L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml



I briganti Della Gala

di Angelo D’Ambra

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8 Ottobre 2012

- Limiti della storiografia

L’analisi del brigantaggio si misura con numerosi problemi d’ordine metodologico.

Fonti orali e fonti scritte contengono entrambe la traduzione nella sfera delle rappresentazioni di ciò che fu e accadde, su entrambe, cioè, insistono percezioni, concezioni e appartenenze dei soggetti narranti, si tratta nello specifico di documentazione prodotta da agenti direttamente coinvolti nelle vicende riportate. In più, è pure lampante che le nostre indagini si svolgano tra materiali redatti con un intento ben distante dal voler riferire la pura e semplice verità dei fatti, sono invece veri e propri giudizi politici, dunque lacunosi di verità, indirizzati ad inquadrare il fenomeno delle rivolte popolari antiunitarie nel solco dei fatti di criminalità e delinquenza.

Nonostante la brevità del periodo, un decennio non è certo un secolo, si tratta di un problema del tutto analogo a quello della decifrazione delle astuzie teologiche con cui i monaci del Medioevo alteravano le pergamene d’Età classica. Allo stesso modo documenti d’epoca medioevale che trattano di scontri tra condottieri ed esseri fantastici non possono essere dati per validi senza alcuna storicizzazione degli stessi. Allo storico spetta dunque il compito di scoprire le fonti, ma anche di svilupparne sempre una coerente lettura critica.

Se nella letteratura la condanna del brigantaggio come atto delinquenziale è pressoché prevalente, altrove si prova un senso celato di ingiuria, una nota di ironia e compassione che pervade l’intero lavoro di ricerca, una ironia protettrice nei confronti dei “cafoni” poveri ed ignoranti che si mobilitarono in difesa della loro terra. Sembra che in svariate combinazioni, ma sempre identiche nella sostanza, certe convinzioni continuino ad essere presenti. Esse purtroppo concorrono a degradare la Storia da scienza sociale a mera propaganda, a volgare racconto partigiano di una causa storicamente vincente, ad elogio convinto del potente di turno. A tutto ciò è sempre stato nostro intento sottrarci.

I giudizi sui briganti non possono essere il frutto di pregiudiziali storico-politiche o di interessi pecuniari. Col brigantaggio si afferma e si diffonde una nuova morale storica, la morale degli insorti che non si fonda affatto sulle norme astratte di Kant e del pudico senso di ordine odierno. La morale degli insorti è costituita da regole di condotta avulse d’ogni ragione moderna, tali regole pongono direttamente l’insorto al centro di una opera di realizzazione di obiettivi e disegni storicamente concreta e perciò prigioniera del suo tempo. La morale dell’insorto è quella che fa dire a Goethe: “finchè sarà giorno resteremo a testa alta e tutto ciò che potremo fare non lo lasceremo fare prima di noi”.

Nel trambusto degli eventi risorgimentali, il Sud di Terra di Lavoro conobbe le gesta temerarie di Cipriano Della Gala che, forte di un largo consenso popolare, coi suoi uomini percorse le terre dei distretti di Nola e Caserta sino all’Irpinia, al Taburno, al Sarno. Cipriano Della Gala era evaso nel 1859 dal bagno penale di Castellammare dove stava scontando una condanna a 20 anni di ferri “per furto accompagnato da pubblica violenza”, condanna comminata il 24 aprile del 1855 dalla Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro. Era un fuggitivo braccato dalla legge, un reo confesso, un ladro che incuteva a tutti timore, almeno stando a certe deposizioni.

La sua era una figura torva dalla corporatura solida, la fronte alta, gli occhi aguzzi, dalla mascella prepotente su cui si stagliava una barba ruvida, tutto ciò concorreva a circoscrivere una fisionomia dura, folle, ribelle. “Un assassino, uno corridore di campagna.. un malfattore volgare, un uomo dedito al sangue, alla rapina, un uomo che mangia le carni del suo antico compagno di galera..”, così lo definirono i giudici di Santa Maria Capua Vetere. “Quali le sue relazioni col governo passato? Una sola, sì, una sola, diciamolo pure, quella della casa franca, poiché quel governo per delitti comuni lo alloggiava nel bagno di Nisida. Se un uomo che ha cominciato con la galera può essere un uomo politico lo lascio alla considerazione di voi tutti” (G.C. Gallotti, pp. 176).

