L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Resistenza e Costituzione gabbate

di Nicola Zitara

Siderno, 29 Aprile 2007

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Il discorso su un diritto resterebbe una petizione di principio se non venisse innervato nella sua particolare storia. Partiamo da Adamo ed Eva. La nostra vita è governata non soltanto dalla natura - di cui facciamo parte, o facciamo tuttora parte, anche se da tempo immemorabile la specie umana tenta di sovrastarla, stravolgerla e superarla - ma anche dalle relazioni economiche e culturali che vigono nell’arco di tempo compreso tra la nascita e la morte di ciascuno. Cesare, che pure era giudicato, almeno da una parte dei Romani, un cittadino esemplare, non pagava le tasse. Non era arroganza. Non le pagava perché tutti i cittadini romani erano esenti da tale obbligo. Cristoforo Colombo dovette genuflettersi (o propriamente inginocchiarsi, non so bene) parecchie volte a cospetto della Regina Isabella prima d’ottenere il finanziamento necessario per armare le tre caravelle con cui, poi, scoprì l’America. Oggi un finanziamento del genere lo deliberebbe, inaudita altera parte, il ministro Tonino Di Pietro, il quale non chiederebbe al navigatore di genuflettersi, ma soltanto il voto.

Basta accendere la televisione o aprire un giornale per sentirci ripetere per la milionesima volta che la natura è cambiata nel tempo, sia per effetto delle sue fisiche, chimiche e biologiche vicende, sia a causa dell’opera umana. Quel che giornali e televisione trascurano di ricordarci, non dico altrettante volte, ma almeno una volta l’anno, è che le regole sociali (proprio quelle umane, quindi non divine né naturali) cambiano a un ritmo incredibilmente più veloce degli assetti naturali. Al tempo di Cesare, la ricchezza di un popolo derivava dal numero degli schiavi che aveva al suo servizio. Nella gloriosa Atene, faro di civiltà, gli schiavi erano un terzo o un quarto di tutti i suoi abitanti, nell’Italia romana gli schiavi erano in proporzione maggiore, ed è alquanto probabile che chi di noi, oggi, si considera (a giusto titolo giuridico) italiano discenda da una schiava. Persino Azeglio Ciampi potrebbe discendere da una numida. E Bossi da una scimmia tibetana. La schiavitù sembrava una cosa del tutto naturale sia ad Aristotele sia all’imperatore Tito, delizia del genero umano. Bisogna aspettare la predicazione cristiana perché si faccia strada l’idea che la schiavitù non è un fatto naturale, e bisogna aspettare la Rivoluzione francese (mille e ottocento anni dopo la nascita di Cristo) perché uno Stato abolisca la schiavitù sul proprio territorio.

Al tempo di Cristoforo Colombo chi aveva il potere politico aveva anche il territorio. E siccome la concessione di una terra da coltivare fruttava una rendita, i re, i duchi, i conti, oltre ad essere potenti erano anche ricchi. Furono proprio le grandi quantità d’oro e d’argento portate dall’America a sconvolgere l’assetto feudale e dinastico. Infatti gli Spagnoli presero a spendere l’oro e l’argento con molta disinvoltura, per consumare più prodotti agricoli e più manufatti di quanti loro stessi ne producessero. Ciò arricchì i mercanti olandesi e anseatici, che li incettavano dalla Russia all’Oceano Indiano, e altre nazioni fattesi mercanti con l’occasione.

L’abbondanza di moneta, la circolazione internazionale dell’oro, sviluppò gli scambi e conseguentemente la produzione. Chi produceva pari a Uno, perché produrre di più non serviva, trovato un compratore pagante, per avere oro produsse pari a Due. Ma come si fa a produrre Due invece di Uno? Attraverso la divisione del lavoro. Se nel mio giardino ho un albero di limoni, uno di arance, uno di mandarini, uno di pere, è difficile che i loro frutti diventino soldi. Se invece mi dedico soltanto ai limoni, non solo ne produco una quantità vendibile, che può interessare l’esportatore internazionale, ma miglioro anche le mie conoscenze in materia agrumaria e mi doto degli attrezzi opportuni a rendere più facile, sbrigativo e produttivo il tempo che dedico alla coltivazione e alla raccolta.

