L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Benito Amore e la doppiezza di Togliatti

di Nicola Zitara

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Siderno, 13 Aprile 2003

Una mattina di cinquanta anni fa, il postino mi recapitò una lettera, il cui mittente era nientemeno che Benedetto Croce. Conteneva quattro o cinque fogli scritti a macchina, evidentemente una macchina la cui dentatura aveva perduto ogni smalto a causa dell'uso prolungato nel corso di lunghi decenni.

E fu proprio questo che mi evitò lo sbigottimento. Potei subito capire che si trattava di una presa in giro. In effetti il testo apparteneva al filosofo napoletano. Una decina di pagine del suo libro su Antonio Labriola e il materialismo storico erano state copiate, immagino, pregustando il divertimento, dal maldestro dattilografo. A prendermi in giro era Benito Amore. Nonostante molte apparenze contrarie, al quel tempo (i primi Anni Cinquanta) socialisti e comunisti non si amavano, e Benito e io eravamo i galletti sidernesi dei due partiti.

Non trascuravamo le occasioni per beccarci. Più precisamente, era Benito a non perderle.
Benito era stato ed era un ragazzo prodigio. Latino, greco, italiano, matematica, e specialmente filosofia e storia li conosceva meglio dei suoi professori. Imparava senza fatica e rapidamente. Le sue le interrogazioni erano delle autentiche lezioni. I professori ne erano letteralmente esterrefatti e lo trattavano alla pari. Al tempo della beffa di cui sopra credo che avesse vent'anni. Studiava diritto da par suo.

Fu indubbiamente una scelta non congrua rispetto alle sue eccezionali potenzialità di produttore di cultura e all'incredibile vivacità della sua intelligenza. Molto più appropriati sarebbero stati gli studi storici e filosofici, verso i quali lo portava una naturale vocazione. Ma in famiglia i soldi erano pochi. L'inflazione postbellica aveva immiserito la pensione materna. Il padre, sottufficiale di marina, era morto in giovane età, poco dopo la nascita del figlio. La storia e la filosofia sono scienze non paganti, riservate ai figli di papà (don Benedetto Croce, ad esempio) o a quelli che non sanno farsi strada nelle professioni competitive (per esempio, nel suo piccolo, il sottoscritto).

Da jus peritus, Benito ha fatto una brillante carriera in quel che io considero il purgatorio a cui l'Italia condanna le migliori intelligenze meridionali, che è la magistratura italiana. Insomma una scelta forse poco utile a lui stesso e sicuramente inutile alla gente del Sud, di cui sarebbe stato un leader infinitamente più capace di quelli che abbiamo dovuto vedere (e subire) sulla scena. Della qual cosa, riconoscenti, ringraziano la Patria e i Fratelli d'Italia.

Al tempo della legge-truffa, Benito si rivelò essere uno dei migliori oratori politici d'Italia. Mio padre, che pure professava idee liberali e rimpiangeva ancora la monarchia, dopo avere ascoltato un suo comizio, dichiarò che, come oratore, lo riteneva più bravo di Togliatti. Ero, e resto, dello stesso parere. Ma il partito comunista non intese valorizzare la giovane promessa. L'intelligenza e la facondia di Benito facevano ombra ai pidocchi che ne reggevano le sorti nella nostra provincia. Così fu rinchiuso in un bozzolo d'indifferenza, emarginato.

Tra lui e me, il dissidio politico si elevava fino ai sacri principi del leninismo. Non amavo Lenin, né la realpolitik, e non riuscivo a capire cosa mai potesse significare in concreto la via italiana al socialismo. Sono cose che dopo il miracolo economico padano, dopo gente come Giacomo Mancini, già potevano sembrare d'altri tempi, e che invece conservavano (e conservano tuttora) una pregnante attualità. Cosa che ben si è vista non molto tempo dopo, con la rivolta di Reggio. E che i sussulti del mondo arabo e la radicalizzazione del fondamentalismo islamico ci ricordano tutti i giorni. Solo una decina d'anni dopo ho capito che Benito aveva ragione e che io mi sbagliavo. E non certo a proposito del leninismo e dello stalinismo, ma riguardo al fatto che una rivoluzione può dirsi tale soltanto se possiede, già prima di essere attuata, l'arma di una sua teoria della storia. Ma allora non riuscivo a capire. Da qui lo sfottò di Benito, mediato dallo scritto di Benedetto Croce.