Non ci interessa sconfinare nella psicologia o nella fisiologia, ma dobbiamo sin da ora sconfessare tale tesi, figlia diretta di quegli inganni che abbiamo denunciato. Appare evidente che la rappresentazione della realtà, di una realtà scossa da una rivoluzione, incide sulla personalità stessa del singolo fino a ridefinirne il ruolo attraverso nuovi schemi interpretativi di cui l’attore stesso si dota anche inconsapevolmente. E’ questo il meccanismo che fa di  Cipriano Della Gala, condannato ai lavori forzati e relegato presso il carcere di Castellammare di Stabia da Ferdinando II di Borbone, un rivoltoso legittimista borbonico e non un delinquente. Cipriano Della Gala assunse nel 1860 una nuova prospettiva, si vestì di una nuova maschera, di una nuova funzione, divenne un sostenitore della causa della legittimità delle Due Sicilie e sorresse arditamente i Borbone di Napoli travolti dalla sedizione liberale. Non può negarlo neppure M. Monnier che definisce Cipriano “forzato evaso, capo di banditi e generale borbonico, assai più avventuroso e più importante di Chiavone…”. Gli studiosi sanno bene che l’individuo può essere compreso meglio se lo si osserva in una prospettiva storica piuttosto che nella situazione contingente perché è nel gioco tra l’effimero ed il duraturo che si delinea la personalità peculiare di ciò che altrimenti resterebbe solo un nome anonimo. La prospettiva di lungo periodo ci porta a soffermarci su quegli elementi che incarnano nodali punti di crescita ed evoluzione, ma anche su quelli che manifestano solo impulsi immediati. Dal punto di vista storico la vita non può essere concepita come un divenire scandito da episodi; la vita realizza una continua relazione fra aspetti diversi al punto tale che è necessario, per chi “fa Storia”, analizzarla ad un più alto livello di articolazione. Per queste ragioni nel contesto critico del processo unitario la figura di Cipriano Della Gala emerge incontestabilmente come colonna portante della reazione politica imperante al Sud: tra il furto alla gioielleria del 1854 e l’arresto sull’Aunis non c’è il vuoto, ma una fitta intelaiatura di eventi che segnano la vita di Cipriano Della Gala uomo di Francesco II.


- Una sentenza scontata

L’analisi delle carte processuali conservate negli archivi di stato fa trasparire sin dall’inizio l’indirizzo politico della condanna ai quattro dell’Aunis: quando la difesa chiede che agli imputati sia riconosciuto il reato politico e ricorda “il fatto di Cancello”, l’assalto al treno quando i briganti salvarono il denaro privato e presero solo quello pubblico con grida inneggianti a re Francesco, il Presidente rigetta ogni richiesta, egli ha già sentenziato che la banda Della Gala è fatta di volgari malfattori e nessuna prova provata potrà fargli cambiare idea.

E’ innegabile però che le stesse fonti scritte non sono che il prodotto e la rielaborazione organica di racconti orali, spesso confusi e sgrammaticati, rilasciati dai comparenti ad un processo, che narrano momenti della loro vita, eventi di un passato prossimo a metà tra il finito e l’indefinito, tra la verità e la menzogna, tra la precisione e l’inesattezza, tra l’ “è così” e il “mi pare”. Sull’ascolto poi incide ciò che è implicito, l’indiretto, la deduzione, il differito. Non a caso già nel sistema giudiziario pre-napoleonico gli amministratori della giustizia erano “auditores” e il luogo deputato all’ascolto/udienza si chiamava “Regia Audientia” (G. Greco, pp. 533-535). Gli scritti, come dicevamo, sono il frutto di un lavoro di ascolto e trascrizione, dunque, fallace, in cui fatti e racconti collettivi sono oltretutto reinterpretati dalla magistratura, e nello specifico dalla magistratura del neostato italiano tutta protesa ad inquadrare le rivolte tra i fenomeni delinquenziali. Ciò ci permette di dire che le deposizioni raccolte e giunte fino a noi riferiscono solo parzialmente la realtà delle cose, anzi forse neppure parzialmente.

