L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


La questione morale

di Nicola Zitara

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Siderno, 28 aprile 2005

Riprendo un’espressione in voga nei primi decenni di unità, allorché fra i politici fiorivano  eminenti ladri, di regola genovesi e fiorentini, ma c’erano anche delle persone morali che li criticavano. Un povero deputato, non mi ricordo se di Trento o di Verona, fu quasi ammazzato in una via di Firenze perché aveva sputtanato in aula e sui giornali Sella, Minghetti, Lamarmora e il banchiere genovese  Balduino che s’erano intrallazzata la cessione del monopolio dei tabacchi. Non contenti del gesto mafioso, mazziato e cornuto, il deputato fu denunziato, spedito in galera e rovinato con l’intera sua famiglia.

 Un decennio più tardi, nell’età del Trasformismo,  l’espressione venne ripresa  per stigmatizzare la mancanza di coerenza politica dei deputati, che passavano dalla destra alla sinistra, e viceversa, in cambio di un posto di sottosegretario, o di alto lucroso beneficio. Gli storici usano un linguaggio pesante per il povero Depretis, artefice dell’operazione, ma c’è da ricordare che egli morì povero, nella povera soffitta in cui viveva. Sono invece larghi di lodi con ben altro malfattore, Giovanni Giolitti, l’Uomo di Dronero secondo i radicali del tempo, Palamidone secondo “l’Asino” di Podrecca, l’infausto personaggio che portò a compimento l’annientamento del Meridione. “Il ministro della malavita”, lo chiamò Gaetano Salvemini, nei suoi brucianti articoli per “l’Avanti”.

Quali i demeriti e quali i meriti del grande corruttore? Durante gli anni della sua egemonia parlamentare nacque e fiorì quella cosa ignobile che viene chiamata “industria italiana”. Giolitti ebbe l’abilità di sfruttare a favore degli investimenti padronali padani le rimesse degli emigrati in America, che raggiunsero una tale entità da portare la screditata liretta a fare aggio sull’oro. Alle borse di Londra e di Parigi, con 97/98 lire si potevano comprare 100 franchi.  Ma Giolitti non si limitò a utilizzare a Milano, Genova e Torino un capitale che in larga parte veniva da gente del Sud. Andò parecchio oltre.

Uno. Aggravò una tassa invisibile sui consumi, costituita dalla protezione daziaria alla frontiera delle merci prodotte dalla nascente industria. Elettricità, macchine, concimi chimici, zucchero vennero venduti a prezzi che moltiplicavano di molte volte il prezzo sul mercato internazionale.

Esistono molti sontuosi  monumenti ai patriottici ladri della patria, ma nessuno al povero Ernesto Rossi, che ebbe il coraggio di denunziarli. [Ovviamente, il Corriere della Sera e gli altri grandi quotidiani, in un modo o nell’altro tutti legati alle famiglie del capitalismo nordoccidentale (oggi sono la cosiddetta sinistra, che si oppone alla destra di Berlusconi, outsider di zona nordorientale), nelle loro pagine culturali, ignorano i relativi capitoli della patria storia.]

Due. Naturalmente la politica giolittiana avrebbe dovuto avere l’opposizione dei parlamentari meridionali. Invece ebbe la costante loro approvazione.  

Perché? La funzione militare e sociale di baluardo della cristianità, assegnata dal concerto delle potenze europee allo Stato spagnolo delle Due Sicilie, finì con l’ascesa di Carlo di Borbone-Farnese al trono di Napoli e di Palermo. Ma non per questo pervenne a fine il clima di arretratezza imposto al paese (o meglio, ai due paesi, la Sicilia e il Napoletano), affinché svolgesse la funzione di confine politico dell’Europa. I re di casa Borbone cercarono di cavalcare l’onda benefica della Rivoluzione commerciale, che conferiva al Sud la condizione privilegiata di (quasi) unico fornitore di zolfo e di prodotti dell’agricoltura mediterranea. Ma il loro governo fu continuamente contrastato dagli interessi francesi e inglesi. Francia e Inghilterra esportavano con gran lucro l’ideologia della modernità  per mettere contro i governi locali  larghi settori del padronato, cosicché, se l’opera degli insigni uomini di stato, quali furono ininterrottamente i ministri napoletani, dette parecchi buoni risultati nel campo del commercio e dell’industria, modificò, invece, poco o niente in agricoltura.

