L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il Sud, tre volte sull'altare, tre volte nella polvere

di Nicola Zitara

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Siderno, 2 dicembre 2005

Fra  gli storici che inneggiano a Cavour e a Garibaldi, non tutti sono motivati da basso servilismo, e non tutti i giornalisti si vendono l'anima per uno stipendio. Forse la maggior parte di loro, nel registrare lo strano fenomeno del dualismo italiano, non riesce a darsi altra spiegazione che quella ritrita di un  meridione abbarbicato a costumi antichi e selvaggi. Idee del genere sono alquanto diffuse.

Sono passati ottant'anni da quando Gramsci, in un suo celebre scritto, cercò di spiegare, prima di tutto a sé stesso, la diffidenza che il proletariato torinese avvertiva verso i contadini sardi e meridionali vestiti in grigioverde, di stanza a Torino. In appresso la diffidenza si è elevata di tono (non si affitta a meridionali…) ed è vivace  ancora oggi (Stronzobossi e gli stronzi-leghisti). 

Ma perché, poi, sorprendersi tanto, quando noi stessi siamo severi… con  noi stessi? Vorremmo essere milanesi, genovesi, torinesi. I giovani nati in Settentrione da genitori meridionali - facilmente individuabili a scuola dal cognome -  si affrettano a giustificarsi: "Sì, è vero. Ma io no, io sono nato a Paullo."  E c'è persino chi rinnega il padre suo, come fece San Pietro.

Luigi Lombardi Satriani spiega che noi meridionali abbiamo introiettato la dipendenza. Ed ha ragione. Ma questo fenomeno incontestabile non dà una sola ragione del perché i meridionali e i settentrionali si avvertono nemici nel profondo.

L'italiano vero sarebbe  il  toscopadano. Gli altri si accostano sì e no. Centocinquant'anni di vita unitaria non sono bastati a superare i presunti 'ritardi storici' che il Sud portava con sé e che i perfidi borboni, nemici di ogni progresso,  non vollero affrontare. Siamo gente perduta, irredimibile,  che è meglio perdere che trovare. Se da noi non si fosse fermato re  Gioacchino, saremmo ancora al tempo in cui gli uomini si accoppiavano con le bestie.

Chi limita il giudizio al presente,  di regola addebita la colpa de 'i mali del Sud' alla cattiveria dei gruppi dirigenti e degli uomini di governo. 'Piove, governo ladro!' Spesso l'ho detto anch'io. Tuttavia una più matura riflessione porta a non separare il presente dal passato.

Partiamo da una constatazione. E' noto che il Sud ebbe  momenti  di grande splendore e che registrò autentici primati economici, civili e culturali. Credo di non sbagliare segnalandone tre. Uno di essi non disturba i sonni di nessuno, mentre sugli altri due si mette la sordina. O più esplicitamente, sono noti agli addetti ai lavori e taciuti con l'opinione pubblica.

Primo. Di Magna Grecia ci riempiamo la bocca, ma quando si va a cercare quello che fu e come finì, i contorni si annebbiano. Atene democratica, Sparta guerriera, la tragica Tebe, Itaca pietrosa, Achille, Ulisse, Ajace, Elena e Cassandra non spiegano Megale Hellas (la Grande Grecia). Siamo intorno al 300 a.C.  Atene e le altre città greche vanno decadendo.

C'è una sola strada per rinascere, quella d'incettare nuove risorse. Alessandro il Macedone prende il toro per le corna e aggredisce il nemico storico dell'Ellade, la Persia, madre di ogni ricchezza. Si spinge oltre l'Eufrate, verso l'Indo. Come risultato di una memorabile serie di vittorie, la civiltà ellenica si espande in tutto il Mediterraneo centro-orientale.

Dovunque, non solo lungo le sponde, fiorisce una cultura fine e moderna, non più nazionale o nazionalista, ma internazionale, l'ellenismo. Il Continente mediterraneo non ha frontiere.

Le capitali della vasta Comunità  sono Alessandria (d'Egitto) e Siracusa.

Domanda: Chi distrusse quella grande civiltà che portò il Suditalia (allora Italia soltanto) a un livello di civiltà più avanzato dell'attuale? Dispiacerà sentirlo, ma la risposta è Roma.  Ma perché, chiediamoci, tanta barbarie? Perché ammazzare Archimede, uno dei fondatori delle scienze fisiche, un uomo di cui Copernico, Newton ed Eistein, sono solo i continuatori?