La mia educazione politica non veniva dalle letture filosofiche, ma dagli umili ranghi della militanza proletaria: da un ferroviere anarchico che il fascismo aveva mandato a casa e trasformato in pescivendolo; da un altro ferroviere licenziato dal Duce, che era un socialista riformista formatosi sulla Critica Sociale di Turati, da un fabbro che, con immediatezza istintiva, affermava il diritto naturale dell'uomo ad avere il necessario per nutrire i figli. Per me ventenne il socialismo era un solo principio: il pane della povera gente. Anche per Benito la cosa che contava era quella, ma lui sapeva che, per ottenerla, la prima cosa da fare risiedeva nel convincere gli affamati che avevano un razionale diritto al pane. Senza tale acquisizione concettuale e morale, qualsivoglia appropriazione di pane, di grano o di farina avrebbe avuto il sapore di un furto.

I valori borghesi della proprietà, della libera iniziativa e della libertà commerciale permeavano non solo la coscienza dei possidenti, ma anche quella dei proletari, dei diseredati, dei nullatenenti. A tali concetti, rozzamente opponevo che i nostri partiti (il socialista e il comunista) stavano portando avanti una politica sbagliata. Sbandieravo i soliti argomenti del meridionale frustrato. Andando avanti di quel passo ci saremmo ritrovati tutti a Milano, a pietire il lavoro e una condizione civile ai padroni di là. Giusto era passare subito ai fatti L'unità proletaria (Sud/Nord) non la vedevo spuntare né nei partiti né nel sindacato. Questi ragionamenti andavano a sbattere contro le affilate argomentazioni di Benito, che usava la teoria marxista con la stessa sicurezza del giocatore di scopone che conoscendo le regole di Chitarrella schiaccia il suo avversario principiante.
Benito è morto dieci giorni fa.

Retrospettivamente penso che il buono, il generoso era lui e io il cattivo, il diffidente. Il discorso non venne mai ripreso. I fratelli del Nord ci dettero un lavoro in posti diversi. D'altra parte, né lui era più comunista, né io ero più socialista. Il giudizio sui due partiti lo avevamo già dato lasciandoli, cosicché quelle poche volte che tornavamo in paese, se ci incontravamo, ci guardavo bene dal riprendere la diatriba dei nostri verdi anni. Ma se lo avessi, per un miracolo, ancora di fronte, gli spiegherei perché, secondo me, se io ero un ignorante in materia di filosofia politica, lui era stato un ingenuo. L'errore comune veniva dalla doppiezza togliattina.

Tornando dall'esilio russo, Togliatti aveva enunciato due principi politici diametralmente opposti: la rivoluzione leninista e la via italiana al socialismo; un'autentica cialtroneria, a cui, però, si credette come fosse il Vangelo.
Nella politica togliattiana, l'idea di rivoluzione aveva la stessa funzione che Proudhon attribuiva alla religione: l'oppio dei popoli. Lo sbandieramento di quell'idea serviva a dare una prospettiva messianica alle masse marginalizzate del Sud e a distrarle da richieste più immediate e concrete; cosa che avrebbe sfavorito le aristocrazie operaie genovesi e il cooperativismo emiliano. Tutt'al più, ai meridionali, era consentita la lotta per la terra; una cosa che ormai non faceva male a nessuno, anzi era vista come lotteria dai proprietari espropriati.

Nello stesso tempo quell'idea portava voti meridionali alla contabilità elettorale e parlamentare comunista; una forza che veniva spesa "riformisticamente" a Genova e a Bologna. Era questa la via italiana al socialismo, niente di più e niente di diverso rispetto al riformismo turatiano, al tempo del notabilato parlamentare, quando i voti che i socialisti raccoglievano in tutt'Italia venivano fatti pesare nei contratti con il governo Giolitti, aventi per oggetto consistenti aiuti clientelari ai municipi emiliani e romagnoli..

La teoria è essenziale in politica, come la grammatica è essenziale nell'uso della lingua. Ma, come la grammatica inglese non serve a scrivere e a parlare bene l'italiano, egualmente le due teorie politiche togliattiane - quella della rivoluzione di là da venire e quella del riformismo attuato in alcune regioni del paese e in altre no - non servivano e non servono ai lavoratori meridionali, che hanno bisogno di uno Stato indipendente, il solo strumento che può precostituire le condizioni per battere la disoccupazione, l'improduttività, la dipendenza economica e culturale, la svendita dei nostri giovani migliori, l'ammasso obbligatorio dei cervelli nei sylos del Milan e della Juventus.

 

Nicola Zitara

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