Nelle terre e nei borghi del Sud, al cento dell’economia stavano la rendita padronale e la povertà dei contadini. La rendita sopravvive se e quando vige la primogenitura e la proprietà rimane indivisa. I figli cadetti debbono trovarsi altrove un pane. Questa era la regola ancora in vigore al tempo dell’unità cavourrista. Il nuovo governo, non volendo spendere una sola lira al Sud, la lasciò  così com’era, anzi peggiorò le cose, perché fece in modo che il commercio meridionale passasse in mano ai liguri e che venissero liquidate le industrie create da Ferdinado II  e pagate dalle popolazioni meridionali.

Le terre della Chiesa vennero vendute, quindi meno monaci e abati fra i cadetti. La liquidazione della capitale del Regno e del commercio napoletano fece strame anche degli avvocati. La poca economia superstite passò in mano allo Stato e ai comuni regi. Il clientelismo meridionale nasce da questo passaggio. O si campa di Stato o si scende di classe sociale. Lo Stato cavourrista ha usato e usa questa situazione (o condizione dell’esistenza) come instrumentum imperii. Ricatta la classe meridionale della penna, del diploma e della laurea. Non solo, ma perché la classe dei ricattati possa esercitare un buon ascendente sui cittadini, le lascia un margine di liberà: l’imbroglio, l’intrallazzo sulla  spesa pubblica. Il pubblico erario paga e fa finta di non vedere i conti e il risultato dell’opera pagata. Si formano così delle fottitorie catene di Sant’Antonio, sulle quali i giudici di sinistra a volte appuntano gli occhi, ma sanno bene che, senza di esse, lo Stato cavourrista sarebbe destinato a finire. Quel che vale per i pubblici dipendenti, moltiplicato migliaia di volte, vale per i politici: se non onesti, almeno fedeli servitori dello Stato straniero, in tutte le sue versioni – quella regia, quella fascista, quella repubblicana, costituzionale e resistenziale.  Insomma, la corruzione e l’inefficienza sono lo stesso che la mafia: una questione di Stato: servono a Milano, all’Emilia, al Veneto, che vendono merci, e vengono scodellate da Roma, che tranne il papa, è un’Urbe  di secondo grado, al loro servizio.

Una volta si diceva il Malgoverno. Dopo Gramsci, la sinistra è diventata la vera erede di Cavour e la più titolata suffragetta delle piume dei bersaglieri (massacratori dei vostri antenati briganti).              

Il bello è arrivato nella guerra con Berlusconi, il quale è un teleuomo dai mille meriti padanisti, e qualcuno anche lazial-abruzzese, come il bel faccino tostino di Bruno Vespa (anzi minuscolo, vespa). Cosa ha inventato di nuovo l’opposizione? E’ accaduto che il fervore meridionalista dei sinistrorsi defenestranti ha messo in piedi la favola secondo cui la colpa di tutti i disastri che affliggono il Meridione sta nell’immoralità (intrallazzismo) degli esponenti politici. La sanità non funziona? Colpa dell’amministratore dell’Asl. I treni sono scassati? Colpa del ministro dei trasporti. Il telefono di casa è disturbato dai procacciatori di vendite? Colpa di Berlusconi in prima persona. La spazzatura s’ammucchia? In questo caso bisogna distinguere. Se il sindaco è della Casa delle libertà berlusconiane, la colpa è sua. Se il sindaco è, invece, di sinistra, la colpa è di Chiaravalloti, oppure di Tremonti, o anche di Stronzobossi che negano al Sud la giusta mercede. La disoccupazione imperversa, l’emigrazione riprende? Colpa di chi spende male le imponenti elargizioni dello Stato. E’ persino divertente l’idea che qualche migliaio di furbastri, che lucrano sulle comuni sventure, siano i veri e gli unici responsabili del disastro di una nazione – quella dei meridionali – che conta venti milioni di abitanti in patria e altrettanti fuori degli antichi confini nazionali. 

Insomma, la sinistra ha elevato il vuoto a dialettica storica.  E’ infatti nient’altro che aria emessa dal posto da cui si fa trombetta. Berlusconi arricchisce se stesso, la sinistra è invece più altruista: vuole risorgimentare gli Agnelli. Il resto è avanspettacolo. Quando penso che anch’io mi professo uomo di sinistra, mi vengono le lacrime.

Malu tempu e scarpi rutti! 


Nicola Zitara





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