L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Il contributo alla discussione
per l'incontro del 4 settembre 2004 a Mongiana
è stato inviato nella  mailing list
From: a_larosa
Date: Tue, 24 Aug 2004
Subject: Mongiana, domande di fondo
Zitara risponde a Larosa

Mongiana, domande di fondo

Larosa

purtroppo sono bloccato per motivi di lavoro e non mi posso muovere nemmeno nei giorni cosiddetti festivi.

invio comunque qualche osservazioni sulle perplessita' che ho nei riguardi del programma.

E' un programma di ampio respiro ma che traguarda gia' un risultato acquisito di indipendenza, con alcune impostazioni eccessivamente originali e non si tiene conto che in 140 anni esiste una economia con ditte che operano anche produttivamente nelle duesicilie con direzione non solo al nord italia ma anche in parti del mondo molto lontane.

(esempio la3 dei telefonini e' una societa' cinese, Telecomitalia e' del gruppo Pirelli,ecc..)

Sostenere che dobbiamo uscire dalla comunita' europea e' una follia che ci ridurrebbe ai margini di tutta la vita economica, sociale e politica, in un isolamento che produrrebbe alla lunga solo arretratezza e miseria.

Non c'e' alcuna indicazione concreta relativa alla partecipazione del movimento alla vita politica esistente, ovvero alleanze o meno, governi locali e quanto altro: domanda, il movimento deve prendere il 51% da solo ovunque altrimenti e' sempre e comunque all' opposizione? Mi sembra un ulteriore inutile isolazionismo.

Ultima questione riguarda il tipo di governo: mi spiace ma io sono republicano e preferisco il sistema parlamentare a qualsiasi direttorio che accetterei solo in caso di necessita', ovvero eventi drammatici che non permettono una gestione pacifica della politica, come guerre civili, rivoluzioni, scontri armati ecc..

Per il resto sono idee degne di essere tenute in considerazione.

Aspetto il risultato del congresso e le tesi finali approvate per un eventuale mia adesione o meno.

un augurio a tutti i partecipanti e w le duesicilie come sempre
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Zitara risponde a Larosa

L’ineguale sviluppo delle nazioni 

Questo testo è una risposta alla lettera di Giulio Larosa, che è  data,  per così dire, alla larga.

 I problemi che Larosa pone sono parecchi. Le risposte soltanto tre o quattro. La più importante riguarda l’idea di portar fuori il  Sud dallo Stato italiano e dall’Unione Europea.

    

Ma perché una cosa del genere, se l’Italia è tanto bella e se l’Europa è ancora meglio?  Ci isoleremmo, si afferma. Chi ci darà i soldi per costruire il nuovo edificio?.


Politicamente si tratta di alibi, storicamente ed economicamente di  banalità. E’ isolata la Svizzera? E’ isolata la Svezia? E’ isolata la Tunisia? Eppure si tratta di formazioni sociali, di  Stati, di popolazioni minori del Sud, di paesi che hanno storie recenti se confrontate con quella trimimillenaria del Sud.


In effetti, l’idea di unità e quella di disunità d’Italia sono il risvolto ideologico di un conflitto di classe. Il padronato duosiciliano, che tradì  Francesco II e prima di lui Ferdinando II, perché ambiva a impadronirsi delle terre comunali ed ecclesiastiche, oggi difende l’unità perché fa assegnamento  sullo Stato unitario, storicamente uso ad allungargli una cima e a trarlo in salvo dalla tempesta antropologica dentro cui il Sud è stato strapiombato dal legame con la Toscopadana. 


 L’unità italiana è costata e sta costando al Sud una crisi occupazionale (produttiva) dietro l’altra. E’ un fatto certo, storicamente duro come un sasso: il sistema nazionale italiano impedisce ai lavoratori meridionali qualunque produzione che non siano i vecchi pitali in terracotta, quelli di cui si servivano don Giustino Fortunato e don Benedetto Croce.


Oggi siamo alla terza crisi epocale. La prima si collegò alle luttuose procedure liberiste introdotte da Cavour e portate avanti dai suoi successori, nella speranza che, vendendo alla Francia i prodotti agricoli di tutta l’Italia, la Padana generasse un suo capitalismo e si affrancasse dalla stessa Francia, di cui era tributaria da almeno due secoli.


