e ci chiediamo perché una cosa del genere in un momento di vera carestia, la risposta l’avremo guardando alternativamente Schifani e  Bassolino.

Ci renderemo conto che hanno la stessa faccia da becchino. Il problema della disoccupazione è cancellato. Non esiste ufficialmente. Ma, fra non molto, chi vorrà lavorare dovrà dare la mazzetta al datore di lavoro, come un tempo si dava all’impiegato municipale che registrava un nuovo nato. 

Comunque un salario di 3-400 euro basta e avanza. Lo sorti della Padana, che annaspa e non vorrebbe morire, si giocano sulla pelle delle ragazze che stanno alla cassa, nei supermercati.

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E noi – plebe d’Italia - siamo costretti a mantenere l’Enel, la Telecom, l’Italgas, le Assicurazioni auto, l’Eni,  come la plebe romana era costretta a mantenere gli usurai che sedevano in Senato. Dobbiamo mantenere uno Stato nemico, delle Regioni nemiche, dei Sindaci nemici, persino una CEI nemica. Ciò perché siamo Italiani, patrioti, figlioletti di Mameli, osannatori di Ciampi e consorte. Dobbiamo mantenere persino 11.000 forestali, fuochistica processione di elettori e preferenziatori,  e non so quanti medici e infermieri nullafacenti.

Degli autentici  pericoli pubblici. Ciò per la pace d’Italia e  per rassicurare il capitalismo berluscon-prodiano; un sistema devastante per l’80 per cento delle famiglie meridionali. Chi aveva dei risparmi è  stato già alleggerito dalla banche e dalla conversione della lira in euro. Chi li avrà, lo sarà quanto prima.       

Sud e mafia, dice Report. Ma è una mezza verità. La verità intera è questa: la mafia come agente del capitalismo toscopadano nella colonia Meridione.

La resistenza del Sud alla nuova spoliazione si fa ogni giorno più debole. Non solo la disoccupazione torna a imperversare come nel 1880 e come nel 1947, ma i presìdi nordisti in terra meridionale diventano più numerosi e più forti. Le banche padane ormai hanno in mano tutta la ricchezza mobiliare che il Sud produce. Le finanziarie toscopadane praticano sfacciatamente l’usura e amministrano alta e bassa giustizia, segnando  sui loro siti illeciti i  buoni e i cattivi.

Neanche ai casellari giudiziari è concesso di trinciare e propalare giudizi  sulla moralità dei privati. Ma loro lo fanno impunemente. E non basta. Le finanziarie mandano in giro degli esattori con facoltà di mazzetta, autorizzati a  restituire l’onore a chi l’ha perduto.  Sembra un romanzo dell’Ottocento russo, in cui il carceriere prende la mancia da una moglie che vuole mandare un paio di calze di lana al marito deportato in Siberia.

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Ogni giorno un supermercato, appartenente a una catena commerciale nordista, apre i suoi battenti al Sud. Mercé lo stretto rapporto con la mafia, il controllo dei consumatori meridionali è totale. Non si spiegherebbe altrimenti come un chilo di pomodori di Pachino venga pagato al produttore meno di 0,10 euro (200 ex lire) e costi, poi, al consumatore della stessa Pachino 2,5 euro (5.000 ex lire).

Il Sud è legato mani e piedi alla croce, e fra non molto vi sarà inchiodato.

La mafia si è messi i ceppi da sé. Prima pigliava il pizzo dall’appaltatore che scendeva in colonia a costruire una strada, adesso paga il pizzo alla finanza padana, lavora per lei e sotto di lei.

Il candidato anti-Berlusconi, il prof. Romano Prodi, va asserendo che il Sud rinascerà in seguito all’esplosione delle importazioni europee dalla Cina, la quali,  transitando obbligatoriamente per il Canale di Suez,  approderanno  - dice lui - obbligatoriamente a Napoli e in altri luoghi del Sud. Ma per conto ed opera della finanza padana. Professore, a chi lo canti questo stornello!  

Sarebbero cose da sbellicarsi dalle risate, se la tragedia non incombesse pesantemente proprio in rapporto alla caduta dei salari  che la globalizzazione sta provocando. E’ la solita messa cantata, lo spettacolo di sempre. “Imparate una lingua  straniera ed emigrate” venne a dirci De Gasperi cinquanta anni fa. E dobbiamo dire che si comportò lealmente.

Non così altri. Nessuno vuole ricordare che, quando la flotta italiana fu distrutta nella battaglia navale di Lissa (1866), la nuova flotta venne costruita nel cantiere ex borbonico di Castellammare di Stabia.

Altro non c’era. La Padana industriale era là da venire. Sembrava la premessa e la promessa di un’avvenire sicuro per l’hinterland napoletano. Invece i cantieri della Regia Marina, appena possibile, furono trasferiti a La Spezia, città che aveva 25/30.000 abitanti nel 1860 e che superò i 100 mila nel 1900; solo quarant’anni sabaudi. La stessa cosa per l’industria pastaia e conserviera napoletana.

