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Due Sicilie
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Le leggi di desertificazione

di Angelo D’Ambra

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11 Gennaio 2012


Al sopraggiungere del tracollo fascista, mentre nel Nord prendeva corpo la Resistenza, al Sud solo episodi sporadici assumevano caratteri ad essa simili; la società meridionale era invece scossa da grandi sommovimenti contro il latifondo. Sin dal 1943, infatti, i contadini avevano imboccato la strada delle occupazioni terriere e preso alla sprovvista gli Alleati e tutte le forze del CLN che adesso si affannavano a spedire da Torino i loro quadri perché assumessero la guida delle manifestazioni (e la sottrassero ai contadini stessi). Le mobilitazioni strapparono un primo mite provvedimento, quel decreto Gullo che sulla carta autorizzò l’assegnazione ai contadini delle terre lasciate incolte, ma che nei fatti non andò oltre il riconoscimento delle occupazioni già effettuate in Calabria, Basilicata, Puglia e Sicilia, e continuarono con un crescendo di manifestazioni sempre segnate da vittime fino ad ottenere dal governo la legge Sila del 12/05/1950 riguardante la Calabria e la “legge stralcio” del 21/10/1950 che estese i provvedimenti a tutto il Sud e a parte del Nord (nello stesso anno la Sicilia si diede la sua legge sul latifondo). Furono espropriati, con un indennizzo fatto di titoli di debito pubblico, i terreni posseduti in eccedenza al valore imponibile di 30,000 lire con espropri di quote crescenti in funzione diretta del reddito totale del proprietario e in funzione inversa del reddito medio per ettaro. Circa 700.000 ettari, di cui il 60% al Sud, furono concessi dal governo per l’esproprio con effettivo assegno alle famiglie contadine; contemporaneamente la legge per la piccola proprietà coltivatrice previde particolari facilitazioni e sovvenzioni creditizie alle famiglie che acquistavano terra per assoggettarla a coltivazione diretta.


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Sino al 1951 la piccola proprietà era stata davvero troppo piccola, poco fertile e collocata in zone elevate ed il latifondo di rado era coltivato con metodi moderni e, spesso, frammentato in piccoli appezzamenti e concesso a coloni. I contadini proprietari di piccoli terreni, infatti, realizzavano su di essi guadagni esigui, appena prossimi ai livelli di sussistenza, così finivano a coltivare grano come braccianti o piccoli affittuari nel latifondo. La riforma agraria rese possibile l’emersione della piccola proprietà, ma non ne nacque che una nuova “fame di terra” perché sul mercato si sviluppò un costante accrescimento delle aziende medie ed una netta separazione tra produttori e proletariato agricolo. Nella storia del Mezzogiorno, un bracciante non è mai stato semplicemente un bracciante perché per sopravvivere è sempre stato costretto ad inseguire una compartecipazione o il piccolo affitto e lo stesso dicasi per il coltivatore diretto, proprietario o affittuario che non ha mai avuto tanta terra da saziarlo ed ha dunque cercato di integrare il suo reddito con altro sottoforma di colonia, compartecipazione o prestazione bracciantile.  Un decennio dopo il I Piano Verde sollecitò la meccanizzazione dei processi produttivi, si disse per aumentare l’efficienza delle aziende agricole meridionali, ma l’obbiettivo raggiunto fu quello di garantire uno sbocco protetto alle produzioni dell’industria meccanica e chimica settentrionale. Le politiche governative in definitiva non assunsero mai un indirizzo di sviluppo e di assorbimento della manodopera, anzi furono causa precipua dell’emigrazione, tanto più perché essa garantiva alti profitti alle imprese padane. La Comunità europea stessa si sarebbe mossa, negli anni a seguire, in questa direzione: data la sostanziale omogeneità delle produzioni agricole mitteleuropee con quelle padane, ha fino ad oggi eretto forti barriere a difesa della produzione cerealicola e dell’allevamento diffuso nel Settentrione come in Germania, ha dimenticato, però, vite, olivo e agrumi del Sud Italia e dell’intera area mediterranea ed ha così stimolato i flussi migratori interni al fine di traslare manovalanza a basso costo dalle periferie (meridionale, portoghese, greca..) verso il centro (tedesco, francese..).


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La storia della produzione di grano nell’Italia repubblicana la dice lunga sulle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno. Negli Anni Sessanta del Novecento, la Padania produceva come oggi grandi quantità di grano tenero, il Meridione invece produceva (e produce) grano duro. La differenza tra i due prodotti è enorme perché il grano duro, oltre che dare minore resa, ha dei costi di produzione maggiori di quelli del grano tenero. Accademici e ministri sentenziarono che i produttori meridionali avrebbero dovuto ridurre i costi di produzione di grano duro per ottenere guadagni eguali a quelli settentrionali, ma ridurre i costi era di fatti impossibile, non si poteva intervenire sul clima sfavorevole, né sulla terra, spesso arida, nemmeno si potevano ridurre i costi mediante la meccanizzazione giacché trattori ed aratri pesanti erano venduti a prezzi alti dall’industria padana.