Il perché è questo: solo al Sud  Roma avrebbe trovato le risorse necessarie per difendersi dai barbari padani. In verità Roma non distrusse soltanto Cartagine, come si legge comunemente nei libri di scuola, ma anche la civiltà e soprattutto la libertà del mondo italico, e utilizzò il primo disastro storico del Sud per finanziare la romanizzazione della Valle Padana, per edificare una cinta muraria intorno a Piacenza, per recingere un castrum che in appresso si chiamerà Mediolanum,  per mettere Virgilio, mantovano, in condizione d'imparare il greco e di comporre - una volta appreso il concetto - elegantissimi versi in lingua latina. 

Per dirla in due parole, Roma inaugura una bilancia politica e culturale valida in eterno: i costi da affrontare, per innalzare il Centronord, vanno scaricati sul Sud. Non è vero che Roma abbia unificato la penisola. Fu un romano, e non altri, a scrivere: "Latifundia Italiam perdire", dove Italia corrisponde al Suditalia, mentre i padroni dei latifondi non si chiamano barone Poerio Paparo o Baracco, ma gens Julia, gens Popilia, gens Duilia, romani di stirpe senatoria; famiglie di grandi usurai e di grossi padroni di schiavi ingrassatesi con il sangue dei milites quadrati, i poveri coloni a cui, dopo venti anni di servizio nelle legioni, se tornavano vivi in paese, veniva assegnato come ricompensa un campicello di poche are, il quale, poi,  veniva regolarmente venduto a un qualche civis pleclarus  dai figli indebitati.    

Amor di patria (italiana) pretende che nozioni del genere siano nascoste alle menti dei giovani. Inquinerebbero  l'albero genealogico dell'elmo di Scipio!

Secondo. E' limitativo soffermarsi soltanto sui bersaglieri di Cialdini e sul brigantaggio. L'assassinio di Archimede e la morte in battaglia di Manfredi ci dicono ben altro circa la concezione politica che ispira da sempre gli italiani 'altri'. Nella seconda aggressione, Roma non è sola. Le stanno attorno i Comuni  toscopadani (i guelfi) ingordi di prede meridionali.

Sopraffatto dai barbari nel quinto secolo dell'era volgare l'Impero Romano d'Occidente crolla. Qualche decennio dopo arriva in Italia l'esercito inviato da Giustiniano, l'imperatore romano d'Oriente. Nel tentativo di riconquistare (o non perdere definitivamente) l'Italia, in mano ai barbari europei, i bizantini rimangono in Italia seicento anni, dal Quinto all'Undicesimo secolo d. C.

Sono i secoli bui. Dei tempi in cui l'Italia viveva riccamente, in virtù dei tributi che Roma estorceva in tutto l'impero, è rimasto poco o niente.

Persino il ricordo del passato si è offuscato. Soltanto i colti  ne sanno qualcosa: notizie di seconda mano, mediate dagli storici greci e arabi. L'Italia è impoverita, imbarbarita. L'agricoltura, la manifattura, le città sono tornate duemila anni indietro. 

L'ignoranza dilaga. In tale desolato panorama, soltanto al Sud si conserva, per effetto del legame con l'Oriente, qualcosa del vecchio ordine - per esempio gli scambi di mercato, la produzione artigianale, gli elementi imbalsamati dell'antico sapere. Più fortunata la Sicilia, che vede restaurata l'antica civiltà ad opera degli arabi.

Tuttavia la decadenza del Sud non va confusa con la barbarie dominante al di là del Garigliano. Lo testimoniano cento cose, soprattutto il fatto che a fondare e a operare nei primi centri di livello universitario che il Papato avvia  - Grottaferrata e Montecassino - sono dei monaci arrivati dal Suditalia.

La centralità del Sud nell'esportazione di manufatti, che vengono richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata. Accanto alla splendida Palermo e alla altre città siciliane, fioriscono Napoli, Amalfi, Bari, Mola, Rossano.

Sui territori in mano ai bizantini, i centri marinari  godono di una considerevole autonomia politica. I marmi che i papi romani importano per edificare nuove cattedrali vengono trasportati da navi amalfitane. La flotta di Amalfi si schiera in battaglia nelle acque di Ostia, a difesa del papa,  e batte i saraceni.

