L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Fra dipendenza e deconnessione: l'approdo di Nicola Zitara

di Mino Errico


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Premessa breve

A scanso di equivoci vogliamo chiarire un punto che ci preme molto: l'aver pubblicato per dieci anni la Rivista elettronica “FORA...”  non ci dà alcun privilegio interpretativo.

Gli articoli e le opere pubblicate da Zitara sono gli unici depositari del suo pensiero, quindi al di là degli aggiustamenti editoriali (o rimaneggiamenti che dir si voglia) da essi bisogna partire.

Noi siamo solo dei testimoni di una parte del suo percorso di conoscenza e di divulgazione della storia del nostro paese, dove per paese intendiamo le Provincie Napolitane.

In questa relazione abbondano le citazioni, in quanto il nostro intendimento è invogliare alla lettura e alla ricerca personali. Non ci siamo limitati a citare solamente testi di Zitara perché il modo migliore di onorarne la memoria è di continuare il suo lavoro di scavo, per dimostrare una verità ovvia, ammessa però solo da pochi: sono in tanti a conoscere la storia  reale di questo paese, se viene tenuta nascosta è solo per convenienza o per viltà.


La originalità della analisi zitariana

Il termine “sottosviluppo” appare per la prima volta negli USA nel 1942. La definizione "regioni sottosviluppate" fu adoperata da Truman – Presidente degli Stati Uniti d'America  – il 20 gennaio 1949.

Zitara fa un uso parco del termine “sottosviluppo” ne L'INVENZIONE DEL MEZZOGIORNO. In una nota – la n. 17 di pagina 416 – paga il suo debito rispetto a questa categoria interpretativa citando gli studi di Samir Amin. Nome questo magari sconosciuto ai giovani, molto in voga quando nelle città opulente dell'occidente andavano di moda le teorie terzomondiste di Paul Baran (il sottosviluppo è l'altra faccia dello sviluppo). Gunder Frank (considerato il teorico maggiore della dependencia – teorizzatore del “distacco”), Samir Amin (sottosviluppo come rapporto squilibrato tra centro e periferia – teorico della déconnexion),

Non ci interessa affatto in questa sede addentrarci nel dibattito che ha animato l'ultimo quarantennio ovvero quello su dipendenza e deconnessione – la crescita del PIL delle tigri asiatiche ha messo in discussione certe soluzioni proposte dai terzomondisti in merito alla cosiddetta deconnessione, teorizzata per sganciarsi dalla connessione sperequata con le economie forti,  alle quali si fornivano materie prime (caffè brasiliano - rame cileno - cereali e carne argentini - petrolio venezualano) scambiate a prezzi sempre più bassi contro beni di consumo importati.

Tornando al nostro tema, Zitara è consapevole dell'intreccio perverso e complesso in cui si trova avviluppato il Sud-Italia e a nostro modesto avviso va oltre una spiegazione meramente terzomondista del rapporto nord-sud nella quale lo condurrebbe la categoria interpretativa del sottosviluppo. Questo avviene soprattutto nell'ultima opera, dove la sua analisi storico-economica va alle origini della dipendenza che non è quella tra un centro ricco ed una periferia sottosviluppata, bensì il risultato delle scelte dei primissimi anni dello stato unitario. Uno stato le cui leve sono finite saldamente nelle mani dei toscopadani che le hanno utilizzate per arricchire se stessi e asservire le provincie napolitane, asservendone in primo luogo il sistema finanziario e chiudendo direttamente o indirettamente le industrie ivi esistenti.

La sua ricostruzione quindi della storia di questo paese è assolutamente originale, va oltre l'analisi di Gramsci (e di Sereni di cui Zitara fra l'altro aveva grande stima), secondo cui l'arretratezza del mezzogiorno italiano era da imputare alla saldatura di interessi tra la classe industriale del Nord e la borghesia fondiaria del Sud che impedì lo sviluppo tecnico, l'aumento della capacità produttiva e la formazione di un mercato.

