L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml



Storia dissonante di una marina jonica

e del gruppo socialista locale nell'immediato dopoguerra

di Nicola Zitara


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Attraverso la vicenda locale, l'articolo tocca quattro punti nodali della cosiddetta storia nazionale (italiana): la vocazione mercantile del Sud preunitario, il blocco dello sviluppo meridionale per amor di patria, la Ricostruzione, il ruolo nordista dei partiti democratici (solo al Nord).

Il dato potrà sorprendere più d'uno, le marine joniche non sono in Grecia, ma in Italia, anche se nella parte brutta e quasi innominabile dell'artistico Paese. Sono luoghi senza una storia degna dei libri di storia, e meno che mai della televisione. Sarebbero del tutto senza geografia (anche i colonnelli delle previsioni atmosferiche hanno preso l'inclinazione a chiamare quest'area Basso Adriatico) e senza un codice d'avviamento postale, se di tanto in tanto l'irrequietezza di un giudice antimafia non le illuminasse della sinistra luce che meritano.

Nel corso della civile e intelligente dominazione romana le antiche colonie greche si spensero, in appresso il Mar Jonio divenne troppo largo per le navi bizantine, le quali, minacciate dagli arabi, trovarono più tranquilla la rotta adriatica e più ospitali approdi a Ravenna e a Venezia. La frattura tra cristiani e mussulmani fece il resto. Il Jonio divenne l'estremo confine della Cristianità. Chi abitava quelle sponde confinarie si rifugiò sulle retrostanti colline. Inoltre, per cortese intercessione dei papi e dei banchieri fiorentini e genovesi, venne a signoreggiare sulle terre e sugli uomini del Sud il peggio d'Europa. Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci preferivano la sella di un cavallo renano al ponte di una nave, cosicché i jonici lasciarono la costa per i castelli chiusi da un ponte levatoio, e qui vissero, non sempre felici e qualche volta scontenti (la rivolta promossa da Campanella, per esempio), per mille e più anni. Per tutto il medioevo meridionale, che va dalla chiamata dei Normanni (1018) al regno Carlo III Borbone-Farnese (1734), tra Reggio e Taranto, per oltre 500 chilometri di costa, c'era una sola città costiera, Crotone (o Cotrone, come allora veniva chiamata).

I jonici tornarono in massa sulla sponda marina solo quando il provvido governo dei Savoia costruì, a un centinaio di metri dal mare, contemporaneamente, la ferrovia e la strada nazionale, le quali s'innestano su quelle imperiali italiane a Taranto. Ormai La Marmora era morto, e pure Cialdini; i bersaglieri, disamorati di correre a piedi, si preferì spedirli in treno. Il rosario delle marine joniche andò delineandosi, per calata dei collinari, appunto tra il 1865 e il 1895, che è l'epoca di quelle opere civilizzatrici. Ma come accade per tutto ciò che riguarda l'ecosistema sociale, il fenomeno presenta delle anticipazioni e dei ritardi. Infatti nel Materano, nel Cosentino e nel Catanzarese alcuni paesi collinari non si sono ancora interamente prosciugati a favore delle loro marine. Invece verso la punta estrema della penisola, colpita dal terribile terremoto del 1783, i ricchi proprietari, con palazzo collinare, si affrettarono a ripetere il palazzo in riva al mare, dove i terreni sabbiosi - si assumeva - avrebbero attenuato la violenza di eventuali altre onde sismiche. Il movimento fu rallentato dall'occupazione francese e dalle guerre napoleoniche (1799 e 1806/1815), ma a partire dalla restaurazione borbonica, nel meno povero reggino riprese lo smottamento dell'ultima feudalità verso la spiaggia.

La Marina di Siderno fu fra le prime a svilupparsi. Relativamente a tale insediamento, però, la paura dei terremoti c'entra poco o niente, mentre la strada, la ferrovia e la calata dei collinari sono eventi posteriori. L'innesco fu, in effetti, interamente commerciale.

A partire dal secolo XVIII, l’area agricola calabrese, che era una delle più periferiche del Regno napoletano, registrò un'importante apertura verso il sistema continentale europeo (Ruggiero Romano, Le commerce du Royamaume de Naples avec la France e les Pays de l'Adriatique au XVIII siècle, Paris 1951). In verità, nel corso dei secoli precedenti l’agricoltura meridionale era stata sempre legata al sistema degli scambi infraregionali italiani, specialmente con Venezia, Genova e Livorno, ma a datare dai primi decenni di quel secolo il movimento prese a crescere, in quanto stava crescendo la domanda mondiale di olio (e naturalmente il suo prezzo). L’avita coltura dell’ulivo, già alquanto estesa, si propagò grandemente, avviando un processo secolare che pose l’esportazione olearia al centro della vita economica regionale, tanto che poi, negli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale, la Calabria quasi raggiunse la Puglia sia in termini di quantità prodotte sia in termini di ettari messi a coltura (anche perché gli apuli, graziosamente trattati dal patrio governo, degli ulivi, in quei decenni, preferivano far legna da ardere).

Circa la fase di slancio, che si ebbe nell'ultimo quarto del '700, un fattore di grande importanza fu la lotta, si può dire diuturna, che il governo borbonico condusse contro l'infeudamento del Regno al capitalismo genovese, che aveva ottenuto dai precedenti reami d'Oltralpe e d'Oltremare il controllo della fiscalità e il signoraggio praticamente assoluto sul commercio estero. Per quanto riguarda l'olio, la rotta da Napoli e Marsiglia era controllata interamente dalle navi della Repubblica di San Giorgio. Il sopraggiungere dei Napoleonidi, con l'estensione al Sud del blocco continentale, decretò la fine delle esportazioni meridionali d'olio e quella dei noli pagati a veneziani e genovesi. Con la restaurazione prese avvio la crescita esponenziale della marineria napoletana che nel giro di mezzo secolo divenne la prima in Italia e una delle prime al mondo. E fu questo evento ad animare la quieta storia (senza storia) del borghetto di pescatori che sorgeva intorno alla Torre Tamburi, fatta costruire da Carlo V sulla spiaggia di Siderno

La Torre, essendo l'unico pubblico edificio esistente in riva al mare, nell'arco di decine e decine di miglia, era anche la sede della dogana, cosicché i mercanti aprirono lì vicino i loro fondachi e costruirono lì le loro cisterne (Domenico Romeo, Storia di Siderno dall'eversione della feudalità al fascismo, Ardore 1999). La prima ondata giunse dalla Sicilia e si esaurì presto. Probabilmente va collegata al contrabbando dei grani. Il nolo di ritorno era coperto dall'esportazione di olio verso la Sicilia e forse verso Malta, che fungeva da primitivo entrepôrt a favore dei grossi velieri olandesi e inglesi, che in Mediterraneo percorrevano la rotta longitudinale, dal Libano e dal Mar Nero verso Gibilterra.