Un’opzione a dir poco fallimentare. Perché si potesse arrivare al risultato sperato, fu necessario abbandonare i fumi liberisti di Camillo Benzo  e adottare (appena trenta anni dopo Marsala) quella politica protezionista per cui i Borbone e Napoli erano stati additati come colpevoli di fronte alla storia.


Tra liberismo cavourrista e protezionismo crispino e precrispino, il Sud perse sette milioni di lavoratori (metà della popolazione) e perse anche le loro rimesse americane, gagliardamente inghiottite da Agnelli (futuro senatore per meriti fottitorii) e dai suoi colleghi, fra cui i signori Crespi, quelli del “salotto buono” e del Corriere della Sera. 


La seconda crisi scaturì dal crollo del mondo contadino, nel secondo dopoguerra. Un crollo decretato dalla produttività del lavoro statunitense, e perciò inevitabile. Però i rimedi posti dai governi italiani furono, per il Sud, peggiori del male, come tutti sanno. In sequenza: il fottisterio del controvalore delle Am-lire, la Cassa del cemento per il Mezzogiorno, gli affitti delle soffitte di Torino e Milano alle stelle in modo che i terroni cacassero ai padroni di casa buona parte della paga, la Legge Sullo rispedita a Benevento (o Avellino, non ricordo) con il suo autore, e altre ostilità .


La fuga di esseri sub-umani, propriamente di terroni,  dal Sud questa volta fu anche più consistente, dando luogo a una grande pacchia. I terroni in Padana ebbero un’accoglienza strepitosa. Soffitte a volontà e letti a 20 mila cadauno (x 15/20 persone a soffitta =  non meno di tre milioni al mese, 36 milioni l’anno esentasse). Salari a 40 mila lire al pezzo. Marciapiedi interclusi, ma parità antropologica (con olezzi di borotalco) nelle riunioni delle Camere del Lavoro. Non come oggi, con Bossi che li vuole stanare e  ridurre a extra-lumbard, toglier loro  la carta d’identità e magari la tessera alimentare.    


La terza crisi è in atto. Come finirà per gli attuali  disoccupati meridionali e per quelli che lo diventeranno da qui a qualche mese, e dove essi finiranno,  non si sa. Certo, ognuno di loro ha un parente in America, che è in condizione di trovargli un lavoro, ma i terroni (grazie ai nostri fratelli delle Città d’Arte) si sono fatti la tripla fama di mafiosi, di fannulloni e di imbroglioni; qualità positive sicuramente per i produttori di Holliwood, ma non anche per i sindaci di Boston e New York. Cosicché il Congresso  USA gli italiani non li vuole. Meglio i messicani, costano di meno. 


Di fronte al nuovo disastro cosa farà l’Italia di cui ciampicamente facciamo parte? L’Italia di Berlusconi, e dei suoi nemici, la filiera Agnelli – sindacati – sinistra rivoluzionaria e non rivoluzionaria – burocrazia e intellighenzia romane dei ministeri e della Tv, dove è in auge il neonepotismo laico?


L’Italia di Bassolino, re della munnezza? L’Italia di Prodi euro-Olimpico, dei  dotti quotidiani – sette supplementi a settimana e collane di libri a strafottere? L’Italia dei sapienti editorialisti, dello smisurato Giuliano Ferrara, del vanesio Emilio Fede, di Maurizio Costanzo e di sua moglie, dell’ambasciator non porta pena, Sergio Romano? L’Italia delle banche, della Commissione Episcopale Italiana e degli antichi Palazzi papalini rimodernati per l’uso patriottico?


Cosa farà l’Italia lo sappiamo bene dalla storia dell’ultimo trentennio: mafia a go go. La mafia mantiene la pace sociale al Sud e porta capitali freschi a Milano! Non so invece cosa farebbe, nella circostanza, un ipotetico stato indipendente del Sud. Ma certamente si porrebbe il problema in termini vitali, come se lo pose al tempo del Viceregno spagnolo l’economista Antonio Serra.


Vale la pena di rifletterci su. Se già agli albori del secolo XVII l’intellighenzia meridionale era capace di porsi il problema della produzione, perché non dovrebbe saperselo porre anche oggi? E tuttavia, per poterlo fare, è  necessario non essere intrappolati negli idola fora unitari dei maestri di scuola, del Presidente Ciampi e della Nazionale Italiana, che le perde tutte.


Senza l’indipendenza mentale non si ha lo spirito per rendersi conto che anche noi abbiamo la testa. Attualmente le cose sono messe in modo che il lusso di una tale consapevolezza ce l’hanno soltanto i banchieri, gli industriali, i professori e i giornalisti padani. Altro che Antonio Serra! E’ la Bocconi che produce scienza economica!


