L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Antologia all’inverso (Nicola Zitara)

Gli storici italiani? Servitori della cospirazione toscopadana

Siderno, 5 Dicembre 2006

Il testo che segue è tratto dall’opera di Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie – Tutta la verità, edito da Controcorrente (Napoli,  2001). Il passo riportato include due citazioni, la prima di Lorenzo Giusso e la seconda  di Patrik K. O’ Clery, che sono virgolettate. 

“Tutta la storia dal Risorgimento in poi è avvolta dai travestimenti pomposi, dai paludamenti barocchi, dai grotteschi panneggiamenti d'una retorica democratica, radicale e giacobina.

“Per questa bizzarra trasfigurazione giacobina, tutti i movimenti emancipatori che dal 1821 attraverso il 1830, il 1848, il 1860 e il 1870 trassero impulso da minoranze selezionate, da élites d'intellettuali e di patrioti, a gruppi sparsi e sconnessi d'individui, sono rappresentati come «risvegli della volontà popolare», come «vaste insurrezioni delle masse», come «conquiste della coscienza unitaria» e di altri personaggi fantastici che se campeggiano nei trattati scolastici, non si sono mai rivelati allo storico disinteressato. Per questo paradossale artificio vaste masse corali si sono volute sovrapporre agl'individui, moltitudini anonime ai protagonisti facitori, irresponsabili impulsi collettivi ai veri attori del dramma unitario e si è voluta cambiare in fiumana giacobina quello che fu il travaglio aristocratico del Risorgimento.

“Occorre sgombrare la storia del Risorgimento dalle tinte rosee, dall'oleografia demagogica. Occorre soffiarne via tutta la teologia demo-massonica e umanitaria che gli storici impeciati di radicalismo vi hanno appiccicato.

“La bella favola del "grido di dolore" e dell'insurrezione popolare, infatti, non fu che una invenzione. Non esistette – a ben guardare – alcun risorgimento in quanto non vi era alcun motivo di risorgere: gli Stati preunitari erano abbastanza floridi prima del 1860 e più di tutti lo era il Regno delle Due Sicilie, con una economia protetta sì, ma comunque invidiata da molti. Basta considerare, lo ripetiamo, i dati oggettivi. Ci troviamo infatti alla presenza di fatti inconfutabili che dimostrano la superiorità legislativa, amministrativa ed anche economica del Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri Stati della penisola; ci rendiamo conto, tra l'altro, di come l'unificazione d'Italia risanò il debito pubblico del Piemonte, ma danneggiò irreparabilmente la prosperità meridionale. In altre parole, furono proprio i Piemontesi i beneficiari della "liberazione", almeno da quella dei debiti.

“Come è stato possibile, dunque, che uno Stato prospero, ben governato da un Re pienamente legittimo e pacifico sia stato assalito nella totale indifferenza dell'Europa? Vi sono varie risposte a ciò: una delle prime – e la più semplice – si chiama propaganda.”

Per giustificare l'aggressione agli altri Stati italiani, infatti, nel corso dei decenni precedenti l'Unità venne posta in essere una campagna diffamatoria avente ad oggetto in particolar modo lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. La definizione di quest'ultimo quale «negazione di Dio» fu il perfetto raggiungimento degli obiettivi di una campagna denigratoria che nella frase di Gladstone trovò la sua più alta e sintetica espressione.

Naturalmente alla calunnia dell'Inglese vi fu chi rispose, cercando di dimostrare l'infondatezza di quelle affermazioni – ma senza trovare altrettanto credito nell'opinione pubblica. Possono essere considerati, dunque, i vari Pasquale Borrelli (autore nel 1840 di un gustoso Saggio sul romanzo storico di Pietro Colletta), Giuseppe Buttà o Giacinto de' Sivo (per non parlare, nei decenni precedenti, del Principe di Canosa o del conte Monaldo Leopardi) precursori del revisionismo?

Riteniamo di no, perché a loro mancava quel distacco e quella lontananza – anche cronologica – che distinguono il cronista dallo storico. Dobbiamo aspettare circa un secolo e, dopo il periodo fascista, che ponendosi come prosecuzione del Risorgimento aveva esaltato a sua volta l'impresa piemontese, la voce della tradizione preunitaria tornò a farsi sentire.

Paradossalmente, ma non troppo, uno dei primi testi "filoborbonici" venne scritto da un piemontese, ufficiale dell'esercito italiano durante la prima guerra mondiale: Cesare Bertoletti, che con il saggio Il Risorgimento visto dall'altra sponda (Berisio, Napoli 1967) denunciò come menzognere le accuse sui pretesi degrado ed inferiorità del Regno delle Due Sicilie. Diciamo che non è del tutto paradossale che sia stato uno scrittore piemontese a parlare per primo delle malefatte del Piemonte durante l'Unità, perché se le critiche fossero giunte da uno studioso meridionale avrebbero più facilmente prestato il fianco alla critica di partigianeria e, quindi, di scarsa credibilità. Ecco perché quello di Bertoletti ebbe maggior riscontro di critica ed una diffusione in ambienti meno ristretti di quelli in cui circolavano i testi dei "revisionisti napoletani", vale a dire "al di fuori del Regno".

Per lo stesso motivo alla fine del secolo XIX si era fatta discretamente conoscere in Europa lo studio dell'irlandese Patrick K. O' Clery (1849-1913), volontario tra le file pontificie fino alla breccia di Porta Pia e quindi strenuo difensore della autodeterminazione irlandese dal suo seggio alla Camera dei Comuni, che analizzò dal punto di vista militare la campagna piemontese, mettendo a nudo il carattere di cospirazione politica che prevalse dopo la sconfitta delle insurrezioni del 1848, che O' Clery definisce la rivoluzione delle barricate. Il parlamentare irlandese, che scriveva a circa trent'anni dai fatti, si esprimeva senza usare mezzi termini:

[Dopo il 1848, che fu la rivoluzione delle barricate] “iniziava un'altra fase della rivoluzione: la Rivoluzione dei bureaux, pianificata nei Gabinetti dei ministeri [...]. Dobbiamo ora scrivere la storia delle sue prime vittorie in Italia; un racconto di tale infamia, perfidia e tradimento, tenebroso come pochi tra quelli riportati negli annali dell'umanità. Persino gli uomini delle barricate furono moralmente molto al di sopra dei cospiratori dei bureaux ministeriali. L'Europa, nella sua pagana ammirazione del successo, ha chiuso gli occhi troppo a lungo davanti ai crimini di Cavour e dei suoi colleghi; è tempo che la verità sia detta pienamente e senza paura. [...]

“Noi la giudicheremo [la Rivoluzione] non dalle invettive dei suoi nemici, ma dalle confessioni degli amici, molti di loro complici e alleati dell'arcicospiratore Cavour. Una sola cosa chiediamo ci sia riconosciuta: il principio da cui siamo partiti, e cioè che la falsità non diventa verità perché viene asserita da uno statista o da un re, e che il furto non cessa di essere disonesto e disonorevole quando il bottino è un intero regno.”






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