L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Recensione

La storiografia reticente
"Storia dell'olio d'oliva in Calabria"

di Augusto Placanica

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Augusto Placanica fa parte di quel gruppo di storici del paese meridionale, parecchio accreditati, il cui impegno è rivolto a cercare le origini della questione meridionale in un momento anteriore al 1860, il doloroso anno dell'azione garibaldina e del crollo dell'indipendenza napoletana e siciliana.

Tolto questo marchio d'origine, che, bisogna dire, nelle sue opere non va oltre il commento pervicacemente negativo dei fatti e delle situazioni riguardanti l'antico regno, le ricerche e gli studi dell'Autore hanno fatto luce su vicende importanti della storia calabrese, in particolare sulla creazione della Cassa Sacra, dopo il funesto terremoto del 1783, e sui processi sociali da essa innescati.

Il volume che qui sottopongo all'attenzione dei lettori (editore Meridiana Libri, Corigliano Calabro, lire 120.000) è un excursus storico sul rapporto tra l'olio e i popoli che hanno abitato e abitano la regione calabrese; un libro di lettura agevole, destinato al lettore medio.

Quella dell'olio calabrese è un'epopea a rovescio. Il punto di massimo splendore si ha, infatti, al momento dell'acclimatizzazione dell'ulivo in Italia, tra Locri e Sibari, le colonie megaelleniche che furono l'apice meridionale e settentrionale della Mégale Hellàs (nel significato geograficamente più limitato di quello corrente, che gli elleni davano al toponimo). Placanica entra nel racconto descrivendo la centralità che l'area assume nelle relazioni economiche e civili del Mediterraneo centro-orientale a partire dall'ottavo secolo avanti Cristo. La ricchezza eccezionale di Sibari, i suoi splendori, la spocchia dei suoi opulenti cittadini, che suggestionò tanto i greci di madrepatria da essere raccontata nelle loro produzioni artistiche, e che attraverso i millenni è arrivata fino a noi; e poi le forme che la coltivazione dell'olivo assunse nella pianura alluvionale posta tra il Crati e il Coscile; le relazioni competitive tra le varie aziende-poleis; le funeste inimicizie, la politica mite, quasi inerte adottata nei confronti del volpino espansionismo romano.

La conquista romana porta alla rovina tutte le città elleniche. Dopo averne assorbito l'avanzata civiltà (Graecia capta ferum vincitorem cepit), Roma vuole e ottiene il degrado della parte meridionale della penisola italiana. L'ulivo quasi scompare (i romani importano l'olio da altri luoghi d'Italia, dall'Africa settentrionale e dalla Spagna meridionale), il Sud italiano cade in mano al patriziato che vi impianta il latifondo schiavistico. "Latifundia Italiam (il Sud) perdidere", lasciò scritto, in un rigurgito obiettività, Plinio (in effetti, il Sud calabro-siculo partecipò poco o niente ai fasti romani).

Nell'età bizantina, con una popolazione ridotta a poca cosa, la ripresa dell'olivicoltura parte ad opera dei monaci basiliani, che giungono in Calabria dalle sponde orientali del Mediterraneo, più attivamente e "civilmente" coltivate. Si tratta, però, di una rinascita lenta e non sollecitata dalla domanda esterna, come era invece avvenuto nella fase originaria, ai tempi dell'Ellade. A causa degli impaludamenti costieri, fonte di malaria, l'ulivo deve risalire la collina. A partire, poi, dall'ultima età bizantina e dalla conquista normanna, comincia lo scontro con il gelso, che pretende il posto dell'ulivo. Per parecchi secoli la Calabria è la centrale europea della seta, tanto per la trattura quanto per la tessitura. Ma alla fine, per l'ulivo, arriva la rivincita dell'ulivo. La produzione di seta crolla. (Quando i tempi si fanno difficili, gli artigiani calabresi emigrano e insegnano l'arte ai lombardi, ai provenzali, agli inglesi, e non è per nulla incredibile che Renzo Tramaglino e Lucia Mondella - come qualcuno ha recentemente sostenuto - appartengano a famiglie di calabresi trasferitesi nel Comasco). Fattori della sostituzione sono: l'evoluzione dei rapporti di produzione all'interno del mondo feudale e la diffusione in Europa delle cotonine, molto meno costose. Siamo alla fine del Seicento e in pieno Settecento. Nell'ultimo quarantennio di tale secolo, nell'intreccio tra vicenda sociale interna e l'allargarsi della Rivoluzione commerciale, la produzione olearia riparte alla grande. L'economia calabrese entra con forza nel circuito del commercio mondiale.

Non trattandosi di un lavoro accademico, l'Autore può esimersi dal citare due opere in argomento, le quali, peraltro, sono come il fumo negli occhi per gli storici unitari: sia i sabaudi, sia quelli a cui la cerchia togliattiana ha appiccicato addosso una discendenza gramsciana, che non si vede da nessuna parte. Si tratta delle opere di

Ruggiero Romano, Le commerce du Royamaume de Naples avec la France e les Pays de l'Adriatique au XVIII siècle, Paris 1951, e di

Patric Chorley, Oil Silk and Englightenement - Economic Problems in XVIIITH Century Naples, Napoli, 1965. Le quali vanno parecchio a fondo su aspetti "non amati" della vita economica napoletana e sulla componente attiva della borghesia meridionale in età borbonica. E per questo motivo restano in lingua straniera e preferibilmente non vengono citate.

Lo sviluppo del commercio oleario ridisegna la geografia urbana calabrese. Con la discesa delle popolazioni collinari sulla costa (e il finanziamento che l'esportazione dell'olio offre) nascono, infatti, le Marine. Il fenomeno ha una forte valenza sociale specialmente sul Jonio, dove la distanza tra i centri medievali e il mare è maggiore che sul Tirreno.

