L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Il vero Pil sidernese

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Locride, 9 ottobre 2006

Fra qualche giorno, in sei sezioni elettorali del Comune di Siderno si svolgeranno le elezioni suppletive decretate dal Consiglio di Stato. Il voto deciderà fra due gruppi, che sarebbe superficiale definire di potere, perché in effetti nessuno dei due possiede altro potere, se non quello che potrà ottenere conquistando il Comune. La forza in campo è una sola, e non è oggetto di un verdetto elettorale: il nostrano mondo del commercio e dell’edilizia abitativa, che l’amministrazione comunale, qualunque il colore, non potrà non assecondare. L’incognita, che avrà risposta soltanto fra quattro anni, alla fine del mandato, è quanto ciò sarà costato, o quanto ciò avrà giovato, al resto della cittadinanza.


Queste elezioni si svolgono nel quadro di un Sud devastato dalle scelte politiche nazionali ispirate agli interessi della parte industrializzata del paese, e in una cittadina coinvolta in un processo di crescita irrazionale, per non dire selvaggia.


Il Sud è scomparso dalla scena come componente degli interessi nazionali, anche se poi, contraddittoriamente, la Locride sopravvive nella prosa giornalistica e televisiva come lacrimatoio da malaffare. Pare quasi che tra il malaffare e il sistema nazionale esista un’intima complicità. Comunque, al Sud, il sistema elettorale si è rivelato sin dal primo voto, nel lontano 1861, come il meccanismo perverso attraverso cui il notabilato meridionale viene ricattato e contemporaneamente foraggiato, in modo da svolgere una funzione ascara al servizio delle regioni egemoni del paese.


Nella seconda parte della campagna elettorale amministrativa sidernese, come nella prima – a causa forse della coincidenza con altre votazioni - l’economia, i suoi problemi e drammi sociali, sono stati dimenticati. Meno che mai si sono ascoltate idee circa una soluzione, tranne il solito pannicello caldo del turismo, con annesso assessore Donnici, “dal ciel a Siderno venuto a miracol mostrare”.


Gli annosi problemi, oltre a essere vissuti dalla gente, sono periodicamente messi in rilievo dalla Svimez, per l’aspetto economico, e dal Censis, per l’aspetto sociale. Roba ritrita, nessuno più vi presta orecchio. Nell’occasione della presentazione delle rispettive pubblicazioni annuali, un giornalista del Corriere della Sera scrive una breve nota, che appare nella pagina interna dedicata all’economia. Post festum, solo silenzio, fino a quando il prossimo guappo quattordicenne non farà fuori un suo coetaneo, al fine d’assicurarsi un incontrastato controllo nel vico in cui si esercitano le sue attività, che vanno dallo scippo, al racket, allo spaccio di polverina, alla spedizione punitiva.


I problemi che il Sud presenta non sono di ordine soprannaturale o infernale. Sono problemi che lo Stato italiano ha affrontato e affronta normalmente e quotidianamente in ogni regione. Accumulatisi nel tempo, a causa dell’estraneità e menafreghismo dei governi, nel Sud sono diventati gravi, pesanti, costosi da affrontare e risolvere, come la monnezza di Bassolino. Se mi è permesso restare in tema, sono persino divenuti utili a chi governa, allo stesso modo della spazzatura delle città tedesche, che viene riciclata per ottenere elettricità e acqua calda per il riscaldamento invernale. Solo che da noi il risultato sono i voti a una delle due forze che si contrappongono in parlamento, anche se non si contrappongono nella spartizione del potere effettivo.


Data l’assenza, anzi l’inimicizia dello Stato nazionale, sarebbe un dovere politico per le istituzioni locali cominciare ad affrontare qualcuno dei problemi marcescenti. Nell’ordinamento nazionale, Comuni, Province e Regioni non sono deputati a invasioni di campo. Anzi, la filosofia dello Stato pretende che non sia compito loro affrontarli. Si tura il naso e procede nel suo glorioso e risorgimentale cammino: l’altro ieri verso l’Impero, ieri verso l’Europa, oggi verso la Cina, domani verso la Luna.