Come se non bastasse il Ministero del Commercio con quello dell’Estero promosse a lungo l’esportazione di grano tenero verso l’Oriente e l’importazione di grano duro (acquistato per il basso prezzo per la pastificazione); ne conseguiva che, a causa dell’importazione, il mercato non assorbiva l’enorme quantità di grano duro e ciò determinava un abbassamento del prezzo e dunque un danno per i produttori meridionali. Il fatto è che l’importazione del duro permetteva la esportazione di manufatti industriali, mentre l’esportazione del tenero serviva a pagare le materie prime ed i semilavorati necessari all’industria, operazioni tutte a vantaggio del Nord. Il governo dunque passò a consigliare la riconversione del grano duro a coltivazioni più produttive, ma con quali capitali?


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L’esempio riportato aiuta a capire bene cosa intendiamo per colonialismo interno (o pianificazione del sottosviluppo): tutte le politiche per il Mezzogiorno non hanno fatto altro che distruggere la capacità produttiva meridionale in maniera sistematica e premeditata.

Sino agli Anni Sessanta del Novecento il Meridione è stato il maggiore produttore di mandorle. Sicilia e Puglia da sole producevano circa il 90% della produzione italiana. Ancora oggi è così, quella di mandorle è una produzione esclusivamente meridionale, ma i risultati sono cambiati. L’isola, con circa 200.000 ettari di terreno impiantato a mandorleti, registrò nell’anno 1957 una produzione di 1.421.000 quintali, di cui solo 387.000 provenienti dalla coltura promiscua. Con Bari e Brindisi, essa assorbiva gran parte dell’intera domanda europea e statunitense di mandorle sgusciate. Il tipo pregiato denominato Pizzuta d’Avola rappresentava in quegli anni un prodotto assai ricercato per cui in Germania si era disposti a pagare anche 50 dollari al quintale in più del normale prodotto americano.

Gli Stati Uniti, nonostante la pessima qualità delle loro mandorle, lentamente hanno conquistato il mercato internazionale grazie all’adozione di “dumping” a favore dell’esportazione: i profitti realizzati sul mercato interno hanno garantito loro di tenere bassi i prezzi di vendita sul mercato internazionale e dunque di battere la competizione delle mandorle meridionali. La Spagna per favorire le esportazioni è ricorsa a fissarne i prezzi minimi, sempre inferiori a quelli degli anni precedenti, e ha persino stabilito dei premi di esportazione. Mentre ciò avveniva i governi italiani non hanno mosso un dito per tutelare questa produzione e si è assistito al paradosso della costante riduzione delle superfici coltivate nonostante sul mercato la domanda di mandorle fosse in espansione. Nonostante le massicce estirpazioni, la coltivazione del mandorlo in Sicilia e in Puglia mantiene in ambito nazionale una posizione di preminenza, ma se su 1.666 mila ettari coltivati in tutto il globo, il 43% è spagnolo e americano, l’Italia lavora solo il 5,2% con una produzione pari al 5,9% di quella mondiale, surclassata anche da Marocco, Siria e Iran (il decremento delle superfici italiane coltivate dal 1990 al 2004 ha superato il 30%) e l’UE ci prende in giro con aiuti di 362,25 euro per ettaro (anno 2006 per la Sicilia).


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Ai giorni nostri la Sicilia conta 1,2 milioni di ettari utilizzati in agricoltura, la Puglia ne conta 1,1, le suddette sono le regioni italiane che destinano più terreno alle coltivazioni. Il Veneto coltiva appena  820.000 ettari eppure ha usufruito, nel primo decennio del nostro secolo, di oltre un miliardo di euro in più rispetto a quelli utilizzati dalla Sicilia tratti dai fondi europei. La Puglia è la prima regione meridionale tra quelle ad avere usufruito di più di finanziamenti ed è solo quinta con 1,5 miliardi di euro (e più di 15.000 contratti lavorativi). Aggiungiamo che, sebbene nel Mezzogiorno si trovino ben più aziende agricole che in tutto il Centro-Nord, è nel Nord che si registra la più alta percentuale di fatturato agricolo: le cooperative ortofrutticole risultano prevalentemente localizzate nel Sud, ma la maggiore ricchezza è prodotta nel Nord, in cui si concentra il 73% del fatturato; in egual modo le cooperative vitivinicole sono presenti su tutto il territorio nazionale con percentuali omogenee, ma il loro fatturato è del 74% nelle regioni del Nord e solo del 18% al Sud. Tali dati del 2011 confermano come  la terra diventa produttiva se vi confluiscono investimenti in primo luogo tecnologici. Il problema non è la mancata spesa (e la pretesa incapacità dei ceti dirigenti meridionali, in verità fin troppo competenti per la pianificazione settentrionale del sottosviluppo meridionale), il problema è che i capitali disponibili sono sempre pochi rispetto alle esigenze di rinnovamento dell’agricoltura del Mezzogiorno: pochi capitali e poca volontà di permettere la programmazione di interventi diretti alla riconversione delle colture meridionali in produzioni oggi competitive, quali quelle protette dall’UE e che l’UE stessa non intende estendere alle periferie.









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