Il libro di Placanica, bello, apprezzato e apprezzabile fino a pagina 138, imbocca poi la via della "reticenza", comune a tutta la storiografia italiana a partire dal Croce (il fatto merita una specifica trattazione, che farò a parte).

"Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere". I terroni debbono ignorare ciò che hanno dato allo Stato italiano e ciò che lo Stato italiano ha loro tolto. Specialmente i particolari della spoliazione.

Cosa tace Placanica?

Ecco una delle cose non dette. Tra il 1835 e il 1880, nelle terre del Sud italiano avvenne ciò che l'economista Manlio Rossi-Doria chiamò "una rivoluzione agraria". Fu una rivoluzione nel valore della produzione, che si realizzò attraverso un'estesa riconversione delle colture. Al posto delle feudali coltivazioni granarie, si espandono l'ulivo, la vite, l'agrume.

E' letteralmente un'esplosione produttiva e commerciale. Si tratta di un evento di valore fondante per l'Italia. Per tal motivo smentisce l'assioma secondo cui la questione meridionale sarebbe un'eredità del passato. Vediamo come. Nello Stato italiano appena fondato, le esportazioni meridionali contribuisco per il quaranta per cento delle entrate valutarie, mentre l'apporto delle esportazioni lombarde, piemontesi e venete di seta greggia cala in percentuale, perché il prezzo della seta scende. Sono infatti arrivate le sete giapponesi.

Negli stessi decenni l'incasso di valuta estera è vitale. L'Italia è paurosamente indebitata e i Savoia rischiano la bancarotta. Il ministro delle finanze Magliani dice: "Le esportazioni meridionali salvarono l'Italia".

Ma c'è qualcosa di più. All'atto della formazione dello Stato, in Italia non ci sono industrie, né c'è un capitale finanziario. La borghesia attiva è tutta agricola. Il progetto cavouriano di formare a Torino, con i soldi del contribuente (Cavour è liberale e liberista fino a quando non gli conviene il contrario), un apparato bancario e finanziario precede l'evento unitario, ma non approda a grandi cose. Queste grandi cose si verificano più avanti, quando Cavour è già morto, specialmente con la crisi della moneta aurea e con il corso forzoso della moneta cartacea. Questa viene stampata e messa in circolazione da banche private (principalmente torinesi) per conto dello Stato nazionale. Intanto lo Stato nazionale, indebitato fino al collo, emette titoli sempre più deprezzati. Anzi tanto deprezzati che per un Bot da 100 lire il tesoro incassa meno di trenta lire.

In questa situazione prefallimentare, i banchieri torinesi arricchiscono. Infatti comprano, con soldi che non hanno, ma che fu accertato stampano senza controllo, le cartelle del Debito Pubblico a trenta lire e poi le commerciano a 100 lire sulla borsa di Parigi, dove lo Stato italiano è costretto a rimborsarle in oro. In sostanza spendono zero e con la benedizione dello Stato sabaudo incassano cento lire oro.

In questo calderone di indegni intrallazzi, lo sforzo produttivo dei meridionali, tutto rivolto alle esportazioni, viene completamente vanificato. Infatti la valuta che l'olio e le altre produzioni meridionali incassano viene impiegata per coprire il deflusso di capitali, le importazioni di ferro, che al Sud non serve in quanto non ha più un esercito da equipaggiare, e quelle di grano, di cui solo il Nord è deficitario. Nonché a pagare gli interessi esteri e a rimborsare la rendita collocata all'estero. Al Sud tornano pezzi di carta inflazionata, che perdono capacità d'acquisto a ritmo giornaliero.

Non racconto queste italiche glorie a caso. Domando, ifatti: cosa avrebbe fatto, il Sud, se non fosse stato espropriato del surplus prodotto?

Intorno alla produzione e all'esportazione dell'olio, a partire dal Secolo diciottesimo, si erano formata una nutrita schiera di commercianti, e poi, dopo la Restaurazione, con l'esclusione della marineria genovese, nacque una flotta mercantile che divenne sempre più consistente; crebbe quindi un vero esercito di armatori, capitani e marinai. A Napoli, a Bari, a Otranto, probabilmente anche in Calabria, operavano importanti case commerciali francesi, austriache, inglesi. A Castellammare, che non era Napoli, ma solo uno dei tanti porti dell'hinterland napoletano, erano aperti ben sedici consolati stranieri. Può anche non piacere, ma c'era e c'erano.

Placanica stende un velo di pietoso silenzio su questi fatti che l'unità italiana ha azzerò deliberatamente.

Altro fatto, connesso con il primo. Con l'unità sabauda, l'Italia dominante, invece che costruire i porti di cui il Sud aveva bisogno, si dette a costruire ferrovie longitudinali che per le relazioni commerciali del Sud non erano profittevoli. Lo fece un po'per arricchire con la spesa pubblica la borghesia padana, un po'perché i bersaglieri potessero giungere in modo tempestivo sui luoghi dove i contadini ridotti allo stremo dal fisco insorgevano.

La marineria napoletana sparì come neve al sole, e così pure le case commerciali straniere; scomparve rapidamente - così rapidamente che a noi pare non sia mai esistita - l'imprenditoria commerciale e finanziaria napoletana. Al tempo di Giolitti, quarant'anni dopo la conquista garibaldina, il commercio dell'olio meridionale era già tutto in mano ai genovesi, arrivati qui in treno - e con sodi non sempre stampati in modo lecito, comunque guadagnati sul lavoro dei meridionali - a conquistare, con la benedizione dell'Italia unita, il ricco mercato oleario.

E' questo il capitolo che manca nel libro di Placanica.

 

Nicola Zitara

 

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