Sullo stesso cognome effettivo di Cipriano e Giona ci sono fonti discordanti. E’ stata nostra cura utilizzare in passato il cognome Della Gala, con cui i germani risultano registrati all’anagrafe, ma il fatto che fino ad oggi alcuno storico del brigantaggio abbia affrontato questo problema ci lascia interdetti, anche perché il nome Della Gala figura più volte negli stessi atti processuali che speriamo i suddetti storici abbiano avuto l’accortezza almeno di leggiucchiare.


- Domenico Della Gala

Procediamo oltre, scopriamo i volti reali dei protagonisti di queste vicende: abbiamo il mandante Vittorio Emanuele e i due suoi emissari, Pinelli e Farini, abbiamo la missione, distruggere la banda Della Gala, nemico aspro e numeroso. Nelle mani dei due generali sabaudi un mazzo di carte, come oggi son soliti fare gli statunitensi, vi sono riportati i volti dei capi briganti. C’è l’asso di picche Cipriano Della Gala, primo fra tutti, poi suo fratello Giona, l’asso di quadri. Seguono l’asso di fiori, Domenico Papa, quello di cuori, Giovanni D’Avanzo, e poi le k, le q, le j, Domenico Della Gala, Crescenzo Garavina, Angelo Bianco, Nicola Piciocchi, Antonio Del Mastro… la banda al completo.

Una figura interessante è quella di Antonio Zotti di Vincenzo di anni 25 di Foglianise in Provincia di Avellino, contadino soldato, che scopriamo con una dichiarazione rilasciata il 2 settembre 1861 al giudice regio di Sant’Anastasia:

“Io ho servito nel I° Reggimento di linea ed era di presidio nella Cittadella di Messina. Arresasi la Cittadella ai 14 di Marzo per quanto ricordo, fui prigioniero e condotto a Melazzo dove rimasto un mese, fui condotto in Genova. Rimasi a Genova tre o quattro giorni e fui condotto al bagno presso Piacenza dove rimasi un paio di mesi. Di la passai in Napoli e dovea raggiungere il 38° Reggimento di Linea, al quale era stato incorporato in Palermo. Giunto in Napoli uscii dalla sortita, il giorno di S. Pietro e Paolo, pensai di andarmene a casa mia…. giunto, poche miglia lonano da Napoli, trovai due soldati sbandati, i quali mi proposero ad andarci ad unire alla comitiva di Cipriano La Gala, ed in effetti fattomi vestire de’ miei panni da militare in un pagliaio in campagna, andammo sulle montagne di Cancello nel luogo detto S. Stefano, dove ci presentammo a Cipriano La Gala. Costui ci ricevette, essendoci annunciati per  Soldati Regi e dopo tre o quattro giorni io fui armato di fucili ed un mazzo di cartucce. Allora la comitiva era di circa un cento persone. In seguito, la comitiva si aumento di numero e Cipriano sette o dicei giorni fa pensò di dividerla in tre compagnie, l’una comandata da Cipriano la Gala, l’altra dal Sergente Saverio e l’altra da Angelo Bianco. Io fui destinato a far parte di questa ultima compagnia… di circa ottanta persone…”

Sulla famiglia Della Gala leggiamo nelle carte processuali: “La madre di Cipriano Della Gala, il fratello di lui Romano e la germana Marta erano tutti indiziati come coloro che provvedevano a somministrare ogni sorta, fu l’Autorità politica della Provincia obbligata “ ad arrestarli.”La prigioni di quai tutta la propria famiglia determino Cipriano della Gala a tentare l’ardito colpo di mano per liberarla, il quale nelle sue conseguenze, e ne frutti posteriori ha dimostrato essersi egli sospinto a quell’andare diversamento non tanto per la salvezza e liberazione de’ suoi, quanto per farsi il campione della causa della reazione politica, la quale negli scorridori di campagna e negli uomini volti ad ogni generazione di misfatti trova soltanto i suoi sostenitori”.