Va anche oltre la ricostruzione di Rosario Romeo per il quale il sottosviluppo economico del Mezzogiorno si rese necessario per il decollo dell'economia italiana, in altre parole lo sfruttamento dell'agricoltura meridionale fu un percorso obbligato per lo sviluppo economico del nuovo stato.


Il Sud non controlla il proprio risparmio.

Con la perdita della nostra indipendenza abbiamo perso il nostro stato, con il nostro stato abbiamo perso il controllo del nostro risparmio, quindi la possibilità di creare (“comandare”, scrive Zitara) lavoro. Questo assunto emerge in diversi scritti e viene espresso chiaramente nell'editoriale di fondazione della rivista elettronica Nella sua ultima e più importante opera – L'INVENZIONE DEL  MEZZOGIORNO – egli analizza in maniera approfondita l'asservimento del nostro sistema finanziario a quegli interessi esterni che definisce, con terminologia divenuta ormai patrimonio della cultura identitaria, “toscopadani”.

La risposta di Michele Avitabile - durante l'interrogatorio - ai quesiti posti dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul corso forzoso dei biglietti di banca  chiarisce bene gli intrecci fra potere politico e Banca Nazionale.

Quando si trattava di accogliere una proposta di Avitabile che avrebbe fatto gli interessi del paese e non avrebbe portato al Banco se non del prestigio, il potere politico si trincerava dietro ai formalismi e alla impossibilità di emanare un decreto reale. Decreto reale che non si vergognarono di emanare per favorire la Banca Nazionale in completo dispregio delle norme statutarie che avrebbero dovuto far portare la discussione in parlamento.

Chi afferma che ci siamo venduti agli invasori sabaudi per un piatto di lenticchie non conosce la storia. Occorre distinguere fra i collaborazionisti alla Scialoja che svendettero il proprio paese e quelli come Avitabile e tanti altri che si batterono per difenderne gli interessi. La lettura degli atti parlamentari a questo proposito è illuminante, ci dà uno spaccato del clima che si viveva in quegli anni.

Il Sud è senza lavoro perché non controlla il proprio risparmio. Non può usarlo per realizzare il suo passaggio a paese moderno. Questo vincolo non è interno, ma esterno alla società meridionale e viene dallo STATO ITALIANO, che è uno stato falsamente nazionale. Esso infatti ha assolto la funzione storica di assicurare buoni profitti alle aziende e il pieno impiego dei lavoratori nelle regioni padane. Oggi lo stato di Ciampi, di Amato, di Prodi, di D’Alema, cioè sempre lo stato nordista della Confindustria, guida dette regioni - forti nei confronti del Sud, deboli invece nel cozzo con l’economia tedesca - a inserirsi nel sistema capitalistico europeo con il minor numero di morti sul campo.

FORA... EDITORIALE - NICOLA ZITARA

Siderno, 28 febbraio 2000


Quando nel 1860 il regno delle due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione.

L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II avea cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Ben vero che l'opera di Scialoja fu nobilmente e altamente politica e va considerata solo tenendo presenti i fatti che la determinarono.

Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione.

F. S. Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX -

Discorsi ai giovani d'Italia, Casa Editrice Nazionale, 1901 – Pag. 118


Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Spesso questi ultimi sono stati poco intraprendenti, ma tante volte, quando hanno voluto essere, si sono urtati, sopra tutto nei primi anni, contro una burocrazia interamente avversa e diffidente.

Le più grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte, (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza.

F. S. Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX -

Discorsi ai giovani d'Italia, Casa Editrice Nazionale, 1901 – Pag. 120


La Banca Nazionale così ha ormai esteso la sua azione in tutta l'Italia, ed oltre le Sedi di Genova, Torino, Milano, Napoli, Palermo, Firenze, Venezia, aveva già aperto nel 1867, in tutte le parti del regno, 52 SUCCURSALI.

[...]

Della perturbazione negli scambi, provocata dagli aggi, l'onorevole Avitabile incolpa la stessa Banca Nazionale che diventata, a suo giudizio, padrona del commercio metallico, se ne servì a proprio vantaggio per fare grandi incette di danaro, e così aumentando la sua riserva metallica accrescere l'emissione dei biglietti.

[...]

