L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Fonte:
https://www.larivieraonline.com/ - 25.02.2006

Teoria e prassi del separatismo

di Nicola Zitara

E’ ultimamente apparso sulla scena meridionale un partito autonomista. A chi conosca anche per sommi capi la storia italiana degli ultimi trentacinque anni, sarà ben difficile immaginare a cosa serva. Il totale fallimento al Sud dell’antico autonomismo di don Sturzo, concepito, peraltro,  in un mondo agricolo e manifatturiero,  ne è la prova provata. La sola ipotesi di rinnovamento riguarda l’aspirazione alla  rendita parlamentare. Per il resto, la gente del Sud di tutto ha bisogno, meno che di un bossismo minore e servile,  difettoso di un qualunque progetto politico e per giunta - secondo il costume dei bassi ranghi dell’opportunismo cattolico italiano - scodellato sul desco della campagna elettorale come una pietanza precotta.


Intanto il leghismo ha una causa e uno scopo ben diversi da quel che si dice e che sembra comunemente. L’antimeridionalismo etnico e razzista è pura retorica: un medium per carpire il consenso elettorale. In effetti in Lombardia e in Veneto non sono così fessi da rinunziare spontaneamente  al più importante sbocco - subito dopo il Nord stesso - delle produzioni settentrionali. 


Il progetto, che non è di Bossi ma dell’associazione degli industriali lombardi, viene da anni lontani: risale al tempo del consociativismo tra DC e PCI, ed è connesso con il debito pubblico. Tra gli economisti ammessi al “salotto buono di Milano” sorse, infatti, la preoccupazione che, con l’elevarsi dell’indebitamento, lo stato, per  pagare gli interessi crescenti e le annualità in scadenza, avrebbe sottratto risorse alla spesa  pubblica e alleggerito le regalie sempre lucrate dal parte dei grandi industriali. La regionalizzazione delle entrate e delle spese  statali  avrebbe messo in amministrazione controllata le regioni in ritardo ed eretto una trincea difensiva a favore delle regioni dove maggiore era il gettito fiscale.


Le proposizioni federaliste e la devoluzione bossista non sono l’escogitazione populista di un tribuno avvinazzato, ma il calcolo ragionieristico di chi, come Gianfranco Miglio,  considera la nazione italiana una docile funzione degli interessi globali del gruppo milanese di comando.


Onesto o disonesto, accettato o imposto, tuttavia il progetto lumbard  aveva (ed ha) la valenza politica accennata. Eguale basamento manca invece al populismo ripartitorio dell’autonomismo siciliano e meridionale. Una maggiore spesa pubblica a favore delle regioni meridionali significa soltanto che crescerebbe l’intrallazzo della classe politica, che è, storicamente, la mediatrice al Sud degli interessi del Nord. Cosa poi ci facciano, in una lista comune con i lumbard e i leghisti,  delle persone che affermano di professare idee neoborboniche, è difficile capire. Più che di politica, qui siamo di fronte all’acefalia politica e a una squallida forma di clientelismo.



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Sarebbe sciocco da parte nostra, come  per chiunque, dare ai fatti elettorali ed elettoralistici una consistenza politica che non hanno. Consistenti - e irresolubili nell’attuale quadro statale - sono invece i problemi accumulatisi al Sud in 150 di colonialismo interno; fortemente preoccupanti  le prospettive per il futuro prossimo e meno prossimo.


La nostra tesi è che l’unica strada da percorre perché il Sud esca  dalla calamità patriottica  d’essere  legato allo stato italiano sta nel ritorno all’indipendenza, nel ripristinare i confini millenari  dell’antico Regno di Napoli (e quadrimillenari delle popolazioni italiche) e per la parte siciliana, i confini etnici e politici che anche la Sicilia possiede da quaranta secoli.


Tuttavia il separatismo non è “un palloncino che si gonfia”, per usare un’espressione di Totò, ma un progetto epocale, un fatto enorme,   drammaticamente impegnativo per ciascuno di noi, favorevoli o   contrari, italici e italiani; molto più impegnativo dell’opposto moto che portò all’assurda unità sabaudista. 