La seconda ondata fu di sorrentini e specialmente di amalfitani. Come i loro omologhi siciliani, essi viaggiavano su bastimenti di piccolo tonnellaggio (tra le 70 e le 150 tonnellate di stazza), a due o a tre alberi, che venivano chiamati golette e navigavano da punta a punta. A riva, impiegavano i pescatori dei villaggi costieri come manodopera. Furono queste le origini poi non tanto lontane del proletariato operaio marinoto (sidernese), a metà pescatore, a metà facchino (operaio pagato per la singola prestazione lavorativa), sempre che non fosse imbarcato, avesse cioè un ingaggio navale a tempo determinato. Mercanti, pescatori-operai-marinai, qualche gnuri (signore, proprietario) più ricco degli altri, tanto da permettersi un doppione di palazzo, un paio di preti, qualche artigiano, un notaio, i doganieri, furono i primi abitanti della Marina. Ma siccome il posto non era appestato dalla malaria, invogliati dall'intensa domanda di lavoro (per scaricare e caricare un veliero occorrevano più di 500 giornate lavorative, perché, in mancanza di una banchina, i carichi bisognava trasportarli prima su barche e poi in spalla, sulla sabbia per i 100 metri circa che vanno dalla battigia al terreno solido- e viceversa) e dai ducati messi in circolazione, anche altri lavoratori senza impiego, nonché artigiani, contadini, massari lasciarono i borghi adagiati sulle colline circostanti - gli antichi borghi che davano il titolo alle baronie feudali - e si insediavano anch'essi intorno alla Torre absburgica. Gli architetti di Ferdinando II disegnarono la pianta della nuova città ricalcando il modello predisposto dagli archietti del nonno, Ferdinando I (Ilario Principe, Le città nuove in Calabria, Chiaravalle). Il paese crebbe e i nuovi sidernesi divennero più numerosi di quelli dell'antico borgo. Cosicché, nel 1872, i gnuri, (i signori, i redditieri e parassiti che la benedizione cavouriana aveva ridipinto da liberali e patrioti) vi portarono la sede comunale (Domenico Romeo, op. cit.). Nasceva così ufficialmente Siderno Marina, le cui fortune furono legate per il resto dell''800 alla minore pericolosità della sua rada (Porto Salvo), preferita per l’ancoraggio notturno dal naviglio in rotta sul Mar Jonio. Secondo i dati raccolti dalla giunta municipale (che si batteva per avere un porto) nel periodo 1867-1875 si ebbe una media annua di circa 300 velieri e 3 vapori in arrivo e altrettanti in partenza, per un totale di circa 25.000 tonnellate e 3.000 passeggeri in arrivo e altrettanti in partenza.

Bisogna ricordare che nella storia d'Italia la navigazione di cabotaggio ebbe un’importanza non minore della navigazione d’alto mare, quella famosa delle Repubbliche marinare. Ancora nel sec. XVII l’Italia era il paese più ricco e popoloso d’Europa. E'abbastanza reclamizzato il fatto che i traffici mediterranei tra l’Oriente e l’Occidente s’incontravano nei porti della penisola e che i mercanti italiani compravano merci in Oriente per venderle all’Occidente, e compravano merci in Occidente con cui pagare le merci orientali. Si insiste molto meno sul fatto che i commerci fra le varie regioni italiane (gli Stati comunali e regionali in cui era diviso politicamente il paese) erano ben più intensi e significativi di quelli che contemporaneamente si svolgevano in paesi già saldamente unificati (e fieramente mercantilisti), come il Regno Unito, la Spagna e la Francia.

Come al tempo dei Greci, degli Italici, di Roma, era ancora il mare a fare da rotaia ai commerci della penisola. Anzi nel Medioevo le strade del mare, rimaste aperte anche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, si spinsero più in alto, accostandosi alle Alpi. Entrano così in gioco nuove realtà, come Genova e Venezia. Dall’età comunale fino alla costruzione della rete ferroviaria nazionale, tra i porti di Venezia, Ancona, Spalato, Ragusa, Bari, Barletta, Gallipoli, Otranto, Taranto, Palermo, Trapani, Tunisi, Messina, Catania, Siracusa, Malta, Reggio, Napoli, Salerno, Sorrento, Castellammare, Livorno, Genova, Marsiglia e decine di altri ancora, si stendeva una fitta rete di scambi, in cui erano coinvolte decine di migliaia di imbarcazioni medie, piccole, piccolissime.

I capitani, che ne erano di solito anche i padroni, si fermano a ogni porto che incontravano per vendere e per compare. Nella fase precedente il sorgere della Marina, la spiaggia di Siderno non fu granché coinvolta in tale gioco, in quanto il suo retroterra comprendeva due soli borghi con poche migliaia di abitanti, ma una volta inaugurata l'esportazione dell'olio fu tutt'altra cosa. Essa coinvolgeva mercanti di livello nazionale e internazionale, che impiegano velieri di piccola stazza solo perché sulla costa mancava un porto. Il raggio del semicerchio di terra che ruota intorno alla Marina supera i cinquanta chilometri di lunghezza, interessando una quarantina di borghi, circa 100 mila ettari di terreno agrario, e a quel tempo circa 80.000 abitanti, in larga parte agricoltori.

A partire dal regno di Francesco I (1825-1830), Siderno diventa uno dei centri più significativi dell'esportazione olearia. Per restare in Calabria, sicuramente non è importante come Cotrone o Gioia, ma è tanto importante che la Gazzetta Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, nel dare i mercuriali dell’olio, la cita settimanalmente (usando il toponimo zonale ormai scomparso di Retromarina) fra le piazze di rilievo (Romeo, op. cot.).

Città – anzi principio di città – per merito delle esportazioni olearie, la Marina comincia a compiersi anche come città manifatturiera. Nel Regno Napoletano, il secolo XIX fu un’epoca di avvicinamento all’industria, un sistema in cui l’Inghilterra stava avanti persino alla Francia e alla Germania, e con un distacco notevole. Ora la fase propriamente industriale, quella in cui gli impianti non sono mossi più dai muscoli dell’uomo e degli animali, ma dall’energia prodotta dai combustibili fossili, il Sud non l'ha mai avuta (per vari meriti italiani), tranne qualche disprezzabile e giustamente disprezzato esempio in età borbonica. Ebbe invece una tradizione alquanto lunga (dal tempo degli Arabi in Sicilia fino alla formazione del mercato unico nazionale italiano) di attività manifatturiere (per esempio, nel sec. XV era il più importante produttore occidentale di seta greggia e lavorata) che nell'ultima fase de l'infame dominazione borbonica assunse il carattere che gli storici chiamano di protoindustrializzazione. Certo era cosa non gradita da alcuno, e gli antichi feudatari, che i nostri grandi compatrioti adottivi e benefattori, Giuseppe Bonaparte e Gioachino Murat, non erano riusciti interamente a debellare, con Ferdinando II in testa se ne andavano per le città e i borghi, con la sciabola sguainata in mano, a distruggere e a incendiare.