Il percorso obbligato per liberare il Sud dall’invereconda condizione unitaria e per tornare alla millenaria indipendenza degli Italici (interrotta soltanto dalla feroce dominazione romana e, da 150 anni, da quella equivoca della Toscopadana) passa necessariamente attraverso il consenso popolare, espresso in modo legale. Sottolineo “legale”, e non in odio alle ribellioni e rivoluzioni, ma perché, a partire dal Vespro siciliano, tutte le rivolte e rivoluzioni meridionali hanno ottenuto immancabilmente il risultato di portarci un padrone straniero in casa.


Il Comune è la primaria espressione politica fra le istanze collettive. La truffa unitaria ha fatto sì che l’immaginario collettivo fosse dirottato verso i partiti nazionali. Questi, però - raccogliendo e rappresentando gli interessi di una società diversa e lontana – quando arrivano in Meridionale sono delle mere etichette, dei pupazzi di paglia, intorno ai quali la piccola borghesia meridionale si azzanna e si scanna per la promessa di una pagnotta romana. Con il profumo del pane e magari del companatico viene stimolato l’ascarismo, la divisione e la corruzione.


All’opposto, la vera istanza politica può partire soltanto dalla base, da un Comune consapevole di sé e quindi politicamente forte. Il separatismo meridionale (degli Italici) non cerca la scena per additare o avallare la distruzione di noi stessi, ma per ricostruirci all’indipendenza, alla libertà, alla giustizia, al rispetto umano, all’efficienza del lavoro.


La ricostruzione morale, civile, culturale pretende tempo, interi decenni, non così la ricostruzione del processo economico e produttivo, su cui la morale necessariamente si appoggia. Ogni collettività politica funziona come una famiglia. I suoi componenti possono tenere alta la fronte soltanto quando non sono costretti a chiedere l’elemosina.


Ciò premesso, qual è la situazione economica della collettività sidernese? Qual è, e da dove viene il nostro Prorotto Interno Lordo? Dalle vigne, dagli uliveti, dai pomodori, dalle cipolle, dal prezzemolo, che non coltiviamo più? Dalle alici fresche o salate che compriamo dai forestieri? Dalle vecchie fabbriche, le cui ciminiere stanno cadendo diroccate? Non dispongo di dati aggiornati, ma costruendo su quelli del censimento 2001, mi pare di poter dire con qualche attendibilità che la componente autonoma del reddito paesano raggiunge una bassa percentuale del Pil comunale. Per raccapezzarci in un pandemonio di cifre costruite probabilmente per confonderci le idee, non possiamo ricorrere al dato relativo al Valore aggiunto, in quanto questo comprende sia il nostro lavoro sia i beni importati che sono necessari per ottenere il nuovo prodotto. Come dire che se io pago 200 euro per installare un citofono al portone di casa, una parte soltanto rimane all’elettricista del luogo, mentre la parte più consistente va a Treviso o a Vicenza, dove l’apparecchio è stato costruito. Il Vero Valore Aggiunto locale è costituito dalla quota di prezzo che va all’operaio e al rivenditore locale, il resto è valore aggiunto del Veneto.


Quel che può aiutarci a capire qualcosa è il numero dei lavoratori occupati, che poi sono una quota non grande della popolazione residente. Se sommassimo il monte annuale delle remunerazione e il profitto annuale delle imprese presenti, sapremmo parecchio di più. I dati mancano. Non possiamo fare altro che estrapolarli con uno sforzo dell’immaginazione. Poniamo che su circa 16.000 residenti la popolazione attiva raggiunga il 60 per cento, cioè 9.600 persone. Rispetto a questa cifra, immaginiamo d’avere il 25 per cento, cioè 2.400 addetti all’artigianato in senso proprio, all’artigianato delle riparazioni, all’edilizia e all’industria in senso stretto. Avremo inoltre un 40 per cento circa di addetti ai servizi vendibili, in realtà 3.840 persone. Dalle due cifre va sottratta la percentuale dei disoccupati effettivi (la gran parte lavora in nero), poniamo il 7 per cento, che dà 168 disoccupati nell’industria (per cui la cifra dei percettori di un reddito si riduce a 2.232 persone), e 269 disoccupati nei servizi (con 3.571 percettori di un reddito). Assegniamo un reddito medio di 80 euro al giorno agli artigiani, che fa in 290 giorni lavorativi la cifra di 23.200 euro l’anno; e assegnando un reddito medio di 20 euro agli addetti ai servizi vendibili (in totale 5.800 euro all’anno).