La separazione è lo sbocco inevitabile della truffa unitaria. Le ragioni che la impongono sono innumerevoli. Qui ne prenderemo in considerazione una soltanto: la causa prima della disoccupazione secolare, sistemica. Una generazione segue l’altra, una forma di governo  sostituisce la precedente, ma l’Italia-una non sa e non vuole risolvere il problema. Negli ultimi cinquant’anni essa è passata dalla condizione di paese incapace di stare in piedi senza l’aiuto di un esercito e dell’oro stranieri, alla condizione di grande potenza economica. Dal ’miracolo economico italiano’ del secondo dopoguerra il Sud ha tratto notevoli benefici per quanto riguarda il tenore di vita, il livello dei consumi, i servizi pubblici, ma l’eccezionale evenienza non ha minimamente inciso (anzi ha aggravato) la disoccupazione.


E’ opinione corrente - e persino il meridionalismo di orientamento marxista aderisce a questo insano modo di pensare - che esista una relazione da causa ad effetto tra l’iniziativa capitalistica privata e l’occupazione. La politica d’intervento straordinario nel Mezzogiorno, perseguita  fino a oggi sotto forma di un beneficio in materia di oneri sociali, colloca, se non al primo posto, sicuramente al secondo posto della sua filosofia, le provvidenze volte a sostenere l’impresa capitalistica. Ovviamente, oggi si è consapevoli che si tratta di una strada sbagliata; quell’opinione nasceva, però,  da una causazione storica: la distruzione  dell’economia meridionale, decretata da Cavour subito dopo l’occupazione garibaldina di Napoli,   aveva provocato - giuste le intenzioni del ’grande ministro’ - il crollo dell’industria e della marineria duosiciliana, troppo avanzate per non far temere che il baricentro della nuova Italia si fissasse a Napoli. Il crollo aveva a sua volta causato la sterilizzazione della borghesia attiva duosiciliana e la connessa disoccupazione dell’esercito del lavoro.



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La tesi secondo cui basterebbe agevolare l’iniziativa privata, per vedere rinascere l’economia meridionale, salta a piè pari sulla causa prima del disastro meridionale. Se si tiene conto del fatto significativo che fu proprio l’agricoltura meridionale, fra i vari comparti dell’economia nazionale italiana, quello che reagì meglio e più proficuamente alla svolta liberista dettata da Cavour, bisogna spostare l’indagine e mettere in conto i due fattori che trasformarono il Sud da centro di sé stesso a periferia di altre regioni. Esse sono la spesa pubblica, cioè lo stato,  e  la moneta fittizia, cioè  la banca.


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La proposizione liberista merita un attento riscontro storico. 

Alle sue origini, lo stato costituiva una funzione di ordine non economico. I tributi erano una datio, un premio elargito dai privati, affinché esso, in astratto nudo come Adamo e povero come Giobbe, potesse esercitare la sua funzione morale e civile. In nessun modo il credo ammetteva che il re si impancasse a produttore. Tranne che applicare il suo conio alla moneta, provvedere all’esercito e alla marina militare, alle pubbliche infrastrutture, alle altre cose attinenti all’esercizio della sovranità in patria e in colonia,  lo stato doveva “lasciar fare” ai privati. Anche oggi, le volte che lo stato deve appropriarsi di un bene privato o deve usarlo o lo danneggia, è tenuto a pagare e/o a risarcire il danno, come qualunque privato.


Per il liberismo anche il proprietario straniero avrebbe lo stesso diritto all’iniziativa economica del proprietario nazionale. Infatti la proprietà privata è considerata un principio filosofico e politico inerente alla natura umana, cioè un ’diritto naturale’ di valenza internazionale.


Storicamente, invece, il liberismo ha incontrato, e incontra tuttora, un limite nell’interesse nazionale delle singole formazioni sociali; o per essere più chiari, negli interessi delle classi dirigenti  dei singoli stati. Si tratta di una condizione che non viene proclamata, che anzi di regola è sottaciuta, benché immancabilmente osservata. Il colonialismo, che caratterizza un’intera epoca della storia in/civile d’Europa, rappresenta la prova massima che il liberismo  ha un’esplicazione fortemente nazionalistica. Storicamente,  gli stati, ponendosi i rispettivi capitalismi in concorrenza fra loro per gli sbocchi industriali e/o per la confisca delle materie prime,  coprono e difendono i produttori nazionali, essenzialmente i capitalisti nazionali. La nazionalizzazione del capitalismo venne persino benedetta dalla carta rivoluzionaria del 1789, che innalzò a principio costituzionale la contraddizione tra diritto naturale del proprietario e diritto “naturale” della nazione sovrana.