Anche la Marina di Siderno visse quella fase a partire dalla nascita. Poi, nella prima parte del sec. XX, conobbe anche una fase di piccola industria, che si esaurì interamente, però, con la Seconda Migrazione, sulle soglie del Miracolo Economico Italiano (in Altitalia).

Tornando alle origini, più di uno storico segnala a Siderno un impianto del Real Esercito per la produzione di salnitro. Certamente l’attività (se ci fu) è da collegare con il giacimento di antracite esistente nella vicina Agnana. Una più impegnata ricerca va fatta in tale direzione.

Considerando che, da noi, ogni alfabeta che si rispetti dedica il suo inchiostro al primato (ma non a quello usurario, però) di Firenze e alla Rivolta dei Ciompi, non esiste una documentazione relativa alla fase protoindustriale e a quella propriamente industriale (sempre senza offendere nessuno). Ci dobbiamo contentare della tradizione orale e dell'archeologia per sapere qualcosa circa il nostro passato. I ricordi parlano di un impianto per la produzione di cremore di tartaro e di citrato di sodio, merci esportatate in Europa e in America, della lavorazione della liquirizia e della radica per le pipe. L'archeologia può lavorare più sul sicuro, infatti esistono ancora (fin quando un sindaco, più fiorentino degli altri, non deciderà che anche lo spazio celeste gli serve per i turisti, che peraltro non arrivano mai) i ruderi di quattro fabbriche di laterizi con le loro svettanti ciminiere di mattoni, più alte del campanile della Chiesa Madre. C’era anche una carcara (fornace) per la cottura della calce, che riforniva il paese e i paesi vicini. Durante la guerra, il camion del proprietario, pittorescamente alimentato ad acetilene – e solo per questo suo particolare merito rimasto in circolazione - s’incontrava in qualunque paese del circondario si andasse, quasi che avesse il dono divino dell’ubiquità. Evidentemente Siderno svolgeva nel campo dell’edilizia una funzione che si estendeva ben oltre il circondario. Comunque, quella della calce, è l’unica industria sopravvissuta (però in mano settentrionale) all’allargamento degli sbocchi settentrionali.

Un ruolo centrale – in un tempo in cui il legname era ancora un primario materiale da costruzione – aveva la segatura dei tronchi e l’allestimento delle tavole. Intorno al 1935, il legname d’opera veniva importato dalla Norvegia e dalla Jugoslavia, ma credo che nel secolo precedente fossero le nostre montagne a fornire i tronchi. Di qualche importanza dovette essere l’ottocentesco pastificio Di Bianco, il quale fu attivo fino al 1925 circa. Non meno importante dovette essere l’allevamento del baco e la trattura della seta, se ancora nel decennio prebellico le aziende che operavano nel settore erano alquanto accorsate. Ma nel corso dell’800 e del '900 l’attività che dette più occupazione fu senza dubbio l’edilizia, dovendosi costruire ab imis un paese per 15 mila persone e poi rinnovarlo secondo moduli edilizi più confortevoli negli ultimi trent'anni. Il primo complesso urbano propriamente borhese fu realizzato in meno di trent’anni, con una spesa enorme, che venne sicuramente finanziata dalla prospera esportazione dell’olio.

Sul finire del secolo XIX, una volta allacciate le rotaie sudiche alla rete nazionale, il Nord divenne più vicino. A questo punto il profilo della borghesia locale cambiò. Dopo quello siciliano, anche l’apporto amalfitano si esaurì. Con esso si spense il primato marinaro e quasi portuale che la rada di Siderno aveva avuto sull’area circondariale al tempo dei Borbone e nei primi tre decenni unitari.

Tuttavia, finita la navigazione di cabotaggio, la Marina non perse la sua funzione di centrale commerciale della zona. Quello che prima arrivava e partiva per mare prese a viaggiare sulle rotaie. La stazione ferroviaria divenne il cuore pulsante del paese, però la cantieristica locale, che costruiva le barche usate per il trasporto delle merci sottobordo e che già si cimentava con costruzioni più impegnative, scomparve rapidamente. Il lavoro, che essa dava, si trasferì a chi fabbricava i treni e le rotaie. Non scomparve, invece, il mestiere dell'imbarcato (del marinaio), che il commercio marittimo aveva promosso, ma la gente di mare, per trovare lavoro, fu costretta a spostarsi.

In seguito, quando si passò dalla navigazione a vela a quella a vapore e la centrale marittima nazionale venne assegnata a Genova, i marittimi, uno dopo l'altro, vi si trasferirono con le famiglie. Cosicché, tra le due guerre mondiali, il marinaio marinota (sidernese) con residenza a Genova fu il precursore dell'emigrato terrone degli anni Cinquanta e Sessanta, con residenza a Torino o a Milano, e sontuosa casa per le vacanze al Sud.

Con l'allacciamento ferroviario alle centrali nordiste, gli esportatori d'olio amalfitani furono dovunque spiazzati e rimpiazzati da operatori liguri e toscani, dietro i quali c'era il fior fiore della banca italiana. Cioè di quella patriottica tangentopoli, ancora risorgimentale, su cui gli storici non amano sprecare piombo e carta. In effetti, a partire dalla crisi che, intorno al 1890, i governi Cairoli e Crispi vollero consapevolmente provocare nell’economia meridionale, i mercanti e i banchieri genovesi presero in mano loro – e per i loro traffici non sempre immeritevoli di quei luoghi dove il sole si vede a scacchi - l’intero settore dell’olio, sia quello commestibile sia quello destinato a usi industriali.

Intanto, essendosi ingrandite altre marine, siccome ognuna ebbe la sua stazioncina ferroviaria, andò scomparendo l'esigenza e la funzione di una centrale della periferia. Il ruolo zonale di Siderno (ora non più Marina nell'uso parlato) si affievolì rapidamente. Tuttavia questa perdita venne in qualche modo compensata dalla nascita di due grossi stabilimenti per la spremitura delle sanse, i quali sopravvissero fin dopo la Seconda Guerra Mondiale. Uno era un ferrovecchio della Ligure-Lombarda comprato da una famiglia del luogo al tempo della Prima Guerra Mondiale, che gli sfaticati lavoratori del luogo fecero funzionare per altri quarant'anni (senza che Montanelli gli desse una mano), e l’altro ferrovecchio apparteneva alla grande azienda genovese Gaslini. Al tempo del fascismo i due impianti davano un’occupazione stagionale che sulla base del ricordo personale stava intorno ai 400/500 addetti. A quel tempo Siderno resisteva ancora quale centro zonale d’ammasso per l’olio, che veniva spedito in Liguria e Toscana per ferrovia. Basandomi sui ricordi, debbo dire che, durante i mesi di punta, non c’era giorno che alla Piccola non si lavorasse per caricare una o più cisterne d’olio, mentre la Gaslini, che le FF.SS. - considerato che si trattava di un'azienda forestiera - avevano affettuosamente favorita con un binario morto-vivo fatto per caso passare accanto all'impianto, caricava le sue cisterne direttamente in stabilimento. Le operazioni si svolgevano manualmente e impegnavano parecchie decine di addetti. I fusti pieni raggiungevano la stazione partendo dai depositi. Spesso non era un camion a trasportarli, ma erano fatti rotolare manualmente lungo le vie del paese.