Il capitale circolante era diminuito, diminuita la circolazione metallica di 300 milioni, osserva l'onorevole Avitabile; ma anche a Napoli, nel 1848, erasi verificata una diminuzione immensa di circolazione metallica, eppure non si ricorse al corso forzoso. Che il Governo poi non avesse urgenza di biglietti di Banca, ne è prova per l'onorevole Avitabile il fatto che non si è servito dei 250 milioni se non dopo cominciato l'anno 1867, come risulta dalle situazioni del Tesoro stampate. In ogni modo, se per la guerra fosse stato necessario il corso forzoso, dovevasene limitare la somma, come ha fatto l'Austria, alla stessa epoca in cui da noi si decretava il corso forzoso illimitato.

CAMERA DEI DEPUTATI

Relazione della Commissione Parlamentare d'inchiesta

Corso forzoso dei biglietti di banca

deliberata nella tornata del 10 marzo 1868  - Volume I – Pag. 304

Per dimostrare come causa del depreziamento della carta sia stata la Banca Nazionale, è necessario di riandare un poco la storia della medesima, e le sue operazioni. La Banca, fino dal 1860, prima della formazione del Regno d'Italia, e prima che aprisse le sue Sedi nelle provincie meridionali, è indubitato che spendeva parecchie centinaia di migliaia di lire per comprare moneta all'estero; impiantate che ebbe le sue Sedi nel Napoletano, incominciò un altro genere di affari; in luogo di prendere la moneta dall'estero e portarla in Italia, la prese dall'Italia e la portò all'estero, e non solo comperò moneta nella piazza, ma approfittò del servizio delle Zecche a lei affidato, per provvedere ai bisogni della sua circolazione interna, ed anche per le sue speculazioni all'estero.

Dopo la legge Cordova, di riordinamento delle Zecche, il Governo doveva provvedere all'appalto, mercé pubblica gara; pensò invece di dare l'esercizio delle Zecche a trattative private alla Banca Nazionale; e, con grandissima mia sorpresa, vidi che si faceva un contratto per un appalto senza un capitale per eseguire le operazioni dall'appalto stesso richieste.

[...]

L'altro mezzo col quale la Banca ha raccolta la moneta è stata la compra sulle piazze di Genova, di Torino e di Milano, ecc., ecc., di rendita pubblica che essa pagava coi suoi biglietti, e la vendeva poi sulla piazza di Napoli, dove riceveva il prezzo in polisse nel Banco, che cambiava in danaro sonante. Questa operazione la faceva su vasta scala, e non solo realizzava le polisse in numerario in Napoli, ma le realizzava dovunque trovasse il numerario.

Sapeva, per esempio, che nei Banchi di Sicilia esisteva del numerario, faceva subito una grande raccolta polisse, e le presentava colà per ottenere il numerario in pagamento. Questa operazione della Banca fatta in grandi proporzioni preoccupò il Banco di Napoli. Io, che ai primi mesi del 1864 ne teneva ancora la direzione, mi avvidi che questo affare poteva rovinare quello stabilimento, tenni d'occhio le operazioni, e cominciai una investigazione per essere al caso di conoscere tutti i movimenti che in tal genere si facevano dalla Banca, e, se la Commissione lo desidera, potrò farle avere le memorie in proposito che conservo in Napoli, e che riflettono il movimento per circa sette mesi, cioè da gennaio 1864 a luglio detto anno, nel qual tempo cessai dalla direzione del Banco.

La Banca, onde riuscire nel proprio intento, faceva delle polisse, o in testa al Direttore della Banca, o in testa alla Banca, o in testa ai diversi suoi cassieri di Palermo, di Messina, di Bari, che erano quelli che ritiravano il danaro, o in testa alla ditta Bonnet e Peret, della quale si serviva per non dare a divedere tutte le operazioni che faceva per proprio conto.

A misura che io vedeva che la Banca faceva tali operazioni, mi procurava i suoi biglietti nella piazza, e quando essa presentava le polizze, sia in Palermo, sia altrove, le facevo trovare i suoi biglietti.