Domenico fu il primo dei Della Gala a cadere, catturato il 7 febbraio del 1861 nella masseria del Crocifisso del Seminario a Nola dove era ospite del colono Pasquale Iovino (ASC, , Alta Polizia, f. 4915). L’Intendente Bruni forse esagera quando scrive che “questa forza col Maggiore Montanaro alla testa si diresse sopra luogo ed avrebbe forse assicurata viva o morta l’intera Banda armata, che il latrar di alcuni cani non l’avesse fatta accorta che era stata sorpresa e non si fosse data alla fuga”. Ciò infatti non spiega perché rimase il solo “fratello del Capo della Banda, per nome Domenico della Gala”, né abbiamo ragione di pensare che la modesta abitazione di un colono potesse dare ospitalità ad una banda di almeno cinquanta uomini. Probabilmente il solo Domenico Della Gala era presso quella masseria per ordire un colpo da cui dovette essere escluso il contadino Vincenzo Meo di Cicala perché ritenuto per una qualche ragione inadeguato all’agire; quest’ultimo, rancoroso, non esitò a spifferare tutto alle guardie nazionali di Nola che poterono quindi accerchiare la masseria. Accadde che il brigante braccato, armato d’un fucile del reggimento svizzero dei Borbone, sparò un colpo verso il brigadiere Pietro Mazucchelli, “ventura volle che il proiettile avesse colpito la sua carabina rompendone il cannone, la girola e la dava della bajonetta A tale audacia dai Carabinieri Lavezzari e Pattaluga gli furono tirati due colpi di fucile che colpitolo nello stomaco lo distesero al suolo semivivo”. Domenico Della Gala morì verso le dieci di sera col ventre squartato, avrebbe potuto essere curato, invece morì per una emorragia, gli fu negato anche il conforto religioso.

Il 24 maggio di quell’anno arrivò puntuale la vendetta di Cipriano. Vincenzo Meo fu freddato da due colpi di fucile mentre raccoglieva foglie di gelso in contrada Sassone a Casamarciano. A Giona, detenuto nel carcere di Caserta, a dimostrazione dell’eseguita vendetta, la sorella Marta recapitò l’orecchio del contadino ammazzato.


- L’interrogatorio del 24 febbraio 1864

Nel noto interrogatorio del 24 febbraio 1864 Giona, D’Avanzo e Papa rigettarono ogni accusa d’aver fatto parte della banda. Solo Cipriano affermò: “ho corso la campagna onoratamente, non ho fatto estorsioni, ho ricevuto denari da diverse persone dabbene e con questo ho soddisfatto ai bisogni della banda”, poi, incalzato dal Presidente di Corte sul perché avesse scorso la campagna disse “per difendere il mio soprano”.

Accusato di estorsione di lire 204, pasta, sale e tabacco commessa a mano armata e del sequestro di Vincenzo d’Avanzo avvenuti il 23 maggio 1861, di grassazione di 314 lire e 50 centesimi ai danni del ricevitore della ferrovia di Cancello nella sera del 23 giugno 1861, di omicidio di Gennaro Ferrara commesso a Cancello il 27 luglio del 1861 e dei carabinieri Bartolo Cuminelli e Pietro Brocchieri uccisi la stessa sera a Cimitile, ed ancora dell’omicidio a Palma del bersagliere Federico Pellegrino il 31 agosto 1861 e nello stesso mese del saccheggio delle case di Giovanni e Michele Mascolo di Sasso, di grassazione di lire 12,750 il 2 settembre a Paolisi in danno di Giacomo e Pasquale Viscusi, di assassino di Francesco de Cesare avvenuto sul Taburno il 4 settembre, nonché di numerosi altri crimini, Cipriano certo respinse tutto, “non sono andato facendo queste lazzaronate” disse, ma non dovremmo mai dimenticare che stiamo indagando su anni di guerra civile in cui per mantenere una colonna armata di cinquecento uomini era indispensabile ricorrere a ricatti, sequestri e furti. Eppure ci fu chi concesse denari di propria iniziativa e si vide scrivere il suo nome in un registro da Giovanni D’Avanzo: al ritorno di Francesco II chi aveva finanziato i combattenti sarebbe stato ripagato.

