L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il carattere dei calabresi

di Antonio Orlando

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26 Dicembre 2011


Calabrese è di solito associato a “testa dura”, testardo, caparbio. A questo aggettivo non si accompagnano (o, almeno, non si accompagnavano prima dell’attuale ondata razzista e discriminatoria inscenata dai leghisti) connotazioni particolarmente negative né si dà il significato di scarsa elasticità mentale, al massimo si parla di un carattere ostinato, duro, chiuso, crudo, deciso. Altri descrivono i Calabresi come bugiardi, ciarlatani, millantatori, dotati di una carica di aggressività che qualche volta sfocia in un furore mistico. Gramsci in “Letteratura e vita nazionale” (uno dei Quaderni del carcere) scrive, che i calabresi sono gente dal carattere temprato come l’acciaio. Corrado Alvaro invece scava più in profondità e coglie bene le contraddizioni. Il calabrese riesce ad essere primitivo e raffinato, patriarcale ed avventuroso, taciturno e riflessivo, egoista e generoso, capace perfino di slanci verso l’inconoscibile e il cielo; in preda a feroci passioni ed insieme in grado di discettare di questioni filosofiche o di argomentare con cavilli sottili ed affinati. A volte umile e sottomesso, altre fiero, altero, audace ed arrogante. Qualcuno ritiene che per capire i calabresi bisogna guardare al paesaggio, alla vegetazione, al clima, agli odori, ai sapori del territorio poiché la nostra vera essenza, quella più autentica, è intensa e passionale. Saremmo, secondo costoro, un popolo in grado di mettersi in competizione perfino con se stesso, troppo orgoglioso per farsi dominare, risoluto nel riaffermare la propria indipendenza fino al punto di abbandonare la propria terra pur di non umiliarsi ed inchinarsi. Nostalgico e tradizionalista, individualista e “anarchico”, il Calabrese ha  forte in se il senso della famiglia, dell’onore, della rettitudine e questi valori trasmette ai propri figli e discendenti. Non so se tutto questo corrisponda al vero o sia il frutto di una idealizzazione di maniera o, addirittura, letteraria, in ogni caso presenta il fascino degli opposti.

Da parecchi lustri, però, l’immagine che diamo di noi stessi è quella di piagnoni del tipo di quelli che intonano continue, noiose e rituali lamentazioni e piagnistei, che imbastiscono delle sceneggiate da perfetti commedianti, anzi da “tragediatori”, termine che non ha equivalenti nella lingua italiana, ma che esprime meglio e più di commedianti lo stato d’animo di tali soggetti.  Certe volte, in alcuni servizi giornalistici – TG3 Regione, in testa – appaiono delle persone di condizioni modeste se non al limite dell’indigenza, che si lamentano della loro situazione di disoccupati o di emarginati però se son donne hanno le unghie perfettamente laccate e se son uomini fumano ostentatamente. Circolano sulle  strade della regione più povera d’Europa (abbiamo superato anche l’Allentejo) migliaia di macchine di lusso e di SUV e fuoristrada di ultimissima generazione. Se si fa un giro per i nostri paesi e per le nostre contrade si può notare che le strade sono perennemente dissestate, piene di buche, ai bordi sono ammonticchiati sacchetti di spazzatura, le cunette sono invase dalle erbacce; nei paesi le case si affastellano l’una sull’altra, le facciate non esistono o hanno l’intonaco scrostato, molti fabbricati sono dei rustici mai completati, le coperture di eternit la fanno da padrone, i rari monumenti sono ricoperti da erbe infestanti o cadono a pezzi, il verde pubblico è inesistente, gli arredi urbani sono stati distrutti, di sera l’illuminazione semplicemente non esiste. Dappertutto incuria, abbandono, sciatteria, disinteresse, un degrado veramente incivile, che certo non ci fa onore e che fa a pugni con quanto detto sopra. Se provi a sollevare il problema e ti azzardi a dire che magari è colpa del sindaco, dell’amministrazione comunale o della provincia o della regione, quegli stessi cittadini, ti guardano o come un alieno o come un nemico. Poi scopri che sono stati a lavorare all’estero o in qualche città del Nord e allora, spontaneamente iniziano a far paragoni e confronti, cominciano a magnificare la splendida condizione di quelle località, pontificano sulla civiltà di quelle popolazioni e concludono maledicendo il giorno in cui sono dovuti rientrare al paesello natio dalla Svizzera o dalla Germania o dalla Francia o dal Belgio o da Milano. Se osi chiedere come mai non possiamo essere come questi popoli civili ed avanzati, la risposta è o un assordante silenzio o l’interlocutore allarga le braccia e si limita a fare spallucce. Non c’è mai qualcuno, sindaci per primi, che si sia sognato di dire, rimbocchiamoci le maniche e rendiamo più vivibile l’ambiente entro cui quotidianamente trascorriamo le nostre giornate. Siamo poveri, ma perché dobbiamo essere anche sporchi? Non vale la pena toccare la situazione delle strutture e dei beni pubblici come gli edifici scolastici o gli uffici tanto ognuno si rende conto da se stesso dello stato d’immenso degrado in cui sono tenuti.

