L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Provini di secessione

di Antonio Orlando

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5 Dicembre 2011


Dalle elezioni politiche del 1992 sono passati circa vent’anni, invece sembra sia passato un secolo. Il volto politico dell’Italia si è così modificato da essere assolutamente irriconoscibile. Sono stati cancellati dalla scena politica partiti storici, altri si sono, giocoforza, trasformati dando luogo ad una pluralità di formazioni, spesso antagoniste tra di loro, mentre sono comparsi, come dal nulla,  nuovi soggetti, i quali, a loro volta, si sono via via trasformati, modificati, adattati ad una realtà in continua evoluzione. Il grande cambiamento italiano ha avuto inizio grazie all’azione della magistratura: il cane da guardia dello Stato, una tantum, ha provato ad azzannato il padrone. Nel giornalismo questa è una classica “non-notizia”, in politica è una novità sconvolgente. Tutto ebbe inizio con una mazzetta trovata nelle mutande di tal Mario Chiesa, ricordate  “il mariuolo” socialista? Da lì partì una valanga che travolse tutto e tutti e, dopo anni,  la stagnante palude della politica italiana divenne un mare in tempesta.

Il secondo elemento, caratteristico della presunta “rivoluzione giudiziaria”, è costituito dal fatto che la corruzione, ampia e diffusa, viene individuata e scoperta non nel profondo ed arretrato Meridione, bensì nel ricco, industrializzato e sviluppato Nord. Dove, per definizione e secondo un atto di fede, non dovrebbe allignare una simile mala erba. Non era stato il milanese Craxi a proclamare l’Italia settima e poi quinta potenza industriale del mondo? Poi  venne a galla una realtà fatta di corruzione, di intrighi e di malaffare degna di una “repubblichetta  delle banane”.  Nei rampanti  anni ’80 chi osava dire che dove ci sono soldi ivi c’è corruzione, mafia, delinquenza, veniva liquidato, per bene che gli andasse, come un barboso moralista; oppure se osava dire che c’era stato un certo Karl Marx, il quale aveva parlato, circa centocinquanta anni prima dei giudici milanesi, di  “accumulazione primitiva del capitale”, era giudicato, nella Milano-da-bere, un retrogrado vetero-comunista.  Invece, era evidente che il capitalismo nord-italiano aveva sostituito all’espropriazione della popolazione agricola, come avevano fatto nel XVIII secolo i capitalisti inglesi, l’appropriazione con ogni mezzo delle risorse pubbliche. Allorquando, dopo anni di rapina, il gioco viene finalmente scoperto, esce fuori un signore il quale, grazie al solito coupe de theatre, ci spiega che non abbiamo capito niente e che la colpa non è dei “poveri” industriali, agricoltori, allevatori ed artigiani del Nord, ma la colpa è di Roma che è ladrona e, di conseguenza, la responsabilità è del Sud che vive e mangia alle spalle del ricco Nord grazie alla complicità dei politici romani. Perciò, dato tutto questo per scontato, ci vuole un nuovo soggetto politico, che è appunto la Lega Nord che s’incaricherà di portare a compimento la rivoluzione italiana (quale?), realizzando quella divisione economica, politica, istituzionale e territoriale che consentirà di separare i buoni dai cattivi, i progrediti dagli arretrati, gli onesti dai disonesti, i ricchi dai poveri, i nordisti dai meridionali.

La trovata, se non fosse ridicola, dovrebbe essere definita semplicemente geniale.

Non è il caso, a questo punto, di iniziare le solite lamentazioni sullo sfruttamento secolare del Meridione in quanto non è questo il punto centrale della questione. Quel che occorre cercare di capire è come sia stato possibile che un discorso di stampo separatista sia riuscito a trovare, nella più sgangherata e divisa area italiana, favore e credito. La spiegazione, come è facile intuire, richiederebbe ampio spazio poiché i fenomeni politici non sono riconducibili ad una causa unica.  Tuttavia, lasciamo da parte tutte le motivazioni di carattere antropologico e folkloristico, tipo i raduni a Pontida, il sole celtico, le ampolle con l’acqua del Po e le camicie verdi. Cerchiamo di andare al cuore della questione senza avere la pretesa di essere esaustivi.

Una serie di ragioni, interne ed internazionali, avevano favorito una crescita economica dell’industria del nord e, in particolare, di quella del nord-est, la quale aveva trovato nell’area mittel-europea un mercato abbastanza ricettivo. Questo processo di crescita è guidato non dalle tradizionali famiglie capitalistiche, ma da una rete di piccole e medie imprese, per lo più a gestione familiare, le quali lavorano quasi esclusivamente per l’esportazione. Questo nuovo ceto imprenditoriale, che utilizza manodopera a basso costo, che evade le tasse e che dipende dallo Stato, vede proprio nello Stato il nemico. La rete di protezione di previdenza sociale, i diritti sindacali, la politica dei redditi, il controllo dell’inflazione, il governo della circolazione monetaria e, più in generale, l’intervento pubblico sono percepiti come altrettanti ostacoli sul cammino dello sviluppo industriale. Secondo questi “moderni” capitani d’industria il surplus economico prodotto dal Nord viene drenato, attraverso l’erogazione della spesa pubblica, a favore del Sud povero, fannullone e mafioso. In buona sostanza essi scambiano l’effetto per la causa. Nessuno s’incarica di spiegare loro che il drenaggio delle risorse segue, in realtà, un percorso esattamente inverso e che l’accumulazione del capitale avviene rastrellando, attraverso le banche ed il Ministero del Tesoro, il risparmio meridionale.