Quando la Banca se ne avvide minacciò di non ricevere più polizze del Banco. Il marchese D'Afflitto, prefetto di Napoli, si preoccupò molto di questa minaccia, e volle tenere una sessione in sua casa, con me ed il Direttore della Banca Nazionale della Sede di Napoli. Io dissi che non combatteva la Banca, che anzi credeva che la Banca potrebbe ottenere dei grandi vantaggi a se stessa, e rendere dei servigi al paese, purché smettesse il principio di volere distruggere gli altri; che fino a quando sarei stato io il Direttore del Banco di Napoli non lo avrebbe distrutto; che se la Banca riceveva le polizze del Banco di Napoli, il Banco avrebbe ricevuto 1 suoi biglietti.

CAMERA DEI DEPUTATI

Relazione della Commissione Parlamentare d'inchiesta

Corso forzoso dei biglietti di banca

deliberata nella tornata del 10 marzo 1868  - Volume III

L'interrogatorio di Michele Avitabile – Pag. 102


[...] e non sono neppure secoli che l'onesto e previdente march. Avitabile, posto dal governo alla testa del Banco, pe' giornali fe' capire a chi lo doveva intendere, ch'ei avrebbe fatto onta eterna a se stesso se avesse conservato un ufficio pel quale diventava arme di un governo spogliatore dei più sacri e più inviolabili diritti. Ma quel governo, che aveva aperto la breccia, stimò pusillanime l'onesto e valente nobiluomo; e per invadere tutto, di cheto, passo a passo, senza strepiti e busse, invece sua vi spinse dentro il signore Colonna de' principi de' Stigliano, uomo ben misurato, da sapere come si fa a spennacchiare la gallina senza che i cristiani sentano grido di sorte.

Cesare Perocco, Delle persone e delle cose d'Italia - Napoli, 1867 – Pag. 83


La convenzione colla Banca, o signori, non è imposta dalle necessità dello Stato.

Finiamola una volta colle mistificazioni!

La convenzione è il compimento di quel lavoro continuo, indefesso, persistente che si sta adoperando da dieci anni per far trionfare il monopolio della Banca.

[...]

Nel 1860 esistevano, come esistono oggi, in Italia quattro stabilimenti di circolazione: la Banca Nazionale Sarda, con una circolazione cartacea massima dai 60 ai 65 milioni, che dal 1861 al 1866 non oltrepassò mai i 120 milioni; il Banco di Napoli, che nel 1859 aveva oltrepassati i 200 milioni, e nel 1860, non ostante le politiche commozioni, si era mantenuto sempre fra i 100 milioni, aumentando sino al 1863 a 145 milioni; la Banca Nazionale Toscana, che nelle epoche suddette si mantenne sempre tra i 24 ai 30milioni; similmente presso a poco all'istessa cifra della Banca Toscana il Banco di Sicilia.

L'ultimo menzionato stabilimento, perché le operazioni della sua cassa di sconto erano poggiate sopra un capitale piuttosto meschino, dava poco a temere, meno per la parte dello scambio della sua carta con quella del Banco di Napoli; gli attacchi quindi più o meno validi si concentrarono tutti sulla Banca Nazionale Toscana e sul Banco di Napoli. Questi due stabilimenti soltanto rappresentavano una parte di quel capitale circolante cartaceo che la Banca Sarda voleva sola usufruire e che sala usufruirebbe, se si approvasse la convenzione in esame. Si diceva alla Banca Toscana: voi dovete morire, siete d'ostacolo allo sviluppo della grande Banca Nazionale. Io non intratterrò la Camera sulla Banca Toscana. La sua struttura, il modo pregevolissimo come funziona, i servizi dalla stessa resi all'industria agricola e manifatturiera; la sua resistenza da prima alle minacele e finalmente nel 1863, sotto la amministrazione dell'onorevole Minghetti, la sua rassegnazione alla prepotente volontà del Governo sono stati egregiamente descritti in una recentissima relazione dell'onorevole mio amico Seismit-Doda. Passo quindi al Banco di Napoli ed, onde non si creda che io esageri, per passione, le cose, citerò alcuni dei principali documenti che dimostrano il mio assunto: l'eloquenza loro sarà maggiore assai delle mie povere parole.

