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ZITARA E L'INVENZIONE DEL MEZZOGIORNO

Mino Errico


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Rimini, 11 febbraio 2011

Esiste sulle provincie napolitane una pubblicistica sterminata. A partire dai primi pamphlet unitari o anti-unitari (di Francesco Durelli e altri) fino a giungere a “Terroni - di Pino Aprile si contano migliaia di saggi, studi o pretesi tali.

Nonostante qualche lodevole eccezione – ci viene in mente solamente il Nitti – si tratta di opere a tesi precostituita: le provincie napolitane versavano nella più cupa miseria, lanciarono il loro grido di dolore (un grido suggerito da Napoleone III e italianizzato dal lacchè Massari) e il Re Galantuomo lo raccolse inviando il suo tirapiedi (alias Garibaldi Giuseppe eroe di tutti i mondi possibili) che le liberò dalla oppressione e dalla miseria. Anzi no, solamente dalla oppressione, nella miseria ci sono ancora.

ZITARA E L'INVENZIONE DEL MEZZOGIORNO

L'opera di Nicola Zitara – L'INVENZIONE DEL MEZZOGIORNO - Una storia finanziaria, Editore Jaca Book, gennaio 2011 – giunta nelle librerie in questi giorni di febbraio vuol dimostrare che questa miseria è conseguenza diretta di quella liberazione. Prima e dopo Nitti nessun altro si è cimentato in una simile impresa: fare i conti dei costi economici della unificazione. Tutte le opere che noi conosciamo o sono parziali o sono partigiane.

Quello che colpisce subito quando si prende fra le mani il testo di Nicola Zitara è la dedica: “In ricordo di Fabrizio Ruffo, eroe dissacrato della nostra indipendenza�. Una prima provocazione al codinismo intellettuale imperante nelle nostre accademie. Una scelta di campo netta, senza distinguo né tergiversazioni. Dalla parte di uno stato indipendente, quello borbonico, che era meridionale, per i meridionali, con delle proprie leggi, istituzioni, banche.

Figura assolutamente originale nel panorama del cosiddetto meridionalismo di sinistra (termine che adoperiamo per farci intendere, a Nicola non piacerebbe certamente), Zitara ha speso gli ultimi anni della sua vita per consegnare alle generazioni future dei giovani nati al disotto del Tronto un'opera che dimostrasse in modo inequivocabile la origine del disastro meridionale.

Questo si proponeva di fare, ce lo ha confidato in più d'una occasione, questo ha fatto, scrivendo e riscrivendo quelle che son poi diventate oltre quattrocentocinquanta pagine di cifre, tabelle e analisi, scritte con una prosa che sfiora a volte l'invettiva ma si mantiene argomentativa, sempre dati alla mano.

A prima vista la mole del libro spaventa e se lo si sfoglia spaventa ancor di più, con tutte quelle tabelle dense di cifre e percentuali, ma se provate a leggere qualche frase non riuscirete a staccarvene e ve lo porterete a casa e per sistemarlo laddove tenete le vostre letture preferite.

Infatti è un testo che si può leggere anche sorvolando sulla parte più spiccatamente economica che a taluni può risultare ostica. Ve ne riportiamo qualche brano esemplificativo:

Il meridionale che cerchi le cause del disastro sociale e morale in cui vive, sbaglia se crede di trovarle nell'indirizzo politico tutt'altro che speciale del governo borbonico, o nel carattere, anche questo tutt’altro che speciale, della società meridionale. Si tratta puramente e semplicemente di alibi escogitati dalla storiografia patria per nascondere la struttura colonialista dello Stato unitario.

[...]

Al Sud fu imposto d'abbandonare sia il modello tracciato dai riformatori napoletani del Settecento, a favore della piccola proprietà conduttrice, sia il dirigismo industriale immaginato da Luigi de' Medici sin dal 1818. (Cfr. Pag. 1)

Il sistema bancario napoletano, fondato su una banca centrale contemporaneamente raffinata e affidabile, che svolgeva egregiamente (e inavvertitamente, ma senza danno per alcuno) tale compito, fu cancellato con un tratto di penna dall'occupante toscopadano. Nonostante la violenza dell'intrusione, il regresso del Sud viene inteso dalla retorica unitaria come progresso. L'ambiguo liberismo di Cavour fece sì che l’accumulazione necessaria per passare dal sistema della rendita al sistema del profitto si risolvesse in un terno al lotto per la Toscopadana e in un volgare saccheggio del Sud. L'interfacciale risultato, ottenuto in appena sei anni, ha strutturato la nazione in due società. L'esito si dispiega ai nostri occhi di posteri come una tragedia sociale - e nessun alibi etnologico basta a salvare i responsabili dalla maledizione delle vittime.

[...]

Nonostante la sovranità unitaria, la mancanza d'indipendenza del Sud dà luogo a due società profondamente diverse, a due paesi stranieri fra loro, le cui popolazioni mal si sopportano e si disprezzano reciprocamente. (Cfr. Pag. 2)

Non basterebbe l’intera vita di un uomo a scoprire e a raccontare la montagna di magagne e di sopraffazioni nascoste nella retorica unitaria. Qui ci occuperemo di una sola di queste: il parto innaturale del capitalismo padano. O per essere più precisi, il fonte battesimale del sistema, la Banca Nazionale del Regno di Sardegna.

Fino al luglio 1862, allorché l’ex ministro Bastogi si slanciò nella seconda spedizione garibaldina (la concessione governativa delle Ferrovie cosiddette Meridionali) non esisteva neppure l’ombra di un moderno capitalismo toscopadano, e neppure l’ombra di un capitalismo toscopadano mezzo moderno. La sua nascita seguì di trent'anni l'unità politica. E le procedure ostetriche non sono facili da raccontare, coperte come sono dal tricolore e dall'Inno di Mameli. (Cfr. Pag. 3)


Avendo seguito passo passo la genesi e lo sviluppo dell'opera ci sentiamo in dovere di fornire una ulteriore informazione ai duri e puri che potrebbero storcere il naso sul luogo di pubblicazione. Nicola avrebbe preferito stamparlo a Napoli o in Calabria e aveva anche provato a coinvolgere amici e conoscenti offrendo delle quote di partecipazione ad una pubblicazione in proprio. Non glielo abbiamo chiesto per riserbo, ma siamo certi che abbia ricevuto non più di cinque o sei adesioni! Noi meridionali non abbiamo ancora imparato a fare squadra per perseguire degli obiettivi comuni.

Per quanto ci riguarda lo abbiamo sempre pressato a cercare un editore anche al nord. Si trattava di una opera troppo importante per non farne una edizione cartacea. Noi avevamo provato a contattare qualche editore, uno non si è degnato manco di rispondere, un altro (meridionale) almeno ha risposto cortesemente: “non rientra nella nostra linea editoriale�.

La Jaca Book, da sempre sensibile alle istanze terzomondiste e dei popoli colonizzati aveva già pubblicato altri suoi testi e ha dimostrato grande coraggio nel dare alle stampe quest'opera.

























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