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La Costituzione dell’89, in cui l’individuo è prima dello stato e la nazione è prima dell’individuo, consacrò per i posteri la trappola liberal-democratica. Storicamente, tra il XVII e il XVIII sec., l’affermazione della proprietà borghese, lo sviluppo del commercio vicino e lontano,  la produzione manifatturiera per l’indistinto acquirente (la merce), moltiplicarono il numero dei capitalisti. La  classe attiva diventò egemone a livello nazionale, a scapito dei monarca e dell’aristocrazia redditiera.

Il potere capitalistico si realizza nell’attitudine a muovere e portare alla produzione l’esercito del lavoro. La conseguente esigenza di anticipare il salario operaio e bracciantile spinge il capitalista verso il controllo della moneta, la quale è fatta d’oro e d’argento. I due metalli hanno un valore intrinseco, si può dire  universale. Alla partenza del sistema capitalistico, oro e argento sono  in mano ai proprietari fondiari, ai risparmiatori, alle grandi case bancarie. La mancanza di contante condiziona e inceppa sia il governo nazionale sia il nascente capitalista, il quale, oltre a dover anticipare i salari, deve pagare le macchine, lo stabilimento,  acquistare le materie prime e, spesso, far credito ai clienti. Fino a quando  è costretto a venire a patti con i possessori di liquidità monetaria, onde ottenere il contante di cui ha bisogno, il capitalismo manifatturiero resta in fasce. Il produttore, che non sia già un banchiere, subisce ricatti e usure. I profitti dell’impresa finiscono ad altri.


La carta  bancaria è uno strumento monetario ben noto sin dall’età rinascimentale. L’evoluzione che porterà il biglietto di banca all’attuale egemonia,  ebbe il suo battesimo sul finire del XVII, a Londra, allorché una banca costituitasi per l’occasione prestò un milione e duecentomila sterline d’oro allo stato. Come compenso il re l’autorizzò   a emettere un miliardo e duecento milioni di moneta cartacea, con l’obbligo di convertire a vista, in oro, il biglietto che venisse presentato all’incasso. La convivenza di oro e biglietti - cioè la convertibilità a vista delle banconote  -  nei paesi più ricchi si è protratta fino alla Prima Guerra Mondiale e alla Grande Crisi del 1929. Poi l’oro è scomparso dalla circolazione monetaria.


Gli storici omettono di dirlo, ma la banca centrale d’emissione (cartacea) nasce “nazionale”. Ogni paese ha - o finisce con l’avere - un suo biglietto di banca. Nella storia della moneta, soltanto le banconote ’imperiali’, come la sterlina, il franco, il dollaro e adesso l’euro, raggiungono una (limitata) circolazione internazionale e vengono accettate comunemente in altri paesi. Il nazionalismo monetario non è connesso soltanto all’obbligo per il suddito di accettare la banconota in pagamento di una merce, di un servizio o di un credito precedente, ma, in tempi di pace, è anche il mediatore silenzioso del governo capitalistico. Infatti, attraverso l’emissione di banconote (in effetti di biglietti di stato), la popolazione nazionale  offre all’industria e alle altre  produzioni la possibilità di accedere al credito bancario.


Il passaggio va chiarito. La banconota è un foglietto di carta che ha un costo limitato: la  tipografia, la carta, la burocrazia bancaria, la polizia finanziaria. La banca centrale mette in circolazione i suoi biglietti prestandoli allo stato e alle banche commerciali. Lo stato paga il debito con i soldi dei contribuenti, cioè con  valori reali ottenuti con il lavoro dei sudditi; dal canto loro le banche commerciali, che mettono in circolazione la carta del poligrafico dello stato, restituiscono alla banca centrale la stessa carta, ma solo dopo che i loro clienti l’hanno arricchita del valore del lavoro e della produzione. Insomma la banconota, che non ha valore, lo acquista perché il suddito non l’ottiene gratis et amore dei, ma come pagamento di un lavoro effettuato o di un bene venduto (e prodotto con il lavoro, come il primo). Finché passa da una mano all’altra, essa contiene una capacità d’acquisto. La perde, però, e ridiventa mera carta stampata nel momento in cui ritorna nelle mani della banca centrale, che infatti provvede a bruciarla.



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Ai fini del nostro discorso  ha gran rilievo  chi ottiene a credito i foglietti emessi dalla banca centrale,  cioè lo stato e le banche.