Gli operatori sidernesi agivano come agenti degli importatori forestieri e con capitali forestieri. In tal modo, essi, nonostante rischiassero in proprio – e parecchio, come poi si vide in occasione del funesto fallimento Audino - lucravano soltanto una frazione del valore che la speculazione commerciale otteneva. Non erano, dunque, i produttori agricoli, né i commercianti calabresi, i maggiori beneficiari della produzione olearia, ma gli importatori forestieri. Anche il valore aggiunto delle lavorazioni industriali e commerciali veniva giustamente realizzato da lavoratori settentrionali, certamente più civili. Anche il Banco di Napoli - che pur disponeva di fondi adeguati a finanziare le attività meridionali e che comunque il quel decennio di fallimenti e nazionalizzazioni bancarie era l’unica banca capace di reggersi sulle sue gambe in quanto godeva di un quasi monopolio sulle rimesse in valuta estera degli emigrati - operava in modo che gli interessi del Sud venissero subordinati a quelli tosco-padani. In tutta evidenza infeudato al sistema capitalistico padano, gli bastava conservare qualche greppia napoletana e, per il resto, vedere e tacere (fino a quando, finite le rimesse, anche il Banco è scomparso, lasciando in vita solo la greppia).

Questo complesso di attività faceva di Siderno Marina una città non baronale, un paese non infeudato ai gnuri. Un paese diverso rispetto agli altri centri di Calabria, politicamente più avvertito, più sveglio, capace di cogliere il significato della realtà sociale. Il fatto che la parte nuova del paese, la Marina, aperta alle influenze commerciali e fondata sul lavoro proletario, avesse rapidamente superato la popolazione della parte collinare e feudale, divenendo anche la sede del comune ebbe delle conseguenze politiche negative. Infatti, i gnuri, già padroni politici del borgo collinare, s'impadronirono politicamente anche della Marina, atteggiandosi persino a democratici per ottenerne il consenso necessario a comandare in tutto il paese e a concorrere ai fasti parlamentari.

D’altra parte, è doveroso annotare che la borghesia mercantile, pur dominando economicamente il centro nuovo non seppe proporre un proprio progetto politico. Tale compito spetterà, invece, sin dai primi anni del nuovo secolo ai socialisti, in primo luogo all'amalfitano Francesco Montagna, autentico tribuno popolare, e a Nicola Palaja, un insegnate colto e coraggioso che, nel secondo dopoguerra sarà membro della direzione nazionale del PSI. Questi uomini nuovi si assunsero anche i compiti storici della borghesia e seppero trovare - attraverso la Società Operaia di Mutuo Soccorso - degli alleati fra gli imprenditori e certamente fra i contadini. Infatti, quando, dopo la guerra, nel 1920. si svolsero le prime elezioni municipali con voto universale maschile, il gruppo socialista le vinse nella sorpresa generale. In parlamento Giacomo Matteotti poteva inneggiare alla "Molinella del Jonio".

Negli ultimi due decenni del XIX sec., nonostante la crisi riversata, sulla ben slanciata agricoltura meridione, dai governi nazionali - che dal nordismo dissimulato delle origini passarono con il siciliano Crispi al nordismo sfacciato e prezzolato - molti massari, acquisite in modo più o meno pulito le terre pianeggianti della frangia costiera - cespugliosi feudi destinati al pascolo bardo dai signori dall'altisonante cognome spagnolo - introdussero le colture propriamente capitalistiche del limone, dell'arancio e del mandarino, copiate dalle vicine province di Messina e di Catania.

Dopo l’olivo e la vite, l’agrume fu il terzo capitolo di quella autentica rivoluzione colturale che il Sud portò a compimento tra il 1800 e il 1950. Con l'intensificarsi della coltura dell'agrume, la Marina va diventando un grande giardino. Al contempo, però, la vecchia centralità commerciale va sbiadendosi. L’antico predominio non esiste più.. Certo il commercio ha ancora un suo ruolo, i carrari, che portano u nozzulu (la sansa delle olive) dai paesi del vasto circondario agli stabilimenti, si fermano ancora a caricare dai grossisti sidernesi, per guadagnare un nolo anche sul viaggio di ritorno, ma ora Siderno è costretta a concorrere con i paesi vicini. A Locri viene impiantata una grossa filanda ed appare, per poi scomparire nel breve giro di sei o sette anni un'importante fabbrica di motori e pompe idrauliche. A Siderno ricevono invece un rilancio il settore molitorio e quello pastaio. Molto peso continua ad avere il commercio all’ingrosso di materiali per l’edilizia.

L’articolato quadro delle attività produttive spiega come, tra forze operaie e bracciantato moderno in agricoltura, l’occupazione raggiungesse, negli anni Trenta, le 3000 persone, che con le rispettive famiglie rappresentano la fetta più grande, tra il 70 e 75 per cento dell’intera popolazione.

Siamo al punto centrale del nostro discorso. Da un secolo il lavoratore sidernese è un autentico proletario. Lavora per un salario, con cui acquista i generi di sussistenza. E nella realtà urbana il salariato non ha trincee dietro cui riparare. Se manca il lavoro, manca anche il pane. Certo Siderno è socialmente una realtà avanzata, sarebbe tuttavia fuorviante dimenticare che se la base occupazionale è ampia, la domanda di lavoro ha carattere stagionale. Le fabbriche non danno un’occupazione stabile. I lavoratori che godono del privilegio di un lavoro fisso sono una percentuale che non supera il quaranta per cento del totale. Il lavoro a giornata è il più diffuso. Il bracciantato agricolo, la manovalanza, il facchinaggio, tutto quanto è connesso con l’olio e gli agrumi, lo scarico di merci che arrivano per ferrovia e lo scarico di tronchi e di tavoloni che giungono per mare, danno luogo a lavoro a giornata. Il lavoratore sidernese è essenzialmente un pescatore prestato al commercio e all’industria. Qualche volta un contadino prestato alle fornaci, in altri casi un colono che combatte la pochezza della sua colonia andando a zappare "a giornata".

Non so se è questa particolarità che conferisce al proletario sidernese più intransigenza classista o più corrività lessicale. Egli disprezza e odia il padrone; quando può, mormora, e non sempre a bassa voce. In verità, disprezza anche i contadini, i tamarri. Le condizioni di esistenza non sono felici; permanente è il confronto con i settori benestanti. I salari sono alquanto bassi. Calcolando in rapporto al potere d’acquisto, quello di un manovale corrisponde al valore di quattro o cinque chili di pane. Se si tiene anche conto del fatto che a quel tempo le famiglie di sei o sette persone sono la regola, il quadro che vien fuori è alquanto grigio. Quasi nero.