L'architettura e la scultura decorativa dell'età classica ritrovano alimento nella ricchezza dei commerci.  Chi ha qualche dubbio su questi primati può facilmente toglierselo leggendo qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio e, se non sa leggere, facendosi un giro turistico per il Barisano e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti che, altrove, hanno distrutto quasi tutti i ricordi del passato.   

Come e perché si esaurì questo corso, se non propriamente grandioso, quantomeno promettente?

Anche in questo caso  fu  la stessa Italia a concepire e a condurre l'operazione d'annientamento. La vicenda è connessa con le Crociate. Il Sud del tempo è una società aperta, la gente non fa questione di pelle, è tollerante in materia religiosa, i cattolici seguono il rito ortodosso, la messa viene celebrata in greco, l'imperatore d'Oriente ha il diritto di mettere una mano nella nomina dei vescovi, i monaci basiliani si sono insediati nei centri jonici e in Sicilia, in molti luoghi si parla  greco e non si raccolgono oboli da mandare a Roma. E se questo non basta, gli arabi - che sono una seria minaccia per i regni barbarici d'Europa - al Sud non sono accolti male.

Ciò disturba la Chiesa romana. Il papa, integratosi nella logica dei regni europei, non gradisce le interferenze dell'imperatore romano d'Oriente.  Per altro, è maturata fra la gente una nuova idea di sé, che è alquanto primitiva. Rolando, il mitico vincitore degli arabi, assurge a nuovo eroe delle stirpi germaniche romanizzate, che nell'epos collettivo  prende il posto tenuto da Achille e da Ettore. Bisognerà che Dante Alighieri e gli altri componenti del suo circolo poetico assorbano la lezione che sale da Palermo, perché  Omero e Virgilio tornino in auge.

I papi e i re d'Europa pensano che a migliore difesa  dell'Europa e del Papato sia necessario spezzare il Continente mediterraneo, e siccome il Sud ne è la punta avanzata, bisogna che esso diventi una colonia d'Europa. Il compito viene affidato ai normanni, i quali s'impadroniscono del Paese, ma  avviano l'opera  d'imbarbarimento con visibile perplessità.

Una volta padroni di questa terra, a loro non  conviene più condurla a rovina. L'esaurimento della dinastia regnante porta sul trono di Sicilia Federico II, che eredita anche il trono imperiale in Germania.

A questo punto il disegno di separare il Sud dal Medirerraneo Orientale è messo in serio pericolo. Il nuovo re, obbedendo alle istanze provenienti dalla progredita collettività siciliana, progetta, per primo al mondo, uno Stato modello: laico, robusto nelle istituzioni, aperto al progresso e in pace con gli arabi. Ma è proprio quanto non serve alla Chiesa e ai toscopadani. Federico viene fortemente contrastato.

Non vince e non perde, anche perché muore in giovane età. Suo figlio Manfredi, che tenta di unificare l'Italia, perisce in battaglia. Gli altri successori di Federico cadono per mano francese. Per il concerto delle nazioni barbariche e per i liberi comuni italiani, il Sud sale alla dignità di colonia d'Europa. 

Nel corso dei cinque secoli compresi tra il tempo in cui Dante era un giovanetto a quello in cui si spegne a Napoli  Gianbattista Vico, il Sud percorre un cammino a ritroso, taglieggiato com'è dai baroni francesi e spagnoli, e impoverito dalle usure genovesi e fiorentine. Il ritorno all'indipendenza nazionale, nel 1734, è preparato da un moto, detto impropriamente 'illuminismo napoletano', e che meglio chiameremo 'riformismo napoletano', di cui la dinastia borbonica si pone come garante e guida operativa.

Chi ha qualche dubbio si rilegga le belle pagine (pubblicate da Riviera del ???????) che Benedetto Croce - di cui è ben noto il cavourrismo e il sabaudismo - dedica a questo passaggio della storia politica napoletana. I Borbone cercano di portare il paese alla modernità commerciale e industriale, e di difenderlo dall'Inghilterra e dalla Francia, che sventolano bandiere liberali e ugualitarie, ma sottobanco sgraffignano tutto quello che arriva loro a portata di branca.