Secondo una definizione di Adam Smith, il padre dell’economia liberista, il capitale (altro non)  è  (che) il potere di comandare lavoro. Infatti il capitalista impiega il suo capitale per pagare chi lavora per lui e  per comprare i beni necessari a realizzare la sua merce, i quali sono venduti da altre aziende o erogati da produttori di servizi. Ovviamente il capitalista paga i suoi dipendenti e le fatture dei suoi fornitori con il danaro. Per lui non fa alcuna differenza se ieri il danaro era fatto d’oro coniato, e se oggi è fatto di carta. I suoi affari vanno bene o vanno male indipendentemente dal materiale con cui è fabbricata la moneta. Il suo potere di comandare lavoro all’interno del suo paese si realizza sia con l’oro sia con la carta. Nell’un caso e nell’altro, dentro la moneta c’è un valore di scambio.

Ma se ciò è vero per un capitalista, è tutt’altro che vero per l’intera classe dei capitalisti e per lo stato. Mentre il singolo capitalista non può inventarsi il potere di comandare lavoro, la banca centrale può farlo. Il Sud italiano (o meglio il paese degli Italici) è una delle tante vittime della “finzione” monetaria.


Ciò premesso, passiamo dai concetti astratti ai fatti, alla storia, agli avvenimenti. I concetti esposti appariranno in controluce.



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Il disastro dell’economia meridionale non nasce dalle cose che il nostro paese ha perduto. In condizioni normali le avremmo rifatte; e rifatte al passo con i tempi. Il disastro è nato a causa della cancellazione della banca meridionale d’emissione. 


Tra il 1820 e il 1850, l’industria che impiega la macchina a vapore si afferma nel Regno Unito e va diffondendosi in Belgio, Francia, Svizzera e nei paesi di lingua tedesca. Il treno accorcia le distanze e abbassa notevolmente il costo del trasporto via terra. Verso la fine del periodo la nave a vapore fa altrettanto nel trasporto via mare. Dalle colonie extraeuropee e dalla Russia arrivano, a prezzi bassi, grano e altre derrate agricole, prodotti minerali e dell’allevamento. Il movimento internazionale  delle merci avviene attraverso il pagamento in oro.


Il Regno di Sardegna, sconfitto a Novara nel 1848, prende a indebitarsi con le case bancarie europee per pagare i debiti di guerra. Non avendo miniere veramente fruttifere, il re prende a prestito dai sudditi l’oro con cui pagare. E lo fa come abbiamo visto aveva fatto il re d’Inghilterra nel 1694. Una banca genovese presta venti milioni oro allo stato e in compenso viene autorizzata a emettere banconote per lo stesso importo, in questo caso, però, non convertibili (corso forzoso dei biglietti). Il Regno di Sardegna è un piccolo paese di cinque milioni di abitanti, in parte non italiani per lingua e tradizioni. Dal punto di vista sociale, se non comprendesse la Liguria e le province di Alessandria e di Asti, sarebbe del tutto un paese  marginale nell’Italia del tempo. Il Regno è schiacciato fra due grandi potenze militari: la Francia e l’Austria. Il militarismo e l’espansionismo sono l’unica via che la casa regnante intravede per conservare il trono. A partire dal “fatale” 1848, il cartismo, il liberalismo, l’indipendentismo rappresentano per i Savoia la via per  legare gli italiani al loro carro. Tra il 1851 e il 1853, Cavour diventa il leader del partito moderato e il primo ministro dello stato sabaudo. All’idea di nazione e di costituzione, con cui il  Piemonte di Carlo Alberto si era presento alla gente delle altre regioni, Cavour aggiunge il liberismo commerciale e il liberalismo massonico e anticlericale. Questi particolari anagrafici sono estremamente importanti. L’Italia ottocentesca non è più una produttrice di idee. Una parte importante delle classi borghesi dei vari stati - specialmente quella lombarda, che aspira a liberarsi dall’Austria, e quella ligure, che aspira a emanciparsi proprio dal tallone sabaudo - assorbe idee dalla Francia, dalla Svizzera, dall’Inghilterra.  La stessa Napoli dimentica la lezione prestigiosa di Vico a favore di Hegel e il riformismo sociale di Antonio Genovesi a favore dell’indifferenza sociale di Adam Smith. Cavour perfeziona il progetto di Carlo Alberto e usa il liberalismo come un grimaldello per ottenere le simpatie della borghesia padana. Il progetto politico dell’annessione dinastica viene nobilitato (o ipocritamente annebbiato, come in appresso si vedrà) con l’idea di un mercato unico padano. (Al principio, il cavourrismo al Sud a non ha presa perché le Due Sicilie sono già un vasto mercato. Avrà presa invece la corruzione di generali e colonnelli. Ma la vera causa della fine dell’indipendenza  meridionale sta nell’innesco di una spirale viziosa che parte dalla sconfitta dell’Austria ad opera di Napoleone III e arriva alla mancanza di fiducia in sé stessa della borghesia meridionale, che si piega alla pelosa protezione dei piemontesi per timore di una rivoluzione contadina).