Il contadino programma il suo lavoro e la sua vita alimentare – la sua stessa miseria – su base annua. Chi lavora a giornata, vive anche alla giornata. La condizione proletaria era profondamente diversa dalla condizione contadina anche sul piano morale e culturale. Il mondo contadino era fermo nel tempo, regolato da un rapporto a quattro, che sembra immutabile, o comunque immaginato tale: il padrone, il contadino, il podere e Dio. Il podere era del padrone, ma era lì da sempre, da un'eternità che si ripeteva ogni stagione e che nessun padrone aveva potuto costruire. Se Dio cambiava idea poteva diventare suo, del contadino. Una sostituzione cioè. Tutto qui.

Invece nel proletariato urbano l’idea di cambiamento è più articolata. In effetti l’impresa industriale o commerciale è un organismo fluido, che il padrone non solo possiede, ma dirige anche. Anzi deve ben dirigere, altrimenti essa va in malora. Ne consegue che il proletariato urbano imposta le sue idee su un processo produttivo completamente diverso da quello che domina nella vecchia agricoltura e nel rapporto colonico. Il movimento, il flusso controllato dalle umane decisioni regge l’organizzazione della produzione. Le relazioni hanno contenuti umani, sono disciplinate da regole giuridiche, in sostanza dallo Stato. Cosicché l'idea di cambiamento investe la generalità dell'organizzazione proprietaria, in una parola è socialista. Per un aspetto diverso, il proletariato locale vive in un contesto ancora paesano, in cui la comunicazione da porta a porta, da ruga a ruga rinsalda l’afflato classista fino a farlo colloquiale, umano, amicale, familiare. L’infelicità assurge a fatto collettivo, l’irrequietezza diventa politica, l’impazienza porta all’idea di rivoluzione. Mussolini, che non cessa di battere sul tasto della "nazione proletaria", lo rende più nervoso; smanioso di un risultato pratico. Se le leggi fasciste non avessero vietato le migrazioni interne, credo che il proletario sidernese sarebbe arrivato al Nord trenta anni prima. D’altra parte, chi aveva la fortuna dell’ingaggio marittimo già trasferiva l’intera famiglia a Genova.

Ma non tutti i salariati sono alla miseria. C’è un gruppo intermedio di meglio pagati, quali i capi-officina, le persone di fiducia, gli specializzati, gli artigiani, i contabili, gli autisti, gli esperti di campagna, i potatori, i ferrovieri ecc. Le loro famiglie non sono ancora borghesia a tutti gli effetti, ma non sono più proletariato. Il manipolo di socialisti della seconda generazione – Luigi Macrì, Mico Congiusta, Ciccio La Torre, Ciccio Surace - che sotto la guida di Nicola Palaja aveva vinto le elezioni municipali nel 1920 proviene essenzialmente da questo ceto. Era stata, quella, una vittoria decisiva, con la quale anche il fascismo aveva dovuto e doveva fare i conti. A Siderno non aveva potuto bluffare ri-cedendo il potere al notabilato giolittiano e alla consorteria massone, fra loro interconnesse, come era avvenuto e avveniva altrove. Per moltissimi anni, quasi un decennio, aveva potuto amministrare il Comune solo ricorrendo a un commissario prefettizio.

La conquista sabauda aveva punito anche la classe dei proprietari di terre che campavano sulla miseria dei contadini. La Prima Grande Migrazione aveva innalzato i salari, rettificato i rapporti colonici e rimpicciolito i margini della rendita fondiaria. Con l'evoluzione dei bisogni (in curva crescente, perché il Nord cresceva) e la dipendenza dal mercato settentrionale (con prezzi più alti, perché includenti un più alto tenore di vita) per il loro soddisfacimento, essa s'era fatta poca cosa. Nel Sud questa classe di redditieri alla bancarotta, simile a quella degli antichi cadetti per lo stato d'animo e il bisogno di una prebenda - che poteva essere persino un lavoro - era quella che più faceva opinione pubblica e che il fascismo aveva trovato conveniente battezzare e adottare, dopo che la Grande Guerra ne aveva fatto, contemporaneamente, la classe dell'ordine e la classe del disordine (in qualche modo anche gli "intellettuali" oscillanti di Gramsci).

Il fascismo-Stato nazionale nordista, più che mai ostaggio del capitalismo industriale, volle riportarla interamente all'ordine. A tal fine, la più importante fra le scelte politiche adottate fu la diffusione delle scuole sul territorio. Ma il Duce era un populista, e finì con l'aprire l’accesso ai curricoli superiori anche a giovani provenienti dalle aristocrazie proletarie.

In tale quadro generale, il liceo-ginnasio di Locri fu, per alcune generazioni, il cuore di questa parte di Calabria, il luogo dove si formò la generazione dirigente del dopoguerra. Il movimento convergente delle classi fondiarie che s’impoverivano e delle classi professioniste e impiegatizie, che si facevano più numerose, contribuì a livellare i figli della borghesia agraria in discesa e quelli del proletariato in ascesa. Negli anni Trenta, la decantazione era già largamente avvenuta: il possedere terre contava ancora, ma non quanto in passato, perché le entrate fondiarie, dopo la caduta del prezzo dell’olio e la crescita della domanda di agrumi, erano correlate agli investimenti capitalistici. Nell’assetto che il fascismo andava dandosi al Sud, i rampolli della borghesia fondiaria potevano fare assegnamento più che sulla rendita, sull’impiego e sulla libera professione. In tale quadro di aspettative, lo studio conferiva dignità alle attese sia dei rampolli della classe agiata sia a quelli che affrontavano la scalata sociale. Non era un percorso grettamente economico. Quella dei giovani del tempo si presentava come una rincorsa individuale al successo economico, o per dirla meglio, alla dignitas dell’uomo libero, tale per proprio merito.

A questo traguardo si arrivava al prezzo di un diuturno sacrificio, ingobbendo la schiena sui libri e soffocando gli impulsi e la vitalità giovanili. Una rinunzia dura, che si prolungava per l’intera infanzia e tutta la giovinezza. Compiuti, però, gli studi, l’umana dignitas era assicurata. Ciascuno la portava dentro di sé, nella sua conquistata professionalità.

Altro decisivo cambiamento (per altri aspetti negativo) fu l’allargamento della burocrazia statale. Il Sud, un paese senza più economia, senza capitali e senza crescita, anzi in regresso, va riempendosi d’impiegati (una cosa che non gli serve, a quel grado di sviluppo). Ora, in detto ecosistema sociale, il fatto d'essere uno stipendiato dallo Stato conferisce indipendenza, allenta le sudditanze locali, municipali e notabilari. Nella storia del socialismo sidernese (e ancor più vastamente, di quello reggino, il più consistente in Calabria), il ruolo dei ferrovieri – nel caso Macrì, Congiusta e Surace – era stato decisivo già prima del fascismo. Caduto il fascismo, la parte tenuta dal ceto dei laureati proletari, in particolare degli insegnanti, non sarà minore. A partire dal dopoguerra, infatti, l’amministrazione del paese sarà loro, con l’esclusione di altri ceti e gruppi, per oltre quarant'anni.