La logica della società in cui viviamo è scaturita dallo stimolo a produrre di più in cambio di denaro. Il quale danaro serve in primo luogo allo scambio fra gente specializzatesi nella produzione di una sola cosa. Lo scambio soddisfa i bisogni umani: quelli individuali, quelli familiari, quelli collettivi. L’assunto che teorizza il meccanismo è il seguente: facendo il proprio tornaconto, si fa l’interesse di tutti, in quanto cresce la produttività del lavoro, crescono quindi la quantità e la qualità dei beni vendibili e le soddisfazioni che l’uomo ottiene in cambio del suo lavoro. Il mercato è simile alla provvidenza divina che moltiplica i pani e i pesci.

Niente, però, nella vita umana è simile a al prodotto matematico, per cui 2x2 fa sempre 4. Raggiunto storicamente un nuovo assetto attraverso un meccanismo capace di spazzare via l’assetto precedente, quello stesso meccanismo – nel nostro caso la circolazione monetaria – diventa causa di uno squilibrio. Infatti il danaro non serve solamente a pagare le merci e i servizi, ma, pur nella sua immobilità e non fecondità, può essere impiegato a produrre altro danaro. Ovviamente, dietro un pezzo d’oro o un biglietto di carta, di per sé assolutamente sterili, si nasconde un uomo che lavora. Quest’uomo non è il padrone del danaro. Il ricco può benissimo avere accumulato quel che ha con le sue fatiche e la sua attitudine al risparmio; può altresì continuare a fare altro danaro migliorando le attrezzature con cui lavora; ad esempio, il contadino con un trattore, il falegname con una sega elettrica. Ma in tal caso è ancora il lavoro a fare danaro. Affinché il danaro da solo frutti altro danaro deve trasformarsi in capitale (dal latino caput, capo, principale). Il capitale altro non è che il potere di comandare il lavoro degli altri, lo dice la stessa parola.

Alla logica del profitto, due secoli fa, dopo le guerre napoleoniche, si oppose un’altra logica, quella del lavoro. Se è il lavoro umano che, muovendo le macchine prodotte con altro lavoro umano, sta alla fonte di qualunque prodotto o merce, allora il potere di governare le nazioni e gli Stati è giusto che passi dalle mani dei capitalisti alle mani dei lavoratori. Oltre tutto, il precedente sistema aveva paurosamente impoverito i poveri. Era il pauperismo, la questione sociale. A quel punto le due filosofie trovarono il modo di convivere. Ciò era necessario ai ricchi, perché la povertà indebolisce i muscoli e i nervi. Una classe del lavoro debole avrebbe indebolito la nazione e i suoi capitalisti. Si arrivò così alla tutela dei lavoratori. Tutti ne conosciamo gli aspetti salienti: pensioni, sanità, assicurazioni e sicurezza sui luoghi di lavoro, assegni familiari, divieto di lavoro in età minorile, i contratti nazionali di lavoro con il rango di legge dello Stato, etc. In Italia, tali innovazioni, dette Stato sociale, sono state rafforzate ed elevate a diritti di alto rango attraverso specifiche norme dalla Costituzione repubblicana. La Costituzione è stampata, chiunque può leggerla. Ove si trascuri di farlo, i presidenti della Repubblica, i ministri, i deputati, gli Enzo Biagi, i Michele Santoro, l’Unità, la Repubblica, il Corriere della sera, le bandiere che avvolgono i pingui corpi dei nostri sindaci e dei nostri governatori, i prefetti, le ricorrenze storiche, il ponte rituale tra il 24 aprile e il 2 maggio, ce la ricordano a colazione, pranzo e cena.

Solo di un diritto codificato nell’articolo 38 della Costituzione, secondo comma, gli eupatridi non parlano mai. Dato il peso che hanno i media presso la pubblica opinione, non sentirne parlare è come se la cosa non esistesse. Lo trascrivo nella parte su cui pongo l’accento.