In totale avremo un reddito da lavoro di 51.782.400 euro per i primi e un reddito di 20.711.800 euro per i secondi. In totale 72.494.200. Assegniamo ai datori di lavoro un profitto pari al monte salari. Otteniamo in tal modo la cifra di 145 milioni di euro che rimangono a Siderno come valori realizzati direttamente sul territorio. Dividendo 145.000.000 euro per i 16.000.000 residenti, avremo che Siderno produce in via diretta euro 9.063 pro capite.


Le posizioni statistiche sportivamente omesse sono costituite da redditi di sussistenza (ovviamente relazionati al livello dei consumi correnti in un paese industriale, qual è l’Italia, e nelle sue pertinenze regionali sottosviluppate). In materia di Welfare, Siderno è perfettamente uguale agli altri paesi di Calabria. Sicuramente (e lo si vede), il paese può vivere di solo commercio e riparazioni, con un’appendice nel turismo.


Resta però dipendente. Alla distribuzione e alle riparazioni, oggi, sono riservate percentuali elevate del valore delle merci finite, ma una collettività che campa solo su queste finisce con il doverle cedere a chi è impegnato nella produzione.


Ne abbiamo anche la prova. Infatti il sistema nazionale dei supermercati ha espropriato i piccoli commercianti del paese e si è impadronito della distribuzione, che viene governata solo in apparenza da capitalisti locali. Insomma la stessa cosa che gli appalti delle società nazionali di costruzione nei confronti dei subappalti, settore inquinato e tuttavia povero, che può essere portato avanti solo con l’imbroglio, la corruzione e l’inquinamento della legalità pubblica e privata.


L’attività commerciale si trasforma in un suicidio se non si converte in produzione. Nel ‘500, le Repubbliche di Genova e di Venezia erano così ricche da poter sovvenzionare tutti i regni d’Europa. Fra questi l’Inghilterra, la quale investì i prestiti in navi e manifatture e in breve tempo le surclassò in ricchezza; tanta ricchezza da poter essere determinante nella fondazione della civiltà contemporanea.


Stimoli per l’immaginario e non appropriato paragone! Tuttavia, se calcoliamo il differenziale tra Valore Aggiunto ufficiale e Vero prodotto interno, come dire tra circa 15.000 euro e 9.000 euro circa, sappiamo che solo in termini di materiali impiegati dai lavoratori, Siderno importa 6.000 euro per ogni addetto, una cifra totale che starebbe tra i 54.000.000 e i 70.000.000 di euro, ma forse molto di più, a causa dell’arretratezza del sistema calabrese.


Data l’inettitudine del personale politico che guida la Regione, la Calabria ha perduto e va perdendo tutte le occasioni buone per stimolare l’occupazione. Inutile chiedere a delle cicale scialone di comportasi da laboriose formiche. A Siderno il contesto forse è diverso.


Chi opera negli affari conta anche politicamente. Ha interesse che il paese continui a crescere. Teoricamente esiste la possibilità di far affluire moneta bancaria verso la piccolissima industria. Circa 120/130 anni fa, furono protagoniste dell’operazione le banche popolari toscopadane, quantomeno quelle seriamente interessate allo sviluppo, più che a fregare il prossimo. Il meccanismo ruota intorno al risconto dei titoli presso una banca di dimensioni nazionali.


Oggi le grandi città, come Roma, Milano, Torino, Napoli etc. emettono titoli del tipo Bot. Insomma, in una fase di incontenibile dilatazione della finanza, trovare danaro non è un’impresa. Il difficile è arrivare a essere competitivi sul mercato. La prossima amministrazione comunale si applichi a studiare quel che è stato fatto nelle regioni venete. Forse si potrebbero ridurre le importazioni di merci e allargare le fonti di lavoro. Questo dovrebbe essere il Comune, in un paese del Sud colonizzato.


Nicola Zitara


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