Sul finire dell’estate del 1943, con l’arrivo dell’esercito angloamericano, in Calabria l’attività politica riaprì in due modi diametralmente opposti. In alto riapparvero alla luce del sole le consorterie notabilari di ascendenza giolittiana, che il fascismo aveva messo ad ibernare. Nel Regno del Sud, la nuova classe dirigente nazionale (sub -nazionale), provinciale e locale, venne dai salotti e dalle conventicole antifasciste, verbiloquenti, inquinate e politicamente inconsistenti. In basso partì dal popolo, senza la mediazione dei partiti nazionali e degli infausti Comitati di Liberazione Nazionale, usando embrioni locali, schegge del vecchio partito socialista e del relativamente nuovo partito comunista. Le prime avevano un carattere, più che autonomo, autoreferente: l'Idea. Le seconde erano presiedute da Stalin, terza persona incarnata di una fede i cui seguaci provvedevano ad abolire i padroni. Fu, questo, un momento particolarmente felice dal punto di vista democratico (per quel che riguarda l'immedesimazione, l’unico veramente tale che io abbia visto in settant’anni di vita).

Un vistoso e malefico errore svuota, snatura e vanifica la storia dell'Italia meridionale. Esso consiste nell’inquadrare gli eventi meridionali in una prospettiva sedicente italiana, in effetti settentrionale. La borghesia meridionale, che potrebbe scrivere la storia del proprio paese, non lo fa perché sarebbe costretta a descrivere la sua estraneità al "suo" paese. Per non autodenigrarsi, esalta gli altri: i francesi e i piemontesi, come fece Benedetto Croce, o i russi, come si faceva dalle nostre anime belle al tempo di Togliatti, o gli americani, come si fa adesso. Comunque la liberazione dal fascismo è un caso esemplare di detta falsificazione. Qui la libertà politica, la democrazia, non fu collegata alla Resistenza in modo alcuno; del tutto, arrivò prima che la Resistenza muovesse i suoi primi passi, nel settembre 1943, con l’occupazione angloamericana (alleata, si cominciò a dire poco dopo). La conseguenza logica del fare storiografia in una prospettiva falsificata - scollata dalla realtà - fa sì che i mesi e gli anni che vanno dal luglio 1943 al giugno 1946 è come se non ci fossero mai stati (come del resto la vera storia del Sud, se di ben duecento anni di vita sudica non si riesce a ricordare altro che Luigia Sanfelice, Francesco De Sanctis e consimili personalità, che pure avranno i loro meriti, ma non in quanto inerenti alla storia del Meridione).

Invece, a partire dal giorno in cui un soldato angloamericano mise piede nel loro paese, nella loro città, nel loro contado, i meridionali cominciarono a muoversi. I fatti di Strongoli sono dell’ottobre '43, appena un mese dopo l’armistizio dell’8 settembre; tanto caldi che i carabinieri avevano ancora i fucili scarichi e al loro posto intervennero i marocchini. Difatti i carabinieri e tutte le vecchie autorità erano spariti dalla circolazione. Lo Stato era crollato. Tutti si rendevano intuitivamente conto che, sotto l'ombrello americano, una nuova società stava per nascere, così che le classi subalterne, ogni loro sottoclasse, ogni lavoratore capace di autorappresentarsi pensarono che fosse giunto il momento di conquistare più spazio nella società civile. I borghesi tremarono; i contadini, gli operai, gli artigiani erano in grande agitazione; gli intellettuali, come in ogni momento di crisi, presero chi a pendolare, chi a destreggiarsi. E siccome gli uomini – persino gli acefali terroni - non si muovono solo con le gambe, le braccia, i fucili e le roncole, ma anche con i pensieri, ebbero spazio le idee generali – quelle ereditate dal passato prefascista. E ci fu chi - ignorando la storia d'Italia - immaginò di piegarle agli scopi politici delle classi interne, ai bisogni repressi del Sud. (Più chiaramente, di dirottarle dalla loro antica funzione, che era stata e tornava ad essere, quella di coprire ideologicamente gli interessi regionali e colonialisti dell’area padana.)

Del moto contadino si sa quasi tutto. Infatti, una volta riunificata l’Italia e solennemente legnata la sinistra nel 1948, esso venne interamente recuperato dal PCI, che - in mancanza di meglio - volle elevarlo a momento epico della sua presenza nella vita meridionale. Negli anni della separazione nazionale, esso ebbe una consistente incidenza anche a Siderno e nella più vasta area della Valle del Torbido, ma non come moto per la conquista della terra. Oggi, pochi ricordano i Decreti Gullo, emanati dal governo provvisorio nel 1944. Essi prevedevano una ripartizione dei prodotti agricoli (fra colono e proprietario) enormemente più favorevole, che in passato, al coltivatore. Intorno a questo tema, che avrebbe dovuto essere soprattutto sindacale, si mosse il fiore della vecchia guardia comunista locale, zonale e provinciale, con in testa l’ingegnere comunista Enzo Misefari. Poté, tuttavia, fare poco sul piano sindacale e politico, perché l’organizzazione di base era ancora debole e la magistratura fieramente contraria. Ciononostante i decreti ottennero qualche successo sul piano legale, in sostanza individuale e familiare. E qui è proprio il caso di ricordare il ruolo degli avvocati; un ceto tipico del paese napoletano che da cinquecento anni era intricato in ogni questione che riguardasse il dominio sulla terra. In seguito conobbi parecchi ex patrocinatori dei contadini, ormai passati al meno modesto compito di parlamentari comunisti. E debbo dire che lì c'era, forse, il meglio del Meridione: la giustizia civile come prodotto della civiltà di un popolo antico, un impegno intorno a tutti i problemi così serio da divenire competenza specifica, il foro che tornava agorà.

Anche Siderno ebbe il suo avvocato dei contadini. Si chiamava Umberto Pedullà, che in appresso fu parecchio inviso al PCI. Rivedo come fosse oggi la folla di contadini parcheggiati, verso le otto del mattino, dinanzi al portoncino della sua abitazione e i capannelli, sempre di contadini, che gli si formavano attorno quando, finita l’udienza in pretura, l’avvocato attraversava (tentava d’attraversare) la piazza antistante. Erano contadini sidernesi e forestieri, anzi più forestieri che sidernesi, perché a Siderno abitavano alcuni grossi proprietari che avevano le loro terre nella Valle del Torbido.

Ma la sinistra nazionale, vinta la Resistenza, affermata la sua identità politica a tutti i livelli, divenuta la forza portante della democrazia italiana, preferì abbandonare alla Coldiretti la battaglia dei contratti in agricoltura e si dimenticò bellamente dell’illuminato Fausto Gullo, dell’irrequieto Enzo Misefari e anche del buon Umberto Pedullà. Perché? Perché lo scontro per la terra la metteva contro qualche decina di latifondisti soltanto, i quali - ben lieti di disfarsi delle loro terre marginali - facevano finta di resistere alle espropriazioni, per tirare su il prezzo; una cosa che gli riuscì in pieno mercé la mediazione del partito cattolico travestito (come nel corso dei due precedenti secoli, i Borbone, i Napoleonidi, i liberal-Avanti Savoia!) da ente di riforma fondiaria. Un’autentica battaglia sul riparto (sui contratti) la sinistra non la fece perché le avrebbe alienato simpatie fra la piccola borghesia possidente, ai cui voti - essa sinistra - non se la sentiva di rinunziare.