“I lavoratori hanno diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di […] disoccupazione involontaria.”

Quando, nel 1948, fu nota questa impegnativa proclamazione dello Stato italiano, un giovane che allora votava per la prima volta poté ingenuamente entusiasmarsi. Lo Stato italiano si sarebbe emendato delle sue colpe storiche verso le popolazioni meridionali. La Resistenza era “il vento del Nord”, proclamò un amato (e credo anche lui ingenuo) leader politico. La Costituzione era l’atto notarile che il vento soffiava veramente. Ma non fu affatto così. Ebbe a proclamarlo lo stesso osannatore di Ostro. Arresosi ai fatti, cambiò parere e affermò che Stato italiano era “forte con i deboli e debole con i forti”.

Dall’Inghilterra alla Francia, dalla Germania agli USA, tutte le grandi potenze industriali riconoscono un’indennità al lavoratore disoccupato. Lo fa anche la grande potenza Italia, quinta, sesta o settima a livello mondiale per il suo Prodotto Interno Lordo. Lo fa però solo nelle regioni forti, in Toscopadana, attraverso parecchi strumenti legislativi, ovviamente finanziati dalla fiscalità generale (nazionale), il più importante dei quali è la cassa integrazione guadagni. Questo strumento tutela i “forti” e gabba i “deboli”. Chi perde il posto a Palermo, per la chiusura della fabbrica in cui lavorava, riceve lo stesso trattamento di chi perde il posto a Torino. Solo che a Torino le fabbriche, prima di chiudere sono state aperte, mentre a Palermo non sono mai state aperte. Così a Torino godono della cassa integrazione cinquantamila o centomila disoccupati alla volta, mentre a Palermo disoccupati si nasce, quindi il posto non si perde Patriotticamente, a Torino si pagano imposte per la disoccupazione di Palermo e a Palermo per la disoccupazione di Torino. Viva Garibaldi! Più patrioti e democratici di sinistra di così è impossibile!

Un giornalista non ha gli strumenti lessicali per descrivere la disoccupazione. Solo un poeta, un narratore, un drammaturgo può farlo. Verga, Steinbeck, Brekt, Günther Grass. La disoccupazione è una malattia che entra nelle vene della persona, del giovane, dell’adulto, delle famiglie. Un’epidemia che ammorba l’aria e degrada l’ambiente. Rende esposti, deboli, servili gli uomini, le donne, i ragazzi. La dignità del disoccupato muore fuori e dentro i muri di casa, gira sui marciapiedi ed entra nei caffè del paese. Il giornalista purtroppo non è poeta né romanziere. Può soltanto girare attorno al dramma come una falena, e va considerato un fortunato se non si brucia le ali. Coglie soltanto il significato logico e umano del raggiro, dello sberleffo stile Giovanni Boccaccio, di cui è vittima il lavoratore meridionale sin da quando è “italiano”.

Come si regge patriotticamente una colonia? Basta emarginare il valente e spingere in alto il fetente, cioè basta conferire ai più vili fra i coloniali il potere di dare un posto di lavoro al disoccupato storico, .la divina autorità di liberare un essere umano dalla disperazione di senza lavoro. Niente lavoro fuori della clientela politica. Questo è il versante sudico dell’Italia unita, questa la democrazia resistenziale, nell’interfaccia meridionale! Qui, in “questa terra finalmente restituita alla patria”, gli sciacalli si nutrono delle carogne dei loro stessi fratelli.

