L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il Bel Gegè

di Nicola Zitara

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Siderno, 13 Gennaio 2001

Ci fu, nel luglio scorso, a Lecce un incontro - per la verità poco affollato - di neorbonici e altri sudisti. Poi ci siamo tutti assopiti in attesa del miracolo. San Gennaro non dice mai no. A me è capitato d'essere scosso dal torpore da una lunga missiva speditami da Torino, ad opera di un meridionale che - evidentemente - sente come una disgrazia il dover vivere lì.

E' una lettera piena di rabbia, di odio, di razzismo sudista, di disperazione esistenziale. Se è l'informato a paragonare il sentimento che la pervade, gli viene in mente l'intolleranza tra indù e indiani, tra palestinesi ed ebrei; popoli della stessa razza eppure fieramente nemici tra loro. Con questi sentimenti - e con la situazione oggettiva che il popolo meridionale vive oggi, sia in patria, sia al Nord - gli italiani del Sud e del Nord prima o poi si scanneranno fra loro.

Niente di nuovo sotto il sole. Non sono un pacifista a tutti i costi. Se guerra deve essere, guerra sia. Solo mi spiacerebbe che il Sud la perdesse in partenza, perché impreparato all'idea di doverla fare. L'imprevidenza, l'impreparazione, la faciloneria sono la storia del Meridione a partire dal 1799, ma forse da prima.

Impreparati e imprevidenti si rivelarono non solo i giacobine, ma anche i Borbone dopo il 1848, e specialmente dopo che Napoleone III sostituì i loro congiunti sul trono di Francia, lasciando intendere una scelta politica francese a favore delle nazionalità oppresse dall'Impero austriaco. Impreparati e rozzi furono i fuoriusciti meridionali, che si consegnarono ai Savoia e a Cavour, affidano a gente che - era evidente - aveva un progetto dinastico e ladronesco, e non certamente patriottico, il destino della rivoluzione meridionale. Imprevidenti e futili furono gli anarchici e i socialisti subito dopo l'unità, non facendosi coinvolgere e non ponendosi alla testa dell'insurrezione contadina. Imprevidenti e pagnottisti furono anche i meridionalisti, che barattarono la loro autonomia culturale per una carriera universitaria o ministeriale.

Che facciamo, ora, noi? Ripetiamo la sceneggiata? Non si può parlare di Dio a casa del Diavolo (o viceversa), senza però aderire al suo precetto. Proclamiamo la dolcezza del regno borbonico, e poi ci contentiamo di cambiare il nome alla pizza Margherita? Ma la questione, invece, è sociale, politica, economica, militare; tocca la dignità dell'uomo e del cittadino, e anche la funzione nazionale dello Stato.

In altri tempi si dibatté se fosse giusto ingannare il popolo. Però il dubbio affaticava gente votata all'azione. Il neoborbonismo reale, effettivo, a me pare somigli piuttosto all'oblomovismo; da Oblomov, celebre romanzo di Gonciarov, il cui protagonista preferiva, alle scomodità della vita attiva, il sonno su uno scomodo e sbudellato sofà.

Ma forse si potrebbe pensare a qualcosa di nostrano. Per esempio al Bel Gegè, un personaggio che credo furoreggiasse al tempo del Salone Margherita, di Scarpetta e di Viviani.

Il Bel Gegè non va confuso con l'assonante Bell'Antonio di Brancati. Ma solo per motivi clinici. All'impotenza sessuale - e sociale - di quest'ultimo corrispondeva, infatti, l'inconsistenza personale - e sociale - del primo. Aveva l'erre moscia, perché ai suoi tempi faceva fino essere fragile; insaporiva i suoi discorsi con parole e motti francesi, perché faceva fino parlare il francese. Insomma era ridicolo, ma non lo era solo per questo. Lo era perché a Napoli a nessuno era perdonato (direi, anzi, permesso) il non saperci fare. Il napoletano ci sapeva fare per autoproclamazione, per nascita, per patrimonio genoculturale. A 'ccà nisciuno è fesso.

Credevo che spentasi persino l'ultimo ricordo di Napoli capitale, insozzato il Salone Margherita, morti Di Giacomo e la Serao, tramontato l'idillio do pescatore do mare 'e Pusillipo, il tipo del Bel Gegé fosse evaporato dalla scena quotidiana. Tutta povera gente; gente rassegnata, ma ben consapevole del dramma. Ha da finì a nuttata. Invece no, leggendo l'affascinate rappresentazione di Giuseppe Montesano, Nel corpo di Napoli (che l'autore avrebbe intitolato certamente Nel ventre di Napoli, ove non avesse avuto il sacro timore di evocare donna Matilde), mi son reso conto che il Bel Gegè è tutt'altro che morto. Anzi e ben presente. E Napoli non solo transige con i Bei Gegè, ma che li ostenta.

Insomma, a Napoli, una buona parte di coloro che aprono la bocca e parlano, non sono altro che dei Bei Gegè. Bei Gegè di vari colori. C'è l'avvocato Marotta che ne presenta persino tre, bianco rosso e verde, con il blu di riserva, in quanto non sta male al posto del verde; c'è il presidente Bassolino - se non proprio con l'erre moscia, con una erre zoppicante - che prima era rosso e adesso è rosa, un rosa cangiante verso il grigio, ma che prima o poi avrà le guance usate tanto, da sembrare verde; e ci sono poi i neorbonici, i quali dovrebbero essere bianchi, ma inclinano marcatamente verso i tre colori, come coloro - e non sono pochi - che amerebbero avere il Duomo di Milano in Piazza Plebiscito e la Torre di Pisa in Piazza Garibaldi.

Mi spiace parlar duro, ma quando ci vuole ci vuole. Il sudismo sta marcendo nell'impotenza, anzi nel ridicolo. Non si vedono che schiene curve, che invitano a servirsi nel caso di bisogno. Stiamo ingannando noi stessi e gli altri. Il fatto che la gente non ci segue è solo una scusa infantile. Infatti sappiamo bene che la gente non si muoverà fino a quando non ci muoveremo noi intellettuali. Gramsci ci ha definiti una classe oscillante, ma in realtà siamo una classe infognata.

 

 

Nicola Zitara

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