Comunque il moto contadino, tanto sul versante delle lotte per la terra, quanto su quello dei Decreti Gullo, non portava nuove idealità. Si muoveva nell’ambito della concezione borghese della proprietà. Niente di nuovo rispetto a quel che era avvenuto in Italia al tempo dei Gracchi, e prima e dopo di loro. Per capire fino in fondo gli ideali del contadino dell'età preindustriale la lettura di Verga è il miglior tracciato che io conosca. E non perché il contadino fosse gretto, ma perché non aveva l’idea di Stato, né quella di Stato ribaltato. La sua idea era di cacciare il padrone per pigliarne il posto. L’idea di Stato e quella di un "ordine nuovo" l’acquisì in appresso, quando il sindacato seppe fare d’ogni contadino giunto a Torino un uomo della collettività cittadina e nazionale (e persino un nemico e un dileggiatore del Sud, come ogni italiano che si rispetti).

L’idea di un ordine nuovo c’era invece - e ben matura - fra il proletariato urbano di Siderno. La tradizione non mancava, l’insostenibilità della miseria neppure, i quadri c’erano già. Anzi la dura condizione di puniti in quanto sovversivi, che i vecchi socialisti avevano subito durante il ventennio fascista, li aveva selezionati e qualificati. Nel partito socialista (allora PSIUP) che riprendeva a vivere, i vecchi artigiani e ferrovieri – Congiusta, La Torre, Pezzano, Sgotto - furono dei veri maestri. Venivano dalla scuola di Turati, ma sarebbe errato definirli riformisti. Erano piuttosto dei marxisti gradualisti e democratici. Non amavano venire a patti con i padroni, ma mai sarebbero andati contro le libertà del cittadino e mai avrebbero imposto un cambiamento che andasse contro le logiche della produzione. Mico Congiusta possedeva un’idea chiara del processo storico in atto ed era profondamente consapevole che città e campagna si muovevano su registri diversi. D’altra parte, all’atto di rinascere, fu come se, in paese, socialisti e comunisti si fossero divisi i compiti. Gli artigiani e gli operai qualificati con i socialisti, i contadini, i manovali, i braccianti con i comunisti. A mio ricordo, nella sezione socialista di Siderno c’era un solo agricoltore – un piccolo proprietario (o coltivatore diretto, come venne chiamata in appresso la categoria) – e neppure un contadino o un bracciante. Messa nei termini in cui il PCd'I la metteva, la questione contadina lasciava freddi i vecchi socialisti, alcuni del quali non amavano i contadini; un’avversione che si rafforzava in quella fase in cui il mercato nero pareva una colpa sociale della campagna. Ma il miracolo di quel passaggio storico scaturì dal compattamento – sia fra i socialisti sia fra i comunisti - delle classi del lavoro manuale con i giovani intellettuali che la scuola aveva formato nei decenni precedenti.

Nel 1944, Peppino Brugnano era un giovanissimo professore di latino e greco, figlio di un marittimo, che tornava in paese dopo essere scappato dalla Jugoslavia l'8 Settembre e dopo essersi sottratto alle retate tedesche nascondendosi in un convento romano. Come tanti era riuscito ad attraversare le linee e a portare a casa salva la pelle. Chi ha visto la guerra, e a maggior ragione chi l'ha fatta, e nonostante ciò ha continuato a credere negli uomini, ha in partenza l'animo saldo e una salda fede nella vita sociale.

Come altri giovani del paese, Brugnano, un qualche esercizio d'antifascismo l'aveva fatto certamente prima, con gli antifascisti del luogo. Diversamente che al Nord, nel Meridione i rapporti di amicizia e la parentela erano più forti dello spirito di fazione, anche di quello fascista. Protetti da tale cuscinetto sociale, gli antifascisti non incontravano soverchie difficoltà a fare della propaganda spicciola. Forse qualche altra spinta l'aveva avuta sotto le armi, comunque, egli tornò in paese già schierato e partecipò insieme ad altri suoi coetanei e ai vecchi socialisti del tempo di Turati e Matteotti alla rifondazione della sezione socialista. Era un tempo che la propaganda politica si faceva con i discorsi e i comizi. Qualunque formazione politica considerava un buon comizio come un successo politico. Bisognava saper parlare al pubblico, affascinarlo, coinvolgerlo. Brugnano, se preso dall'emozione, possedeva tale non comune dote. Infatti seppe dire le cose che in quel momento erano giuste e avvicinavano il socialismo a un nuovo messaggio cristiano.

D'altra parte, senza forzare sull'odio di classe, nei suoi comizi l'idea di appartenenza alla classe era marcata e convincente. Non meno convincenti era il progetto pratico che il partito socialista sottoponeva ai compaesani, purtroppo nella fiera avversione della gente corrotta che gestiva la federazione reggina e distribuiva le tangenti che essa già lucrava. Il progetto portava al primo punto la riapertura della Gaslini e i pubblici investimenti a favore di nuove iniziative industriali. Per dare l'idea dell'attesa che c'era in paese a riguardo, bisogna, a questo punto aggiungere che - in quella fase in cui tutt'attorno non c'erano che le devastazioni e le macerie prodotte dai bombardamenti - un giovane imprenditore del luogo, racimolando i pezzi fra i vagoni dei treni bombardati - era riuscito a mettere in piedi e ad avviare un saponificio alquanto grande, la cui produzione veniva spedita per mare, sulle paranze dei pescatori, in Sicilia e in altre zone del Sud.

Il gruppetto dei superstiti dell'età turatiana, ispirato dal maturo Congiusta, si rendeva conto che il moto contadino circostante - e prevalente in Calabria - lasciava interamente scoperto un centro come Siderno, in cui era il proletariato urbano a costituire la parte centrale della popolazione e dell'impegno politico. Da qui l'idea di riaprire la Gaslini in forza di un decreto prefettizio e con un commissario che curasse gli interessi del padrone genovese, separato dalla guerra. E siccome, per un aspetto diverso, il mercato nero dell'olio portava in paese già parecchio danaro, si avanzò l'idea che il Banco di Napoli finanziasse quella che oggi diremmo l'emersione dell'artigianato locale, che in effetti veniva a trovarsi di fronte a sbocchi impensati per il fatto che era interrotto il rifornimento di manufatti dal Nord. E non sto qui a raccontare quel che gli artigiani riuscivano a ricavare in quegli anni dalle navi affondate, dai velivoli abbattuti e dai carrarmati a cui una cannonata aveva spezzato i cingoli; e neppure a quel che i più svegli riuscivano a concepire, come ad esempio la riapertura delle Officine Meccaniche Bruzzese, con stabilimento a Locri, per la produzione di motori, pompe idrauliche e motociclette (avevano collaborato all'armamento del famoso transatlantico Rex, il più bello del mondo), le quali erano fallite insieme alla Banca Popolare di Gerace al tempo della Crisi degli anni Trenta (senza che nessun IRI, nessun Mussolini e nessun Beneduce provvedesse a tenerle aperte), i cui dipendenti più capaci - anche quelli venuti da fuori - erano rimasti a lavorare come artigiani proprio a Siderno.