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Per avere le mani libere, Cavour trasforma il governo del re in governo parlamentare. Il ruolo del re è ridimensionato, di supplenza. L’elevata caratura politica del Conte lo porta a essere  l’incontrastato signore delle decisioni parlamentari; quasi il padrone unico e solitario del Regno. Forte del trono morale su cui siede, egli riesce a separare lo stato dalla chiesa e a predisporre un  piano articolato di costruzioni ferroviarie. Nella sua logica politica, le due cose sono la bandiera che il Piemonte liberale e liberista deve  sventolare  sotto il naso della borghesia padana. Ovviamente  il Regno sabaudo non possiede neppure una piccola parte delle risorse occorrenti a spesare le ferrovie. Il danaro necessario viene dalla Francia.  Al tempo di Luigi Filippo e Napoleone III i grandi banchieri europei acquistano dagli stati, a prezzi scontati, ingenti stock di cartelle del debito pubblico.  Ovviamente non le trattengono in portafoglio: le collocano presso  i risparmiatori e gli speculatori, guadagnandoci il differenziale. Attraverso la mediazione bancaria, i redditieri fondiari finanziano in Europa e in America le costruzioni ferroviarie e gli altri investimenti di  lungo periodo, cioè la modernità di cui si sentono nemici.


Il Regno sabaudo ammucchia debito pubblico senza fine. James Rothschild e gli altri banchieri  si rendono conto che, se i Savoia non riverseranno i loro debiti sulla Lombardia e sul Veneto, essi stessi  andranno incontro a una perdita d’immagine e a difficoltà aziendali. Cavour è consapevole che, in caso di vittoria, dovrà rastrellare l’oro  circolante nelle regioni conquistate per pagare la Francia. La Banca Nazionale del Regno di Sardegna è  gestita da un uomo abile e senza scrupoli. E’ questa la subdola macchina che Cavour mette a punto per condurre il patriottico saccheggio. 


L’Italia del tempo, divisa fra sette sovrani, è in ritardo rispetto alla Francia, che, dopo le guerre napoleoniche è divenuta il termine di confronto con cui la borghesia delle varie regioni misura se stessa. Tuttavia non è il paese arretrato che gli storici unitari si sbrodolano a raccontare, al fine di mettere in risalto le bellure delle ferrovie piemontesi. Le attività commerciali sono buone, le esportazioni, in particolare di seta greggia, di zolfo e d’olio, danno un decente profitto. La marina mercantile è sviluppata almeno quanto in Francia. Nel settore bancario, oltre a una decina di grosse case bancarie francesi, inglesi e tedesche, fra cui quella di Carlo Rothschild,  la quale  realizza a Napoli un giro d’affari così importante da dover pagare circa cinque milioni di lire equivalenti di imposte all’anno; caso assolutamente unico nell’Italia del tempo.


Esistono inoltre due istituti di deposito e sconto relativamente grossi, la Cassa di Risparmio di Milano, che  raccoglie 120/130 milioni di lire (equivalenti) di depositi e li investe in  mutui edilizi, e il Banco delle Due Sicilie, che raccoglie circa 250/300 milioni di lire (equivalenti) di depositi.  Il Banco rimette in circolazione l’intera  raccolta e in più crea moneta fittizia per circa 90/100 milioni.

La moneta cartolare napoletana non è però la  banconota, ma un vaglia nominativo detto fede di credito, che circola mediante girata ed è  convertibile in numerario a vista, sia presso lo stesso Banco sia presso le tesorerie di stato, che nel Regno sono centinaia. Il titolo è antico e allo stesso tempo moderno. Viene rilasciato come ricevuta a chi versa moneta al Banco; è garantito dal patrimonio reale e da una vincolo sulle rendite statali del Tavoliere delle Puglie. La carta napoletana soddisfa i bisogni dei possidenti, tanto da fare aggio sull’oro, cosicché il fondo metallico depositato non subisce oscillazioni significative nel tempo. Ciò premette al Banco d’impiegare una parte della riserva in sconti commerciali e anticipazioni su merci e titoli pubblici.    