Allora, apertura incontrollata o controllata agli scambi internazionali? Intanto c’è da precisare che la difesa delle produzioni interne e il connesso controllo sulle importazioni sono la regola generale, osservata nell’Unione Europea e negli USA. Presso le grandi potenze economiche e militari il protezionismo riguarda essenzialmente le merci tradizionali (l’agricoltura e l’industria matura), mentre per le merci d’avanguardia il protezionismo è “dall’interno”, attraverso gli accordi monopolistici sul prezzo. 


Per i paesi arretrati,  il problema è assai diverso. Ed è certamente colpa mia se non sono stato chiaro sulla questione. La quale non si pone in termini economici, come si compiace e trova comodo sostenere l’economia corrente. Il problema è  antropologico. Difatti, un conto è la libertà dei mercati  nelle relazioni  fra paesi industrializzati, per i quali la  concorrenza è auspicabile, in quanto rappresenta uno stimolo a produrre meglio e a prezzi non controllati; un altro conto è la libertà dei mercato nei rapporti commerciali tra una potenza industriale e un’im-potenza industriale.

 

Lo sviluppo e il suo opposto, il sottosviluppo, possono persino trovare una spiegazione nella storia e nella teoria economica, ma non sono fatti economici; sono fatti politici e militari. Sviluppo e sottosviluppo,  civiltà (grado di evoluzione produttiva) e arretratezza scaturiscono dalle armi, dalla guerra.


Cronologicamente, prima che insorgesse antinomia sviluppo/sottosviluppo c’era un fenomeno diverso: “l’ineguale sviluppo delle nazioni”; un fatto antico quanto gli Egizi e gli Ittiti, ma  incardinato in termini concettuali solo  al tempo della Prima Guerra Mondiale ad opera di studiosi dell’imperialismo. Alcuni decenni fa il tema è stato riaffrontato da Samir Amin e da altri pensatori marxisti, mentre i filosofi liberali si sono provati, sì e no, a sfiorare  l’argomento. E a ragione. Infatti i  guai vengono proprio dalla spasmodica ricerca di materie prime e di sbocchi da parte delle potenze liberal-democratiche.

 

Teoricamente e praticamente il liberismo non ha altro rimedio, ai guai che va combinando, che un maggiore liberismo. Tanto per togliersi d’impaccio i liberisti continuano a sostenere che lo scambio fra due nazioni avvantaggia entrambe. In effetti avvantaggia il venditore e inaridisce il compratore. Il problema è complesso, le spiegazioni molteplici.


Secondo chi scrive la distrofia economica non consiste (o non consiste soltanto) nel prezzo relativo  dei valori scambiati, e neppure nell’enorme quantità di tempo di lavoro che il paese non industrializzato cede per ottenere una merce industriale. (La cosa si può così esemplificare: un operaio italiano compra un auto di media cilindrata con otto, dieci mesi di lavoro, un operaio eritreo la pagherebbe con duecento anni di lavoro. Per un padrone eritreo che compra un’auto in Italia ci sono duecento morti di fame che lavorano per lui uno, due, tre interi anni).


Ma, dicevo, queste, che sono tutte cose che alimentano  il sottosviluppo, non sono il peggio. Il peggio è il lavoro che la merce moderna, venuta da fuori, toglie ai lavoratori locali, bloccandoli sulla strada del progresso, a cui altrimenti sarebbero spinti dall’emulazione. Già nell’VIII secolo prima di Cristo, Esiodo ne esaltava l’importanza ai fini della produzione economica. Ma per gli uomini del sottosviluppo, l’emulazione è divenuta una spinta velleitaria, economicamente frustrante.


Prendiamo ad esempio un comunissimo bicchiere di vetro infrangibile (o quasi). Non so quanti ne produca in otto ore di lavoro un operaio occidentale, ma credo di non sbagliare se sparo una cifra vicina o superiore a 50.000. Ovviamente, dietro una tale produttività stanno macchine e impianti, e dietro ancora scoperte scientifiche, progressi tecnici, conquiste tecnologiche.