Il 9 luglio 1861, mentre stava sul banco ministeriale anche l'onorevole Minghetti, il segretario generale del Ministero delle finanze presso la luogotenenza in Napoli, partecipava al Consiglio di amministrazione del Banco la risoluzione del Governo centrale (sono parole testuali) «che, non appena la Banca Nazionale installava in Napoli una sua sede, al suo apparire, dovevano tosto cessare le operazioni della cassa di sconto di Napoli e di quella di Bari.» Era questa, o signori, la condizione che la Banca metteva alla sua installazione nelle provincie meridionali. L'opinione pubblica però si commosse, il Consiglio di amministrazione del Banco resisté energicamente, ed il Governo e la Banca stimarono prudente consiglio in quel momento di non insistere. La Banca quindi istallò in Napoli una sua sede, senza che le Casse di sconto di Napoli e Bari cessassero. Si differiva, però non si abbandonava l'impresa.

L'amministrazione della zecca in Napoli era affidata al Banco con un congegno tale che lo Stato avrebbe potato quasi senza alcuna spesa ritirare e trasformare tutta la moneta borbonica in nuova moneta decimale italiana. Si decretò un riordinamento uniforme di tutte le zecche dello Stato e si proclamò il principio dell'appalto a pubblico concorso; dopo ciò la vecchia moneta di rame, in parte sparì a danno dello Stato, in parte sì vendé alla Banca Nazionale a prezzi assai ridotti da quelli che il Governo italiano stesso aveva stabiliti con altro appaltatore.

ASPRONI. Sono regali.

AVITABILE. Il pubblico concorso, quantunque fissato con decreto del 20 ottobre 1861, dal non mai abbastanza compianto commendatore Cordova, non ebbe alcun effetto. Tutte le zecche dello Stato caddero a trattative private in mano alla Banca Nazionale.

La trasformazione delle vecchie monete d'argento, quantunque stabilita con la legge 24 agosto 1862, non ebbe effetto che per quella parte soltanto che l'interesse della Banca lo richiedeva, cioè per quella parte che conteneva da un millesimo ad otto decimi d'oro.

Dovrei ora parlare del contratto stipulato tra il Banco di Napoli ed il Governo per la trasformazione della moneta borbonica in nuova moneta decimale, e non eseguito per favorire gli interessi della Banca Nazionale; inesecuzione, o signori, che entrerebbe nei mezzi adoprati per preparare il corso forzoso.

Su questo argomento però la Camera mi permetterà che io non scenda in minuti dettagli, perché in parte mi riguarda personalmente; non posso però astenermi dall'osservare che quel contratto era il fantasma che turbava i sonni della Banca, perché avrebbe aumentata ed accreditata la circolazione della carta del Banco di Napoli, posto ostacolo all'esportazione della moneta ed impedito quel lavoro continuo ei indefesso per promuovere il corso forzoso.

La Banca, o signori, prima d'impiantarsi nelle provincie meridionali, spendeva parecchi milioni per comperare la moneta all'estero; ma dopo, non solamente non spese più nulla, ma colle sue operazioni sulla moneta incassò degli utili non dispregevoli e preparò quella deficienza di numerario circolante che si prese a pretesto per imporre al paese il corso forzato.

Nel 1863, nel mentre l'onorevole Minghetti stesso stava alla presidenza del Consiglio e reggeva il Ministero delle finanze, dopo di essersi fatta piegare dapprima, come ho detto, la Banca Toscana, si ritornò all'attacco contro il Banco di Napoli. L'opinione pubblica si commosse di nuovo, ed il Ministero, il 13 marzo 1863, credè di dover spiegare alla Camera di commercio di Napoli quali erano le sue intenzioni.

In tale occasione, o. signori, il Governo non dissimulò, anzi confermò la sua intenzione di sopprimere la Cassa di sconto del Banco di Napoli e quella di Bari; l'incubo adunque dei propugnatori della nuova libertà bancaria erano le operazioni delle Casse di sconto delle provincia meridionali.