Il Gallotti riporta l’interessante caso di Vincenzo D’Avanzo, un giovane sequestrato dalla banda ad Avella. Cipriano aveva chiesto per il suo rilascio 100 piastre, ma il padre del ragazzo non aveva così tanto denaro ed aveva risposto: “Volete tenerlo presso Voi? Abbiatelo come vostro figlio, io so che siete buono e che avete sempre commesso azioni di galantuomo”. Fu accolto l’invito del genitore ed il ragazzo impugnò il fucile e combatté con la banda fino a quando decise di fuggire e ritornare a casa. Ci permettiamo di suggerire che il ragazzo fu fatto fuggire, i briganti dovettero chiudere un occhio e forse anche due, giovanissimo ed inesperto nell’utilizzo delle armi, Vincenzo D’Avanzo doveva essere più un impiccio che un beneficio per la banda. Probabilmente fu liberato e sotto le pressioni dell’interrogatorio dovette dichiarare che era fuggito. Ciò che ci interessa è che Vincenzo D’Avanzo precisò in sede processuale che i banditi gli dicevano “non temere, che tutto ciò che manderà tuo padre, saragli restituito al doppio nella venuta di Francesco II”.


- Struttura e tattica

La banda Della Gala annoverava molteplici centri direttivi provvisti di larga autonomia. Le compagini più piccole risultavano formate da pochi individui e in genere erano loro attribuiti incarichi minori e non di rado fungevano da avamposti o da fiancheggiatori di bande più grandi. Queste ultime arrivavano a contare anche cinquanta uomini ed erano preposte all’invasione di villaggi, contrade, paesi interi.

E’ il caso del raggruppamento capeggiato da Angelo Bianco, noto come Turri Turri, che, forte di  cinquanta uomini, si lanciò all’assalto di Sirignano (Gabinetto Prefettura, B. 279 f. 3139). A Visciano, la sera del 24 giugno 1861 duecento uomini posti alla guida di Crescenzo e Cipriano irruppero nel paese, suonarono le campane a stormo, inneggiarono a re Francesco e distrussero i ritratti di Vittorio Emanuele e Garibaldi. Nello stesso giorno, la banda invase pure Pago e Migliano: la tattica era sempre stata la stessa. Crescenzo bloccava il paese dall’esterno, Cipriano lo invadeva assalendo la casa comunale ed il posto di guardia, requisendo fucili e viveri.

Le bande, vere e proprie strutture politico-militari finalizzate al combattimento, qualsiasi fossero le proprie dimensioni, erano sempre guidate da un capo, dal quale ricevevano anche una paga, che si distingueva tra gli altri per abilità, energia e coraggio. Non ultimo tra di essi annoveriamo Crescenzo Garavina.

Stimiamo che la banda Della Gala poteva contare su almeno cinquecento briganti effettivi e dunque su un migliaio di affiliati che si riunivano e si allontanavano a seconda della necessità o fornivano a i briganti denaro e viveri.

Tutta la banda però aveva una comune base stabile sui monti ed i folti boschi del Taburno presso i quali allestivano tende e baracche.

Solitamente ogni banda conquistava i propri fucili con colpi di mano contro i corpi di guardia nazionale o negli scontri con i Piemontesi, ma in generale erano armati del fucile da caccia tipico dei contadino. In verità la banda Della Gala a secco di fucili in certe occasioni poté contare sulla solidarietà popolare: Francesco Frecentese e Nicola Pinta, militi della Guardia Nazionale di Palma, furono espulsi dalla milizia perché, in un giro di perlustrazione, si allontanarono dai commilitoni raggiungendo gli uomini di Cipriano per poi ritornare completamente disarmati (ASC, Alta Polizia f. 5879). L’indomani la banda, necessitando di altre armi, mosse su Cervino e Durazzano requisendo i fucili dai locali posti di Guardia.

Numerose furono pure le imboscate attuate dagli uomini di Cipriano. Il Molfese scrive che i briganti effettuavano “scariche improvvise sul fianco delle colonne avanzanti e attacco principale da altre direzioni, in località dominanti accuratamente scelte, con vie di ritirata sempre aperte per i boschi o verso monti”.