Se il Sud è il regno dell’arretratezza e del sottosviluppo, se il Sud è il regno della mafia che impedisce qualsiasi iniziativa imprenditoriale, se il Sud è regno di fannulloni e vagabondi, come si spiega che le banche meridionali sono così appetibili? Come si spiega che le banche, grandi e piccole, del centro-nord fanno a gara per accaparrarsi anche la più piccola ed insignificante banchetta meridionale? Ufficialmente, si dice, che scendono  “a salvare” dalla crisi banche sull’orlo del fallimento, ma quando mai una banca ha avuto un cuore?  Quando mai una banca si muove sulla base del sentimento?

Si potrebbe dire, come Vespasiano, che tanto “pecunia non olet”. Molto più significativamente, almeno per i nostri fini, un grande poeta e drammaturgo come Berthold Brecht notava che: “Tra chi fonda una banca e chi, mitra in pugno, la rapina, il bandito è il primo e non l’altro”!

Questa carità pelosa del capitalismo finanziario la dice lunga sulle origini del rapido sviluppo del nord-est italiano ed evidenzia la provenienza delle risorse necessarie a formare quella famosa accumulazione originaria o primitiva del capitale. Solo che, una parte di queste risorse, per una serie di ragioni, si perde all’interno di un sistema di ridistribuzione della ricchezza che, ironia della sorte, ne restituisce un’esigua parte al Meridione sotto forma di briciole. In pratica il rapporto di scambio avviene all’interno di un mercato ineguale, ma unico e ciò priva le banche dei vantaggi derivanti da una posizione fondata su fattori politico-istituzionali.

In secondo luogo, le grandi banche dovendo far fronte alla concorrenza dei colossi nord-europei, si sono attrezzate per fare in modo di chiudere tutti gli spazi ancora aperti all’influenza esterna. Il controllo del credito e del risparmio meridionali significa costruire un circuito risparmio-credito-finanziamento capace di generare un circolo in cui tutti i benefici andranno alle industrie produttrici. Infatti, il commerciante meridionale che chiede un finanziamento per la propria attività alla sua banca locale, controllata da una banca del nord, anticiperà al proprio fornitore denaro drenato in loco, in attesa di recuperarlo tramite altro denaro prodotto in loco. Il Sud, in pratica, finanzia due volte l’industria nordista: la prima volta con il risparmio, la seconda volta con il credito.

L’idea di una possibile secessione, che nessun imprenditore nordista di buon senso può volere, nasce e si sviluppa sulla base di un perverso corto circuito, rappresentato dalla convinzione che sarà possibile ottenere più risorse se si eliminano le briciole elargite al Meridione sotto forma di pensioni, di sussidi e di indennità varie. Praticamente, se si eliminassero le elemosine.

I secessionisti ed i leghisti, però, non si son chiesti, a questo punto, una volta realizzata la separazione, per quale motivo il Meridione dovrebbe acquistare, stante l’attuale mercato unico europeo, considerata la globalizzazione dei mercati, dagli industriali veneti, milanesi o parmensi e non piuttosto direttamente dai francesi, dai tedeschi o dagli olandesi, dai brasiliani, dagli indiani e dagli odiatissimi cinesi. E perché mai dovremmo rivolgerci direttamente ad una banca nostrana e non piuttosto al Credit Lionnays o alla Deuchte Bank o al Banco di Santander.  Col passare del tempo i bollenti spiriti secessionisti si sono placati ed i leghisti si sono accontentati di sedere sulle tanto vituperate poltrone romane badando ad accaparrarsi prebende e soldi, come insegnava il buon Craxi. Per fare politica ci vogliono soldi, tanti soldi, un oceano di soldi e poi bisogna occupare tutte le caselle dello scacchiere. La secessione è sfumata in federalismo che a sua volta è diventato fiscale, amministrativo, comunale, territoriale “purché se magna”. Ora che la tempesta ci ha travolto, ora che la montagna di debiti ci sta franando addosso, ora che l’euro non è più uno scudo torna la secessione, torna il parlamento padano, tornano i giochetti, le finzioni, l’avanspettacolo, tutto quanto fa scena. Se, però, inseriamo nelle nostre riflessioni queste semplici ed ingenue valutazioni, molto parziali e ridotte, ci accorgeremo, che, ancora una volta,  “il re è nudo” e che la minacciata secessione nordista o meglio, “tosco-padana”, come la chiamava Zitara, è quello che è sempre stata: solo un giocattolo con il quale continuano a trastullarsi alcuni apprendisti stregoni, alcuni giocherelloni, molti buffoni e qualche macchietta, insomma gli utili idioti di sempre, tutta gente protetta e coccolata dai burattinai che muovono i fili dietro le quinte. Parafrasando Clemenceau, si può dire che “la politica dovrebbe essere  una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici di professione”.  Se noi meridionali arrivassimo a tale consapevolezza, forse la secessione, quella vera, la faremmo noi. 








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