L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Cuore di giornalista

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L’input è venuto dalla bella recensione che Luigi Vento ha pubblicato sui due precedenti numeri di la Riviera. Edoardo Scarfoglio mi ha riportato a Matilde Serao, al grande giornalismo meridionale (al loro tempo si diceva ‘italiano’), alle letture della mia giovinezza e alla recente (nel senso della terza età) conoscenza di Carlo Scarfoglio, uno dei loro figli, storico insolitamente coraggioso. 


Il testo che presento è tratto dal ‘Ventre di Napoli’ di Matilde Serao, pubblicato per la prima volta nel 1884. Raramente il giornalismo italiano ha toccato lo stesso livello. Per tal motivo mi piace indicarlo ai giovani che cominciano a cimentarsi con la carta stampata attraverso le pagine di la Riviera.

Carlo Scarfoglio ha scritto una storia della questione meridionale partendo dagli Italici, che venne pubblicata nel 1920. 


E’ una storia di parte unitaria, ma franca, coraggiosa e istruttiva per tutti, in quanto è ben noto che le storie scolastiche d’Italia saltano a piè pari sulla vicenda meridionale tutte le volte che possono, persino quando, il  farlo, non sarebbe dignitoso (per gli autori). Credo di fare cosa giusta invitando l’editore Franco Pancallo a ristamparla.


Nicola Zitara
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“Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz'aria, senza luce, senza igiene, disguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d'immondizie, respirando miasmi e bevendo un'acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline: onde il giorno di Ognissanti quando, da Napoli, tutta la gente buona porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi l'ha intesa gentilmente esclamare: o Gesù, vurria murì, pe sta ccà!


Questo popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei carri, che si adorna di penacchietti multicolori nei giorni di festa, che porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomodoro sopra sacco di farina, per ottenere un effetto pittorico e ha creato un monumento di ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco dell'acquaiuolo.


Questo popolo che ama la musica e la fa, che canta sì amorosamente e così malinconiosamente, tanto che sue canzoni danno uno struggimento al core e sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell'armonia musicale.


“Non è dunque una razza di animali, che si compiace del suo fango; non è dunque una razza inferiore che presceglie l'orrido fra il brutto e cerca volenterosa il sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl'impongono; saprebbe apprezzare la civiltà, visto che quella pochina elargitagli, se l'ha subito assimilata; meriterebbe di esser felice […] È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell'ozio, badate bene, ma la miseria del lavoratore, la miseria dell'operaio, la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno […].


“Le mercedi sono scarsissime, in quasi tutte le professioni, in tutt'i mestieri. Napoli è il paese dove meno costa l'opera […] E notate che la gioventù elegante di Napoli è la meglio vestita d'Italia: che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i migliori guanti. […]  “Fortunate quelle che trovano un posto alla fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti il mese; pure sembra loro una fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità.


[…] “Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.

Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent'anni ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.


Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant'anni, all'ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portato via il colera! […]


Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.

Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.


Me ne rammento una: aveva tre figli, uno piccolino, specialmente, bellissimo. Il bimbo aveva già due anni ed essa gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare: questo bimbetto l'aspettava, ogni sera, seduto sulla scalino del basso.


Diceva il medico dell'assistenza pubblica: «Levagli il latte, ché ti si ammala». Ella chinava il capo: non poteva levargli il latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una cucina e si lamentava, sottovoce: «Figlio mio, figlio mio, io t'aveva da accidere, io t'aveva da fa murì! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e chi m'aspetta cchiù, la sera, mocc'a porta?».


Matilde Serao

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