L'operosità più persistente si spiegava quindi, per togliere al Banco di Napoli il mezzo più potente di mettere in circolazione la sua carta, per ridurre quell'antico monumento della generosità di illustri cittadini napoletani impotente a fare concorrenza alla Banca Sarda ed a spiegare la sua salutare influenza a prò dell'industria e del commercio, specialmente nel mitigare gli interessi, come praticò, mantenendoli al 5 per cento, in un momento in cui in tutta Europa erano arrivati al 10 ed al 12 per cento.

L'interesse alto, o signori, ed il monopolio uccidono l'industria ed il commercio ed arrestano l'agricoltura, fonti dalla quale l'Italia attende la sua grandezza e la sua prosperità futura, e non già dal monopolio della Banca. Fallite anche nel 1863 le speranze di poter togliere in modi diretti la concorrenza alla Banca Sarda, principiarono le vie indirette.

Un ordine del ministro delle finanze, sempre sotto l'amministrazione dell'onorevole Minghetti, ingiungeva al Banco di Napoli di consegnare alla Banca Nazionale tutte le paste metalliche d'argento e di oro, che il Banco, perché di sua proprietà, aveva ritirato dalla zecca nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo sistema.

Il Banco da prima resisté per parecchio tempo, ma dopo cede alle ingiunzioni che partivano non tanto dal ministro delle finanze, quanto dalla direzione generale del Tesoro, nota abbastanza per le sue compiacenze verso la Banca; da quella direzione generale i cui illegittimi rapporti colla Banca sono stati deplorati dalla Commissione del corso forzoso; da quella direzione generale che, per favorire la Banca, dopo aversi ricevuti e messi in circolazione parecchi milioni di carta piccola del Banco di Napoli, insisteva per farla dichiarare illegale; da quella direzione generale che prima dell'inchiesta sul corso forzoso scontava alla Banca effetti del Governo mentre esistevano presso la Banca delle somme considerevoli di proprietà del Governo a-conto corrente senza interessi. Non dobbiamo illuderci, o signori, l'influenza della Banca già pesa troppo sul Governo e sopra tutt'i suoi funzionari. Se votiamo la convenzione, infeudiamo lo Stato alla Banca. Sarà la Banca che nomina i deputati, i senatori, i ministri, i pubblici funzionari.

Atti del Parlamento Italiano -  Tornata del 18 Luglio 1870 – Pag. 3452-3453



Uno stato indipendente

Nicola era troppo scaltro ed era persona intellettualmente avveduta per ridurre la sua opera principale ad un manifesto esplicito del separatismo. Il suo obiettivo, ce lo ha ribadito in più d'una occasione, era quello di consegnare alle giovani generazioni delle provincie napolitane la prova provata della origine del disastro meridionale. Il separatismo e la necessità di uno stato sovrano rimangono sullo sfondo, appaiono più o meno esplicitamente  nell'Appendice 8A “Il nostro socialismo” di pag. 48 e in una nota, la n. 8 di pagina 411, nella quale egli scrive: “Il mio augurio è l'indipendenza”.

In altri scritti invece – e su “FORA...” in più d'una occasione – egli affrontava direttamente il problema del superamento del disastro meridionale attraverso l'unica via che riteneva adatta: il ritorno ad uno stato indipendente. Le regioni meridionali – le ex-Provincie Napolitane – possedevano, secondo lui, tutte le risorse umane per conseguire grandi traguardi e in pochissimo tempo.

Il Meridione è grande tre volte la Svizzera o l’Austria, sette volte l’Irlanda, due volte il Belgio. Non siamo troppo piccoli per essere uno stato indipendente.

I lavoratori meridionali non sono di Serie B. Sono lavoratori del primo livello mondiale. Dovunque l’emigrazione li ha portati sono stati e sono apprezzati e amati. Buoni per l’efficiente Germania, per la versatile Inghilterra, per la strutturata Francia, per l’agonistico mondo americano e per l’Australia, oggi i loro figli e nipoti sono integrati e inseriti nelle classi superiori e dirigenti. Né si può tacere che Mario Cuomo è stato vicino a essere presidente degli USA.