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Rispetto alle istituzioni bancarie di Napoli e di Milano, la Banca Nazionale sabauda appare una realtà modesta. Evidentemente meno ricca e  meno affidabile di entrambe,  è anche meno raffinata e meno efficiente, meno leale verso il pubblico e meno  “nazionale”  del Banco borbonico. Prima della conquista della Lombardia da parte dei Savoia, gli sconti e le anticipazioni concessi dalla Nazionale non superano nel momento migliore i 50 milioni di lire e la circolazione della sua carta non supera i 40 milioni di lire. In sostanza, nell’area del Regno sardo (Piemonte, Liguria, Sardegna, Valle d’Aosta) circola un sesto della carta bancaria duosiciliana, mentre Genova e Torino assieme ottengono credito in misura della metà  rispetto ai regnicoli dei Borbone. Bisogna anche aggiunge che Napoli raccoglie il suo oro e lo porta in banca, mentre Torino è costretta, a causa della sfiducia che circonda la Nazionale sabauda, a comprare oro in Francia per un ammontare superiore ai biglietti in circolazione, facendolo pagare ai sabaudi in termini di minori importazioni di beni di consumo e strumentali.    

Non appena Napoli fu raggiunta dalle truppe piemontesi - l’Italia-una non ancora proclamata - Cavour, con un atto subdolo, con  una truffa legalizzata da lui stesso, decretò la chiusura delle industrie napoletane e l’ibernazione del Banco delle Due Sicilie. Per le dimensioni e per la modernità, la loro sopravvivenza avrebbe fatto di Napoli l’epicentro economico del nuovo stato, cosa che sicuramente non piaceva né a lui e né al gruppo politico che gli ruotava intorno. La spiegazione che Cavour fu chiamato a dare a questo riguardo fu  incentrata sulle brutture del protezionismo e sulle bellezze dello sfarfallante liberismo. Summa teologica dell’Italia una (nel prendere) e indivisibile (nel pagare), in  sostanza fu un’abile presa per i fondelli dei  napoletani, i quali in quel momento non sapevano (e difficilmente avrebbero potuto sapere) che le industrie sabaude (come in appresso tutte le industrie del quadrilatero Firenze-Geneva-Torino-Milano) venivano assistite con l’emissione di moneta fittizia.  Francesco Ferrara, il più illustre fra gli economisti italiani del tempo, a questo sistema dette il nome di “protezionismo dall’interno”, come dire protezionismo sotto banco.     


La beffa al liberismo (il liberismo e, simmetricamente, la beffa che esso incorpora sono oggi il vero oppio dei popoli) è certificata da due cifre. Nel 1858, la Banca Nazionale effettua credito per 50 milioni, nel 1868 - fatta l’Italia - effettua credito per poco meno di un miliardo, venti volte che dieci anni prima.


Come si spiega e cosa significa questo miracolo?

Tra il  governo sabaudo e la Banca esiste un accordo, tra tacito e illecito, in base al quale essa fa da   vettore all’oro in partenza dalle tesorerie provinciali, che raccolgono i tributi, e da cassiere al ministero del Tesoro, relativamente al gettito fiscale e all’oro che lo stato incassa emettendo buoni del tesoro e cartelle del debito pubblico. Fa anche da  zecca dello stato. In Italia c’erano più di dieci stabilimenti di conio (la zecca di Napoli è reputata più moderna di quella londinese), a sufficienza, quindi, per riconiare l’oro e l’argento in circolazione negli ex stati. Ma alla Banca quell’oro fa comodo. Cosicché le altre zecche vengono praticamente chiuse. Nelle sue casseforti, le vecchie monete (non sue) diventano riserva aurea, sulla cui base è autorizzata a emettere biglietti per tre volte tanto (una lira-oro, nelle casse della Banca Nazionale, diventa tre lire). Con questo gioco di prestigio, il potere di comandare  lavoro triplica. Era uno, m nelle sue mani diventa tre.  



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Ovviamente, con questi biglietti dal valore fittizio, essa fa credito alle banche commerciali come se fosse oro. Ora, in questo non ci sarebbe alcunché di male,  se il suo credito si spargesse su tutta la penisola; cosa che sarebbe giusta e patriottica, visto che l’oro arriva da tutta la penisola. Anzi sarebbe persino un bene. Purtroppo l’amata patria tradisce i suoi patriottici sudditi:  il 90 per cento del credito che la banca centrale concede va alle banche commerciali padane. Il gioco (o il risorgimento) è fatto.