In Occidente il  prezzo di un bicchiere si aggira intono a 0,50 euro, ma in detto prezzo c’è il ricarico  di venditori benestanti. Altrove presumo il prezzo non superi i 20 centesimi di euro. A questo prezzo lo compra anche la famiglia appartenente al mondo quasi povero. Nel Mediterraneo Orientale il vetro ha dietro di sé più di 2000 anni di storia, quando gli antenati di Bossi bevevano facendo una coppa con le due mani o nella zucca vuota di un Bossi antenato. In appresso fabbricarono una coppa di legno, e dopo ancora una di argilla.


Finalmente impararono da qualche altro popolo a scaldare e fondere i silicati. Un eritreo del 2004 è ancora allo stesso stadio del Bossi antenato: non sa impiegare i silicati e non sa fabbricare un bicchiere di vetro. Tuttavia oggi beve la sua acqua, il suo latte (il vino no, sarebbe peccato), la sua cacca-cola  nei bicchieri di vetro che noi gli vendiamo. Di conseguenza quelli che prima fabbricavano coppe di argilla hanno perduto il lavoro.


E hanno perduto valore anche le zucche dei Bossi antenati. Ma non basta. Anche se gli arretrati avessero i capitali occorrenti per impiantare una fabbrica di bicchieri, non si metterebbero a fabbricarli, in quanto sono ben consapevoli che i loro bicchieri non sarebbero concorrenziali in termini di prezzo e di qualità. Il folle che si arrischiasse a tentare, fallirebbe il  mese dopo. 


La tesi succintamente enunciata ha  un  riscontro in fatti noti. Il punto di partenza è la colonizzazione dell’America centromeridionale, con la rapina dei metalli preziosi da parte dei conquistatori e il connesso massacro degli aborigeni. Seguono nel tempo le piantagioni di zucchero, tabacco, cotone etc. che danno luogo a veri e propri scambi commerciali. A questo punto non è più necessario ammazzare (in tutti i casi)  i nativi, per arricchirsi.


La Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda acquistano prodotti coloniali da piantatori (europei emigrati), che impiegano manodopera schiavistica a costo del minimo vitale (e anche a un costo di un minimo mortale).


Le madripatrie pagano con manufatti artigianali, prodotti (in patria) da liberi lavoratori, o con derrate coloniali portate da altri continenti (per esempio, il tè di Giava che arriva in America) da marinai remunerati secondo il livello salariale dei paesi europei  (le famose triangolazioni tra Gran Bretagna, Francia, Olanda con l’America e con paesi terzi)..


Storicamente il commercio mondiale non ha reso eguale il mondo, anzi ha degradato a guerra  gli scarti epocali, che in passato erano coperti con l’imitazione e l’emulazione. Gli Usa sono al 2000 dopo Cristo, ma il Bangladesh è al 2000 avanti Cristo. L’Etiopia è ancora al tempo degli Etruschi e dei Galli insubri (gli antenati di Bossi, ma forse meno brutti di lui).


La Spagna e il Portogallo sono al 1965 e il Suditalia al 1830, allorché Ferdinando II salì sul trono di Napoli. Il commercio fra paesi che hanno un diverso grado di sviluppo dà luogo al tipo di scambio sopra esemplificato, che è incontestabilmente tarato dalla guerra alle altrui produzioni.


Questa disuguaglianza sta nel tempo di lavoro umano che, dove è aiutato da macchine, attrezzi, impianti altamente tecnologici, si restringe enormemente. C’è una bella differenza tra l’artigiano del ‘700 che fabbrica duecento chiodi al giorno e l’operaio di una fabbrica d’oggi che, con l’ausilio di macchine ad hoc,  ne produce parecchie centinaia di migliaia o forse milioni in otto ore. Il sapere è certamente lavoro pagato, ma è stato pagato dalle precedenti generazioni. Le successive pagano soltanto la sua traduzione in macchine e impianti. Ma i costi storici riemergono come benefici attuali. 


A partire dalla Rivoluzione commerciale, i paesi avanzati vendono con profitto alle popolazioni non avanzate il sapere scientifico storicamente incorporato nelle loro merci. Cosicché il sapere non si trasmette più per via di imitazione, ma già elaborato in merci da consumare. Cioè brutalmente, disumanamente.


In questo sistema il Sud italiano figura, contemporaneamente, come avvantaggiato e come perdente. Come avvantaggiato, in quanto partecipa allo sfruttamento degli arretrati, beneficiando insieme agli altri italiani  dell’ineguale sviluppo della nazioni. Come perdente soffre il vincolo della non imitazione. Nello scambio di merci con l’altra Italia scambia ignoranza contro sapere. Il risultato funesto è l’inoccupazione di una quota elevata di popolazione in età lavorativa, allo stesso modo di un paese storicamente in ritardo di secoli.