L'indipendentismo borbonico è mal digerito. Francia e Inghilterra non lo tollerano. Quasi una tacita congiura tra patrioti meridionali, scaltri politicanti torinesi e incalliti diplomatici inglesi, stronca l'intelligente e generoso tentativo di modernizzazione. Il Sud riprecipita nelle grinfie  della politica europea, impostata  sulla crescita attraverso la colonizzazione,  e diventa nuovamente un territorio di pascolo aperto alle usure toscopadane.

Per merito dei poeti e degli studiosi, e specialmente  per merito (o demerito) della Chiesa romana  gli italiani hanno elaborato una lingua comune e sedimentato una tradizione consimile. Ma non unitaria. Le due parti del paese  sono state assieme politicamente soltanto per qualche secolo, dal regno di Tito a quello di Costantino. Sin dal tempo della prima colonizzazione greca esistono due formazioni sociali, due Italie, una che viene dal mare e una nata dalla terra. 

Roma, alle origini città etrusca o largamente etrusca,  si é  estesa verso nord, fin oltre le Alpi,  ed è ancora la postazione più meridionale del continente politico e militare Europa. A sud di Roma, la società si apre  quando arriva un contatto dal mare, e si gela quando a realizzare il contatto è il Nord.

L'alterità è persino anteriore a Roma ed è testimoniata dallo scontro tra una flotta etrusca e una magnogreca nel Golfo di Gaeta. Questa alterità è tuttora visibile. Basta guardare una cartina geografica, per rendersene conto. 

Tra il reticolo metropolitano che si affaccia sul Golfo di Napoli e il reticolo urbano della Bassa Padana, se in mezzo non ci fosse Roma (in pratica il papato), si vedrebbe un forte calo di densità urbana. Il fatto era ancora più evidente prima che Roma divenisse la capitale del Regno d'Italia, nonostante che per millenni l'Italia fosse stato il paese più densamente popolato dell'Occidente.

Quindi due formazioni sociali scarsamente comunicanti fra loro, e solo debolmente integrate sul terreno politico e sociale ad opera della Chiesa romana e del fascino di Dante.        

Questo Sud che,  non ascoltando i buoni consigli di Giorgio Bocca,  potrebbe precipitare dal suo piedistallo italiano nel deserto del Sahara, non è mai stato Europa, ma una colonia desertica d'Europa. Il generoso tentativo di Federico II di fare dello Stato un'opera d'arte si è esaurito con l'inconsistenza di un sogno e la buona volontà dei dinasti Borbone, di allentare la morsa della colonizzazione europea, si è spenta con il tradimento della classe baronale e sotto l'onda del loro finto liberalismo.    

Oggi, non c'è un solo aspetto della vita sociale che non sia impantanato. La disoccupazione imperversa sin dal giorno in cui i bersaglieri risorgimentarono l'ordine padanista nelle Fonderie di Mongiana e nello stabilimento di Pietrarsa. Da quel lontano anno il Sud italiano ha ininterrottamente prodotto   milioni di disoccupati, interminabili eserciti di emigrati, dilaganti cosche mafiose.

Il sogno esogeno di pane e companatico oggi è off limis. La valvola di sfogo è chiusa. Anche l'altro corno dello storico dilemma  'o emigranti o briganti', come dire la sollevazione popolare del paese, è inconcepibile.

Anche la Chiesa, che al tempo di Pio IX aveva difeso i suoi privilegi, è passata dall'altra parte. Per giunta il sistema politico italiano prevede che i moti popolari meridionali possano avere dignità politica solo se ispirati e diretti dai partiti padanisti, untuosamente definiti nazionali.

A qualche militante della vecchia sinistra brucia ancora sulla pelle lo sbarco a Reggio Calabria dei venti o trentamila metalmeccanici guidati dal resistenziale e liberator d'Italia, Luciano Lama, per fustigare come fascista una rivolta inequivocabilmente  di origine popolare.

Quanto ai politici, non c'è da fare assegnamento. Il sistema italiano non lascia loro altro spazio che l'uso inverecondo del pubblico danaro. Le cose stanno anche peggio fra la gente comune. La mobilità sociale è possibile solo nel quadro della corruzione o con l'impiego della lupara.

Le  aziende private hanno la teorica libertà di sopravvivere, ma  soltanto negli  spazi lasciati vuoti dal capitalismo toscopadano. E solo se si appoggiano alle armi. In effetti, non ci resta che la mafia, strumento consono agli affari dell'azienda-Italia, perché inonda di narcodollari la millenaria usura padana. 

 
Nicola Zitara









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