Passata la festa, gabbato lo santo. La Resistenza fu una generosa ubriacatura. Smaltita la sbornia, i resistenti hanno tradito la Resistenza. Per la storia d’Italia non è una sorpresa, essi erano i figli dei fascisti della Marcia su Roma, i fascisti erano i figli dei massacratori dei contadini-briganti, i massacratori erano i pronipoti degli usurai toscopadani a cui i re barbarici, da loro stessi chiamati, portati in Italia e imposti al Sud, appaltavano le imposte. Nessuna sorpresa, quindi se hanno tradito il Risorgimento trasformandolo in un intrallazzo, se in appresso hanno mortificato, violentato, la loro Costituzione, se hanno avvilito un popolo ricco di qualità umane e di inconsueta generosità, se hanno degradato la vita collettiva, umiliato la vocazione al lavoro, portato la terra alla sterilità, disorganizzato il tessuto sociale, ridotto le città a un putrido mondezzaio, mistificato l’identità collettiva fino farne un geroglifico etnologico.

Non esiste una sola possibilità che il problema della disoccupazione endemica, che affligge le popolazioni meridionali sin dai 1860, cioè da quando sono state ingannate dal colore rosso delle camicie nemiche, possa essere affrontato e risolto (insieme a quello mafioso) nel sistema messo in piedi dallo Stato unitario italiano. Il malanno, che in passato colpiva in prima battuta i ceti del lavoro manuale, oggi pervade ogni settore asociale, in particolar modo i giovani che il sistema italiano parcheggia nelle università e nel circuito delle lauree senza sbocchi, per lasciarli a carico delle famiglie. Cosicché lavoro e indipendenza sono problemi connessi, uno il risvolto dell’altro. L’idea separatista non ha soltanto un significato attinente alla morale collettiva, ma affonda e s’innerva nella difesa del lavoratore e della sua dignità intima e sociale.

Il brigantaggio è irripetibile. Il possesso della terra in cui si butta il sangue e l’anima è cosa di un tempo passato e trapassato. La lotta del senza lavoro comincia nel presente e va immediatamente avvita imponendo l’applicazione delle tutele legislative già esistenti. Il sistema codificato è stato sconvolto recentemente a favore del lavoro eslege, ma il pudore ha costretto il legislatore a moderarsi. L’assunzione del lavoratore comporta un dovere di pubblicità e l’obbligo di contrarre un’assicurazione per il caso di infortunio e un’assicurazione pensionistica. La violazione di tali obblighi è sanzionata penalmente e sanzionato è il mancato rispetto della retribuzione stabilita dal contratto nazionale di lavoro.

Se difendiamo il nostro lavoratore, difendiamo la nostra libertà. Non ci servono i prefetti, ci basta che gli ispettori del lavoro tornino a esercitare la vigilanza prescritta dalla legge. L’omissione è un reato e i reati vanno repressi. Anche il sonno dei sindacalisti è un brutto segno. Potrebbe persino generare il pericoloso sospetto di connivenze innominabili.

L’indipendenza va costruita un giorno dopo l’altro e anche con le armi che il nemico ci offre nella convinzione che non le sapremmo usare.

Stravaganze politico-elettorali

Spesso mi chiedo se alcuni miei compatrioti di fede neoborbonica non siano fin troppo disinvolti nell’avvicinarsi all’attualità politica. Intanto questi avvicinamenti avvengono sempre in un periodo elettorale. In secondo luogo si realizzano senza uno straccio di programma politico. Viene da pensare che siano la conseguenza del fatto che uno s’è svegliato la mattina con una gran voglia di mettersi in scena, ma poi, se vai a vedere, non ha letto il copione la sera prima.

Mi pare (spero di sbagliare) che la vecchia dinastia, che tanto ammiriamo e rimpiangiamo, abbia codificato una nuova legge salica, in base alla quale ognuno di noi si può proclamare re di Napoli, Sicilia e Gerusalemme. Avremo così contemporaneamente sul trono re Antonio I, re Domenico I, re Giuseppe I, re Pasquale I, re Demetrio I, re Nicola I, re Salvatore I, etc. per tutto il calendario dei santi noti e meno noti, sia di rito latino, sia di rito greco quanto di rito scozzese.

Anche i neoborbonici hanno il diritto e il dovere di partecipare all’agone politico, quello nazionale e quello locale, ma non basta un distintivo per farlo. Per altro, a chi ha smanie elettorali la scena italiana offre un’infinità di etichette. Che bisogno c’è di un’altra?






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