***


Con l’Europa è doveroso andare cauti. L’elemento culturale più efficiente fra gli europei è l’ingordigia. Fino alla Rivoluzione industriale, la Civiltà europea non ha avuto, tecnologicamente,  la posizione del primo della classe. La sua avanzata sulla scena mondiale ha avuto carattere essenzialmente bellico e militare. Basti pensare alla distruzione delle Città greche nel  Suditalia e in Sicilia; un mondo costretto a tornare indietro di sei secoli. 


Dal momento in cui i romani decidono di sopprimere Archimede – espressione di una civiltà superiore - al momento in cui Longino, il servo bruzio di un  legionario romano,  trafigge Cristo, passano appena duecento anni. Un popolo che vendeva sapere, incorporandolo nelle merci, passa a una condizione di servitù e di  barbarie. E si pensi anche  ciò che gli Spagnoli fecero con le civiltà andine e messicane, a ciò che la Padana, la Francia e la Germania fecero con le Crociate, a ciò che l’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia fecero in Asia, specialmente contro le più avanzate civiltà cinese  e indiana.


Sicuramente è un fatto genetico, gli allevatori europei sono una razza di conquistatori abili, agguerriti e regolarmente immorali. Dalla Spagna alla Russia Bianca, dalla Norvegia all’area toscolaziale, la storia registra prima la guerra e la conquista, e solo poi il progresso tecnologico.


Nel campo della produzione, il rapporto tra il Sud e il Nord d’Italia si è  molto degradato dal momento che Francesco II, battuto ad opera dello stesso padronato siculo-napoletano, lasciò Napoli. Vinta la resistenza contadina, l’operazione retrocessiva del Sud è stata condotta consapevolmente dallo Stato nazionale, costantemente al servizio delle regioni padane (ovviamente, non tutte egualmente accanite a spolpare risorse). L’ammutolimento delle popolazioni meridionali fu realizzato con cinque  diverse operazioni e modalità.


Prima e decisiva: il governo sabaudo spossessa i Comuni e la Chiesa delle terre destinate all’uso promiscuo e, invece che dividerle ai produttori, le rivende agli stessi meridionali, dando luogo in tal modo a una forma di neofeudalesimo aquilino, gestito da proprietari impoveriti dei loro capitali. L’operazione anti-Sud prosegue con un’esosa fiscalità, in forza della quale il capitale fresco fluisce verso l’acquisto di terre messe all’asta o spontaneamente svendute. Partendo da questa fonte, il capitale (che impiega lavoro) mette le vele verso la Padana.


Secondo: il Sud paga imposte, lo Stato spende una parte di quel che incassa al Sud, ma lo fa attraverso la mediazione di un personale politico di tipo clientelare, il quale galleggia o affonda a seconda che operi positivamente o negativamente a favore della Padana.


Terzo: la banca centrale e tutte le altre banche rischiano risorse nazionali soltanto con i settori industriali che padroneggiano i governi. Tali centrali oggi sono a Milano, a Firenze, a Bologna. In passato ebbero un gran peso anche Genova e Torino.


Quarto: l’industria padanista ha nel Sud un importante sbocco per le sue merci che, se oggi godono solo di una protezione di tipo organizzativo, in passato furono ferocemente protette. In ottemperanza al padanismo istituzionale, l’industria conserviera e pastaia dell’hinterland napoletano viene strangolata dal sistema bancario, il quale contemporaneamente ne favorisce la “delocalizzazione” in Emilia.


Quinto. il Sud è un paradiso abitato da diavoli. I sudichi sono sudici, familisti amorali, mafiosi, clientelari (il bue che chiama cornuto l’asino), sfaticati, imbroglioni, sporchi, ignoranti, inaffidabili. Al Sud non ci sono città d’arte, mancano le strade, i treni sono dei cessi che viaggiano a trenta chilometri l’ora, il mare è inquinato, il cielo è sporco. I sudici hanno idee antiquate, le donne vestono di nero, i maschi sono grassi e di regola impotenti. La gente pratica riti pagani.