Se questo non bastasse, gli importatori stranieri acquistano in oro dalla Banca Nazionale carta commerciale che  pagherà con carta in Italia. E siccome circa il 50 per cento delle esportazioni italiane parte dall’ex Regno delle Due Sicilie, i meridionali cedono oro alla banca centrale, che essa  moltiplica per tre.  In pratica restituisce soltanto un terzo dell’incasso. Sono questi i meccanismi che hanno partorito il capitalismo padano e la superiorità capitalistica del Nord sul Sud.


Sconti e anticipazioni della Banca Nazionale per regione e per abitante della stessa, nell’anno 1867


Nell’anno 1867, gli sconti e le anticipazioni della Banca Nazionale andavano dalla media di 143 lire per abitante della Liguria e dalle 60 lire della Toscana alle 6 lire degli Abruzzi e Molise, alle 13 lire della Calabria,  alle 19 lire della Campania, la regione che aveva dato più oro alla patria, alle 0 lire della Basilicata. Il tutto con il tricolore sventolante al sole. 


Il dato relativo alla Sicilia è falsificato da un intrallazzo della Banca Nazionale, che colloca a Napoli titoli del debito pubblico incassando fedi di credito. Per ottenere oro senza destare sospetti nel Banco, le porta in Sicilia, al Banco isolano che, per convenzione, doveva cambiarle.

Alla faccia del liberismo, il capitalismo padano nasce attraverso “il protezionismo dall’interno”, cioè promosso subdolamente dalla banca d’emissione; un protezionismo di cui il Napoletano e la Sicilia pagano il costo e la Padana si becca i vantaggi. Incorporato il Sud, il capitalismo padano   consegue  i mezzi per comandare lavoro pari a tre volte la sua circolazione precedente; non solo, ma anche pari a tre volte tutta la circolazione metallica italiana, di cui il 70 per cento circa arriva dal Sud. Il capitalismo padano prima non c’era - solo un cane da Tartufi lo scoverebbe!  - adesso c’è. E sovrasta non solo Napoli ma l’intero paese, dal Veneto, all’Umbria, alle Marche, alla Romagna,  al Lazio,  alla Sardegna. Invece a Napoli il capitalismo c’era, sia quello di stato sia quello privato -  bastano a provarlo le decine di migliaia di costruzioni navali e i diecimila e passa armatori navali -  ma adesso non c’è più. Il borbonico potere di comandare lavoro, in quanto borbonico,  fa un viaggio patriottico e prende la residenza a Genova e a Firenze, dove la Banca Nazionale l’ha portato. E lì resta senza rimpianti e nostalgie. Ma se anche le avesse, ci sono sempre i governatori della banca centrale a vigilare che non faccia follie. In compenso, al Sud,  abbiamo la disoccupazione sistemica,  il crollo di tutte le classi produttive, l’immoralità come principio dell’essere, la crescita del malaffare e la mafia (il capitalismo con il mitra).   


Quanto racconto è storia, ma è anche il paradigma che mostra come l’occupazione e la disoccupazione non siano direttamente dipendenti dall’intraprendenza del singolo capitalista. Non ci sono spiriti animali forti al Nord  e spiriti animali deboli al Sud. Sono invece le regioni vincitrici  che egemonizzano,  bloccano,  inchiodano al remo  le regioni vinte.


Quello italiano non è l’unico caso di stato nazionale nato e organizzato nella forma di regioni colonialiste e di regioni colonizzate. Purtroppo si tratta del caso che passa sulla nostra pelle. Nei 150 anni della nefasta unità le sopraffazioni settentrionali si sono ripetute un’infinità di volte; così tante volte che appaiono persino naturali. Vorrei citare qui soltanto le due più infami: lo scippo, in età giolittiana, delle rimesse degli emigranti, con cui fu messa in piedi la prima industrializzazione  padana e lo scippo del controvalore delle amlire (le lire emesse dagli Alleati durante l’occupazione, tra 1943 e il 1946); una carta che era stata pagata dai meridionali con lavoro, beni e segnorite. Il controvalore in questione - generoso dono degli USA alle popolazioni, in quegli anni bisognose di pane - finì nelle tasche delle Fiat e di altri illustri componenti del padronato italiano, quelli del “salotto buono di Milano”



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Oggi l’emissione di moneta non è più una “finzione “di oro.  Le banche centrali emettono la loro carta tenendo conto di variabili dell’economia reale, come la produzione, i consumi, la bilancia internazionale. Possono, inoltre, adottare scelte politiche un tempo impensabili. Sostiene Giacinto Auriti che, se si arrivasse a  un governo della banconota (disinteressato, interclassista, non partigiano,  dato che a pagare è alla fine sempre il consumatore), sarebbe persino possibile concepire l’abolizione delle imposte sul reddito.