Fuor di metafora: da u lato noi calabresi non ci attribuiamo nessuna responsabilità in ordine alla nostra condizione e al nostro status e dall’altro riteniamo che non esista un diritto di proprietà pubblica o meglio, non esista un diritto di uso pubblico da trasferire anche alle generazioni successive. Miopia ed egoismo insieme. La colpa, quando non è del fato, del destino “cinico e baro”,  è sempre degli altri ed il meccanismo funziona come uno scaricabarile inverso cioè dal basso verso l’alto. Se accusi il sindaco questi dirà che è colpa della provincia, la provincia dirà che è colpa della regione, la regione dirà che è colpa del governo, il governo dirà che tutti i nostri guai sono causati dall’aver aderito prima alla Comunità Europea, poi all’Unione Europea  e poi all’euro.  C’è anche qualche variante come quella di prendersela con il prefetto o con qualche singolo ministro oppure con soggetti evanescenti, con entità del tipo “le multinazionali”, “la massoneria”, “Osama bin Laden”, non ben identificate “lobbies” e a questo punto manca solo la Spectre dalla quale potrà salvarci, come al solito, un James Bond di turno.

Naturalmente aspettiamo sempre che siano gli altri a proporre, ad agire, ad intervenire, in una parola a toglierci le castagne dal fuoco, noi ci guardiamo bene dal mettere il classico dito nella ancor più classica acqua fredda e se, per caso, per strada mi viene tra i piedi una cartaccia mi guardo bene dal raccoglierla e buttarla nel primo cestino – ammesso che esista – che mi capiti a tiro. Tutto questo lo si può pure chiamare mancanza di senso civico, ma, per quel che mi riguarda, dico che si tratta semplicemente di totale irresponsabilità o se volete di maleducazione, di cafoneria, ma non quella dei vecchi contadini che erano persone perbene, bensì quella dei parvenu, quelli – per dirla sempre con un proverbio -  che “’u culu chi non vitti mai cammisa, appena ‘a vitti sa cacau”.  Ancor più deleterio è il giustificazionismo “presunto-di-Sinistra”, quello che sostiene che il Calabrese è anarchico, è ribelle, è allergico ad ogni regola e disciplina perché è troppo libero, perché ha uno smisurato senso della libertà, dell’onore e della valentia personale. L’Anarchia è una cosa troppo seria per poterla lasciare nelle mani dei demagoghi ed il rispetto degli altri e per gli altri non mi rende certo meno libero di quanto mi possa rendere il sentirmi e l’essere uguale agli altri. Infine il rispetto degli altri, la stima e la considerazione sono una conquista e non posso certo imporlo con la forza o con il terrore.

Siamo ancora un popolo bambino, incapace di assumersi, concretamente e fino in fondo, le proprie responsabilità, perennemente in attesa che un biglietto della lotteria o una sequenza di numeri (o un “padreterno” di turno) ci risolvano tutti i problemi da quelli economici a quelli esistenziali. Si è mai visto qualcuno che sia andato a chiedere il conto? Si è mai visto un calabrese che si sia presentato dal sindaco del proprio paese a domandare notizie sulla gestione del bilancio comunale? Non si può costruire un’idea di cittadinanza, che presuppone un senso dell’appartenenza, quando mancano le basi minime ed essenziali della convivenza civile. Si dice che abbiamo smarrito la nostra “identità”, che essa ci è stata sottratta prima dai francesi e dai Giacobini, poi da una aristocrazia rapace, poi dai piemontesi con l’unificazione, poi da una borghesia parassitaria venduta agli interessi nordisti e in ultimo dalle ideologie del ‘900, nazionalismo, fascismo, socialismo, comunismo, che hanno creato solo illusioni. Dunque dovremmo incamminarci lungo “le strade di un’identità soppressa” alla ricerca di un Eden perduto o verso la riconquista di una terra promessa.

Se l’identità collettiva è la coscienza della propria individualità e personalità, noi calabresi, ammettiamolo, in realtà non l’abbiamo mai avuta un’identità, né abbiamo mai combattuto per veder riconosciuta la nostra identità. E del resto che coscienza collettiva dovrebbe avere un popolo che annovera tra i suoi proverbi più antichi e più significativi uno che recita: “rroba i guvernu, ‘cu non futti vaci o ‘mpernu”?  Gli Inglesi, sull’onda di quanto scriveva nel 1851 sir W. E. Gladstone,  continuano a pensare che la Calabria sia una specie di paradiso terrestre abitato da demoni e noi ci annoiamo perfino a tentare di far loro cambiare idea.









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