Una volta indipendente, il Sud avrebbe un tasso di sviluppo di fronte al quale quello tanto conclamato della Corea sarebbe un’inezia. La classe lavoratrice inoperosa di cui dispone è tanto avanzata che in pochi anni il Sud supererebbe il prodotto interno lordo delle regioni settentrionali.

Chi leggerà il saggio che segue (Tutta l’égalité) troverà una più estesa esposizione sul tema dello stato indipendente. Tra l’altro vedrà che il separatismo di cui si parla appartiene a una categoria politica nuova. Alla sua base sta l’idea neosocialista che la funzione essenziale dello stato è ancora quella che ispirava i nostri progenitori elleni e la politica delle loro città-stato: la piena occupazione, una cosa che è tutto l’opposto dello stato-azienda nazionale (o continentale) del capitale.

Il nostro socialismo parte dalla lezione di Marx, ma va oltre, depurando il progetto di ciò che esso aveva di macchinoso, astratto, disumano. Non è lontano dal liberalismo giuridico - dal diritto naturale - ma confligge con il liberismo amorale degli utilitaristi anglosassoni e con l’attuale arlecchinata globalista.

FORA... EDITORIALE - NICOLA ZITARA

Siderno, 28 febbraio 2000


Utilizzando i fondi regionali europei e i nostri stessi risparmi, nei prossimi quattro anni il Sud disporrebbe di ben 500 mila miliardi in termini di vecchie lire. Con una cifra del genere si può fare la Silicon Valley! Ma per arrivare a questo ci vuole la guida di uno Stato, uno Stato nostro, uno Stato indipendente, e non l’azione ostruttiva di uno Stato nemico. E' necessaria, urgente una vera separazione, e non il separatismo stronzobossista, tipo separati in casa, in base al quale uno dei due coniugi mangia e fotte, e l’altro lava i piatti. Se non si arriva all’indipendenza, i nostri soldi continueranno a viaggiare telematicamente verso il Nord. Le banche e le finanziarie toscopadane continueranno a prestarci i nostri stessi soldi, facendoci pagare gli interessi che loro decidono, affinché noi possiamo comprare le loro merci.

Nicola Zitara, Il lavoro e l’indipendenza nazionale

FORA... 13/10/2002


Se i giovani meridionali non vogliono continuare a essere privati della libertà, e trovarsi fra dieci anni (il tempo prescritto da Bossi) nella condizione in cui oggi si trovano i palestinesi, costretti a difendere la propria identità di popolo lanciando pietre contro i carri armati, bisogna che smettano di aspettare il miracolo e si mettano subito a fare politica. Per loro stessi, per i loro figli, che patiranno più di loro, per i morti in difesa della nostra indipendenza, per i villaggi bruciati e le popolazioni passate per le armi, per i loro nonni, padri e fratelli, deportati al servizio di altri, come gli antichi magnogreci ridotti a Roma in schiavitù, per i nostri campi devastati e resi improduttivi, per le nostre fabbriche chiuse o rubate, per i nostri risparmi, frutto di sudore e di sangue, che vengono sprecati e sporcati da capitalisti inetti e degeneri; per questo e molto altro ancora bisogna che essi – i giovani – decidano di porre fine a una truffa politica – l’unità - che ci ha portato a una condizione peggiore di quella che avevano gli Iloti sotto la sferza degli Spartani. Coraggio, è l’ora di prendere il vostro destino in mano. Domani sarebbe troppo tardi!

Nicola Zitara – 13/10/2002

Il lavoro e l’indipendenza nazionale


I Borbone

Non si tratta di una questione anagrafica, ma per comprendere appieno come va il mondo bisogna aver visto passare tanta acqua sotto i ponti. Zitara ne aveva visto eccome. Potete trovare su internet alcune informazioni inerenti la sua vita e il suo impegno civile.

Al nostro modernismo antimonarchico obiettava semplicemente che il disastro economico aveva portato al disastro morale. Per ricostruire una etica e dei cittadini consapevoli dei propri diritti occorreva un simbolo. Questo erano i Borbone per lui: un simbolo vivente attorno al quale erigere uno stato indipendente e forgiare la comunità.














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