A partire del diktat di Cavour, sia la spesa pubblica statale sia le emissioni di carta viaggiano per circa l’80 per cento verso le regioni artefici, prima, e predilette, poi, dallo stato unitario. Per più di cento anni, l’unica istituzione bancaria del Sud avente  rilievo, il Banco di Napoli,  fu lasciata sopravvivere perché facesse, con il risparmio meridionale e la valuta raccolta presso gli emigrati d’America, il portatore di borracce, come toccava in altri anni  Giovanni Corrieri a favore di Fausto Coppi.  Vendendo all’oggi, l’idea ambigua e ambivalente, chiamata meridionalismo, non ha neppure il senso che aveva un tempo, quello di purgarsi l’anima.  Infatti il sistema europeo ha adottato la filosofia del “lasciar fare, lasciar lucrare” al capitale già presente sulla piazza. I pannicelli caldi dei fondi regionali (europei) non curano nessuno. In questa situazione, che va oltre l’assurdo, a  noi non resta altra  strada che l’indipendenza dall’Italia e dall’Europa. Le risorse abbondano, sono decine e decine di volte più di quelle di cui disponeva un cinese prima  del decollo del suo paese, ma viaggiano verso altri punti cardinali. Si tratta di organizzarle per sé (e non per altri) e indirizzarle allo sviluppo. In questo senso, la banca d’emissione nazionale costituisce la condizione preliminare. Erogando credito allo scoperto, a favore dalle forze della produzione al momento “oziose”, latenti, la finzione può valorizzarle e  guidarle verso  produzione, anziché che verso i consumi, come sta accadendo al Sud sin  dal 1992, sotto la regia della banca d’Italia e sotto l’egida della Banca Europea. Niente di nuovo sotto il sole. Un uso virtuoso della moneta fittizia fu fatto dagli epigoni di Cavour, a favore delle regioni padane risorgimentate; fu fatto anche, negli anni Cinquanta e Sessanta, dalle banche IRI, ovviamente d’accordo con la Banca d’Italia, sempre a favore delle già santificate regioni. Unico vincolo per noi, l’indipendenza dai predetti risorgimentati.


L’idea di separare una realtà politica, creata dalla retorica  scolastica e dai sussidiari di terza elementare, ferisce tutti i meridionali. Un libro falso e prezzolato - il Cuore di De Amicis - è l’unica battaglia vinta da un militare piemontese in tutta l’infelice storia militare dei sabaudi, da Lamarmora, bombardatore di Genova e scannatore di briganti napoletani, a Pietro Badoglio, vero responsabile della rotta di Caporetto,  conquistatore di Addis Abeba con i gas asfissianti e  fuggiasco da Roma, il popolo inerme e le divisioni schierate in armi abbandonati alla mercé delle  forze tedesche.


I vinti della truffa sabauda, liberal-cavourrista, prussiana da operetta, cuor-deamicisiana, siamo  noi Italici.  Colpa nostra! Come il giacobinismo e gallicismo del 1799, anche il liberal-unitarismo del 1860 è arrivato a noi sulle ali della spaccatura tra le classi del lavoro e le classi della rendita; spaccatura che nel paese meridionale risale  almeno al tempo di Tommaso Campanella. Nel mezzo secolo che ci separa dall’ultima tensione contadina per la terra, la spaccatura si è incancrenita, per effetto di una precisa e verificabile volontà politica dei governi nazionali. Oggi essa assume i connotati funesti di mafia e antimafia. La funzione un tempo assegnata agli abbecedari oggi è passata al commercio globale della droga, e ai corrispondenti incassi milanesi di narcodollari.  


A questo punto, il gioco si è fatto fin troppo sporco, oltre che paurosamente evidente. Spetta a noi decidere  se accettare la servitù o se pagare il prezzo che la lealtà verso la nostra  patria quadrimillenaria e verso i nostri figli e nipoti imporrebbero.


Nicola Zitara


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L'articolio riprodotto in questa pagina è stato pubblicato
sul settimanale “La Riviera“ e sul periodico “Due Sicilie - Anno XI N. 2“
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