Messi per quella via, si riuscì a formare un'alleanza elettorale tra i socialisti, i comunisti e la borghesia attiva, che vinse le prime elezioni amministrative (1946), letteralmente travolgendo la lista di gnuri. Primo eletto fu l'industriale che aveva creato il saponificio di cui sopra, il secondo fu Brugnano. Il paese s'aspettava che uno dei due fosse il primo sindaco del paese. Ma fu deluso.

Cos'era successo? Semplicemente questo: ai partiti servivano i voti e non serviva la politica. PSI e PCI aprirono i ranghi e si gonfiarono di masse di manovra eterodiretta da Roma attraverso le circolari e la stampa di partito. Da lì si chiedeva l'immobilismo paludato da frenesie verbali, e più d'uno dei freschi arrivati - che evidentemente aveva capito tutto prima degli altri - rimise, per la nuova occorrenza, l'antico abito d'Arlecchino.

La scissione di Palazzo Barberini nel 1947 (e ovviamente ciò che stava dietro) svuotò il partito socialista, che divenne una copia brutta e scalcinata del partito comunista. Forse peggio: una sciocca copertura dell'ambiguità (o, se preferite, della doppiezza) comunista; ogni federazione provinciale tenuta aperta mercé l'obolo della consorella comunista. Chi restò al suo posto lo fece sperando in un poi che non sarebbe arrivato mai. La Ricostruzione ebbe la sua normale interfaccia meridionale nell’emigrazione di massa. Non si mosse un solo alito di vento: né il vento del Nord, né il vento del Sud. La partigianeria della Ricostruzione fu il certificato notarile della subalternità della sinistra all’ingordigia padana, la prova provata che i partiti nazionali altro non erano al Sud che botteghini elettorali.

Inchiodato al posto di chi sa che deve tacere, Brugnano nel PSI rimase fino alla morte, parlando il meno possibile e sempre sottotono. Invece Congiusta sentitosi tradito proprio da quell'idea a cui aveva sacrificato il posto di lavoro e, per vent'anni, l'incolumità personale e il pane in famiglia, a un certo punto prese il cappello e se ne andò. Ma era ormai troppo tardi. Siderno non capì. Non poteva più capire. Integrata nella generale subalternità del Sud, i suoi intellettuali proletari ormai scambiavano il grigio per rosso e le giaculatorie elettorali per impegno politico. Alcuni consapevoli e comodi nel ruolo di ascari, altri ascari loro malgrado, hanno camminato verso il completo annientamento del loro paese, della loro terra e del loro popolo. E la storia sta già macinando il suo implacabile giudizio. O forse peggio.

Ciò che in appresso è stato chiamato il clima della Resistenza è una definizione che ci porta fuori strada, perché al Sud il passaggio del potere ai partiti antifascisti e prefascisti ebbe il sapore di una nuova versione della "conquista regia"; spense un travaglio sociale che, seppure senza testa, puntava alla fondazione di un nuovo Stato. Nel dopoguerra, a ottant’anni dall'unità, riemergeva il problema contadino, che l'Italia aveva affrontato alla rovescia, con le armate di Cialdini e La Marmora, ed emergeva il problema del lavoro manifatturiero che i pannicelli caldi della Grande Migrazione non avevano placato. Due realtà più che sociali, morali, che generavano speranze e ideali non coincidenti. La più avanzata venne imbavagliata, soffocata. Ed è facile spiegare il movimento oppositivo, anzi i due movimenti contrari che sommandosi fecero abortire quel momento genetico, fondante. Primo: il PSI esisteva già da cinquant’anni; in tutto il Paese disponeva di una forza che si fondava su interessi di settori identificati e di gruppi noti della società nazionale, primo fra tutti l’interesse a conservare sé stesso come centrale politica. Tradotto in termini provinciali e reggini, ciò vuol dire che sin dal 26 luglio 1943 il PSIUP era una squadra formata, con i suoi titolari e le sue riserve e che a Reggio, a Cosenza, a Roma, a Napoli, a Milano giocava per il potere e le sue prebende.

Due. L’istanza socialista sidernese, se era solitaria nel territorio zonale, era tuttavia comune ad altri luoghi, certamente non secondari, come Napoli, Torre Annunziata, Castellammare, Torre del Greco, Nocera, Salerno, Battipaglia, ecc., e poi Bari, Barletta, Taranto e decine di altri centri pugliesi, e ancora Crotone, Palermo, Catania, Messina e decine di altri luoghi in Sicilia. Alcune di queste città si atteggiavano a "roccaforti rosse", a "Stalingardo" del Sud. La sinistra, deliberatamente, non volle collegare questa realtà diffusa a macchie di leopardo in un grande fronte. Voleva soltanto i voti. Prima del 18 aprile 1948, essa raccolse a Napoli quasi un milione di dimostranti a favore del Blocco del popolo. Ma poi non ebbe i voti che si aspettava. Il fatto è che, i napoletani, neanche allora erano fessi e che, in ogni tempo, la fiducia bisogna meritarsela. L'anno successivo, un tardivo e spompato Piano per il lavoro, promosso da Di Vittorio, si rivelò subito per quel che era veramente: una giaculatoria pretesca. Un po'per il forte ritardo culturale della sinistra, un po'perché faceva comodo ai sindacati operai, che volevano nelle fabbriche una controparte capace di pagare i salari, al Sud il tema centrale dello sviluppo fu lasciato all'on. Cassiani, mentre la sinistra continuò a occuparsi del latifondo, soffiando su uno scontro che non c'era più ed evocando un quadro rozzo ed elementare di lotta politica, un inesistente scenario feudale e una visione pre-proletaria e pugacioviana di rivoluzione.

Forse Napoli e le altre realtà potenzialmente portanti del Sud avrebbero egualmente vinto la loro battaglia contro la concezione padana e confindustriale di un Sud subordinato al Nord, e quindi di una Ricostruzione al Sud successiva (rimandandola fino alle calende greche) al compimento della Ricostruzione al Nord, se quella battaglia l'avessero ingaggiata FUORI dei partiti nazionali. E' certo, comunque, che la scelta di non ricostruire il Sud fu vile e subdola. Tale da decretare il congelamento dell’inoccupazione e sovrappolalazione meridionale, e nel suo più modesto ambito, la riduzione del socialismo sidernese ad ammistratore dell'ordinario.

 

Nicola Zitara








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