Chi riesce a pronunziare tre parole in lingua italiana lo fa in modo approssimativo e con inflessioni che rendono incomprensibili le parole. Spesso l’inflessione dialettale è divertente, come nel caso di De Mita e di Lino Banfi. Guardate a Milano. Lì, sì che c’è la civiltà. Lì sì che c’è il Tempio della Musica, che risale al tempo di Orfeo. Lì, si che c’è il buongoverno, che risale a Maria Teresa, a Giuseppe, a Caio Gracco, a Gaio Mario  e a Giulio Cesare.  


Ciò che è stata definita la questione meridionale, e che in effetti è “la Conquista  dell’Impero”, ha una sola possibile soluzione: rompere in tutto e per tutto, con un bel confine economico e morale con gli Arlecchini più abili del mondo.

                                                                       ***

Quanto all’Europa unita, nella quale, secondo Larosa e secondo i più, dovremmo restare, ho una personale e radicata diffidenza. Basti questo. Con un’abilissima operazione monetaria, la Banca Centrale Europea ha svalutato i risparmi della povera gente, i salari e le pensioni, e arricchito i commercianti. E’ probabile che all’orifine volesse arricchire le imprese industriali. Ma con il suo liberismo dozzinale, ha inciampato ed ha fatto proprio ciò che non voleva.


La Banca di Francoforte mirava anche a fare dell’euro una moneta buona per pagare il petrolio alle Sette o più Sorelle, al posto del dollaro, ma anche qui ha fallito. Bush l’ha bloccata con la guerra in Iraq. Per giunta gli USA hanno abilmente scatenato i cinesi contro le produzioni europee. Insomma occidentali ingordi contro occidentali ingordi: saggezza vorrebbe che noi, che occidentali non siamo storicamente e culturalmente, ci facessimo da parte.  La classe operaia europea sta andando a carte quarantotto.


Che facciamo? Ai nostri italici guai aggiungiamo il guaio cinese? Fantasie? Fatti? Chissà! 


L’Italia (del Sud, cioè l’Italia storica) e l’Europa sono alternative e nemiche sin dal tempo in cui i Romani vinsero i Sanniti. Sono passati i secoli, sono passati i millenni, ma il rapporto tra Sud e Centronord è sempre quello del genocidio dei sanniti sotto le mura di Roma.


Storicamente, gli  scarti antropologici non si livellano imponendo a tutti il metabolismo del paese più avanzato. E’ – forse – inevitabile che il paese più avanzato faccia da modello, in quanto i suoi abitanti vivono meglio degli altri. Però non è giusto che il suo metabolismo diventi una specie di Credo economico a cui il resto del mondo si deve piegare. 


Pertanto, a livello teorico e a livello pratico,  una difesa del libero commercio è propriamente una puttanata. 


                                                                          ***

Questione monarchica – La forma repubblicana è più avanzata e democratica della forma monarchica? In astratto sembrerebbe, storicamente non so se Hitler fu meglio del Kaiser e se Stalin fu meglio dello Zar Nicola II, se Bush e Ciampi siano meglio del re del Belgio. Il concetto di repubblica troppo spesso è una fumo pestifero messo in circolazione dalla sponda sinistra della filosofia liberale e capitalistica, che sta divorandosi  il mondo con i suoi “lumi” imperialistici.


Quel che so di certo è che Ferdinando II e suo figlio Francesco II furono uomini politici migliori dei liberali napoletani; migliori per l’intelligenza dei fatti, per l’attaccamento al paese napoletano, per la capacità d’intuire a cosa avrebbe condotto l’unificazione italiana.


Comunque sia, un Suditalia indipendente in mano a dei presidenti della Repubblica partoriti dalla classe politica meridionale, che è cresciuta nella corruzione italiana, sarebbero dei presidenti travicello (della corruzione partitica). La democrazia meridionale non può venire dalla democrazia liberale, ma solo dall’idea dello Stato per sé. Da uno stato non soggetto ad altri stati.


In una fase storica di genesi politica, l’ipotesi di uno scontro fra classi e ceti è realistica. Se ciò che avvenne nella Germania sconfitta, a partire dal 1917/18, e se ciò che avvenne in Italia a partire dal 1943 fanno testo, allora bisogna pur dire che la repubblica è foriera di molti pericoli, mentre la monarchia, persino una monarchia vile come quella sabauda, riesce a mediare i contrasti. 


Nicola Zitara



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Parte il Movimento di liberazione del Sud Italia
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Riunione del 4 Settembre a Mongiana - Itinerario inviato il 21 agosto 2004 da Zitara
Mongiana - le nostre precedenti indicazioni
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