L’Italia esportatrice di prodotti dell’industria non cominciò la sua storia a Melano, ma  con la pasta e con le conserve di pomodoro di Napoli e dintorni, nel 1880. Finì come doveva finire. Nel secondo dopoguerra i “compagni” emiliani vollero vedere come si faceva. Il gioco gli piacque. Ci misero il loro marchio e voilà!

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La Nemesi, la vendetta della storia? L’industria padana sta finendo per mano dei finanzieri milanesi, che si scialacquano i soldi  dai risparmiatori italiani sulle spiagge assolate dei Tropici.  

Anche il clientelismo è finito. Oggi non è più questione di costume o di buon costume, di politici come classe o ceto, elemento vitale per l’esistenza dello Stato nazionale. La finanza nordista si è liquidata l’industria e ha messo il Welfare a pane e acqua, negando i soldi allo Stato. Lo Stato non paga, il clientelismo è finito.

Sia Berlusconi sia Prodi sanno che ancora una volta la risorsa per risorgimentare ancora una volta  è il Sud, con i suoi lavoratori, i suoi intellettuali, le sue risorse energetiche (petrolio e gas), per l’insolazione abbondante (energia solare), per l’inventiva della gente.

La parte forte d’Italia, l’unica che potrebbe  sopravvivere ai tempi (energetici) che cambiano, l’unica capace di resistere alla concorrenza globale.  Da qui il coinvolgimento della mafia, con la funzione di borghesia compradora, borghesia servile a cui è assegnato il controllo sociale.  

A questo punto ognuno  -  appartenenti alla classe politica e privati cittadini - deve scegliere da che parte stare. 2300 anni fa, i ricchi magnogreci scelsero di non combattere e pagarono il re dell’Epiro, Pirro, perché lo facesse al loro posto.

La cosa finì con i greci che si davano schiavi ai romani, pur di campare. Speriamo che non succeda la stessa cosa nei prossimi anni. Il nemico da cui difendersi è Roma. La mafia, che gli tiene bordone, è solo un bersaglio manovrato. Non cadiamo nell’errore a cui il nemico vero ci induce. Solo se ci liberiamo da questo Stato, riusciremo a liberaci dalla mafia.

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Quinto tema. Lo sviluppo economico ha alla sua base la divisione del lavoro: il medico, l’ingegnere, il meccanico, l’agricoltore etc. Il valore aggiunto è l’aspetto remunerativo e monetario della divisione del lavoro. Un manovale estrae un carico di argilla dal greto di un torrente/ Un bovaro lo trasporta in città con il suo carro/ La bottega di un vasaio/ Un tornio/ Il vasaio. Nuovo lavoro si aggiunge al lavoro precedente.

L’ultima aggiunta, quella del vasaio, corrisponde alla massima valorizzazione dell’argilla. Un pozzo di petrolio in Iraq/ Una trivella americana/ Un oleodotto americano/Una petroliera svedese/Una raffineria siciliana/Benzina/Autobotti fabbricate a Torino/Un benzinaio calabrese/Un capitalista milanese/ Benzina a un euro e rotti alla pompa. Chi profitta? Il benzinaio, l’iracheno o Moratti?

Tutte le merci hanno un loro valore insopprimibile, il quale  emerge quando la merce arriva sul mercato per essere scambiata con il danaro (cioè con il lavoro). Il valore dei pomodori di Pachino è pari al prezzo che paghiamo dal fruttivendolo, ma a Pachino la remunerazione del produttore di pomodoro è la trentesima parte del prezzo che i pomodori realizzano sul mercato.

Chi sta in cima alla catena prende la propria paga e incassa anche quella parte di paga che il lavoratore precedente avrebbe dovuto ottenere, ma non ha ottenuto. A noi meridionali la scelta se produrre arance (livello di partenza del valore aggiunto agrumario) e lasciar fare le aranciate a Milano (livello finale del valore aggiunto agrumario, che incorpora e fa suo il differenziale tra la bassa paga del lavoro agricolo e il suo effettivo valore), oppure se fare noi le aranciate.

Non è una scelta semplice come sembrerebbe, in quanto implica anche la scelta se avere uno Stato proprio o stare sotto uno stato straniero (o solo forestiero, ma fa lo stesso in pratica).     

A me, Ciampi non  piace e non mi commuove. Forse a voi sì. Ma finché voi lacrimerete alle note dell’Inno di Mameli, il prezzo dei pomodori, a Pachino, sarà tale che non varrà la fatica di coltivarli. 

Le aranciate (un euro a bottiglietta) le faranno a Milano con le vostre arance, 20 centesimi al chilo, se tutto va bene. Il petrolio e il gas nascosti nelle viscere della nostra terra saranno una risorsa per loro o per noi? Saremo come gli americani o come gli iracheni? A voi l’ardua sentenza.    


Nicola Zitara


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