Un buona banda però non può nulla senza il supporto di fidati “manutengoli”, di spie, di conniventi. Tra il settembre ed il dicembre del 1860 furono arrestati diversi favoreggiatori tra i quali comparivano contadini, artigiani, parroci, guardie civili.

Altra scelta tattica dell’intera banda fu l’assalto alle carceri. Il 13 novembre del 1860 assalì il carcere di Cicciano liberando Ferrara Alessio di Taurano, Del Mastro Francesco, Guerriero Giuseppe di Baiano e Colucci Domenico di Domicella (ASC, Alta Polizia, f. 3863). Tutte le carceri dei territori battuti dalla banda erano in allerta, pattuglie di militi nazionali le proteggevano spesso invano. Bisognerà però attendere il giugno del 1861 per assistere ad un atto straordinario.

In tarda serata Cipriano e diciassette uomini della sua banda vestiti e disposti come fossero un drappello della Guardia Nazionale si presentarono alle porte del carcere di Caserta accompagnati da diversi mastini napoletani dicendo che dovevano consegnare due malfattori. Nessuno poté riconoscerli e senza indugiare furono loro consegnate le chiavi. Pochi attimi e tutte le celle del carcere furono aperte. Furono liberati 56 detenuti di cui 34 aderirono la stessa notte alla banda, erano Giona Della Gala, Domenico Gentile, Domenico Sparano, Alessandro Greco, Antonio Fiorilli, Giovanni Iandola, Filippo Luri, Giovanni D’Avanzo, Giuseppe Barone, Nicola Maturo, Giuseppe Basilicata, Raffaele Chiavitto, Giuseppe Tartaglia, Nicasio Penna, Francesco De Nardo, Stanislao Picasio, Giovanni Perone, Angelantonio Rinaldi, Angelomaso Marino, Pellegrino Petrillo, Vincenzo Lo Duca, Salvatore Villani, Raffaele Santoro, Francesco Novelli, Giuseppe La Manna, Vito Stolfa, Francesco e Andrea Cerrito, Giovanni De Cesare, Luigi Spera, Francesco e Vincenzo Casilla, Saverio Caccavale e Alessandro Rossi (Sentenza Sezione di Accusa della Corte di Appello di Napoli del 4 luglio 1863).


- Punti di vista

Il compito dello storico non è solo la ricostruzione dei fatti. Egli è prigioniero di una necessità, quella di districarsi anche nella ricostruzione “ideologica” affinché categorie d’analisi postume ed infondate non facciano travisare la reale dimensione dei fatti stessi. Tutto ciò però rischia di divenire un immenso lavoro di Sisifo tante sono le insidie celate dietro l’angolo.

Se è vero infatti che il fenomeno restituito nella sua integrità storica e quotidiana non produce di per sé alcun sapere effettivo, ma solamente una storia tra le storie di esperienze consumate rapidamente in un passato magari esotico, è altresì vero che ogni studio su l’ “in sé” dell’oggetto riconduce sempre allo scacco metafisico dell’intera storiografia.

Il fenomeno del passato, proprio perché è “passato” e dunque non coincide più con l’evento, ma ne è direttamente alla base, impone alla Storia di oltrepassare il fatto storico ricostruibile stesso. Questa necessità di fornire una interpretazione del fenomeno trascina lo storico da pars destruens ad essere pars costruens e gli impone di muoversi su terreni davvero pericolosi: se il fenomeno è rappresentazione del noumeno, ha lo storico gli strumenti per risalire al noumeno? Può ragionare con gli avanzi marginali delle scienze sociali nel tentativo di compiere quella necessaria ricognizione di idee?

Troppo grande è il rischio di ragionare sulla base di opinioni, modelli fallaci, aporie e congetture, archetipi erronei. Eppure la Storia, una certa storia che a ben dire non meriterebbe la maiuscola, non si è fatta scrupoli, ha usato categorie di analisi comode ad una interpretazione conformista, compiacente al potere costituito. Questi storici hanno avuto ed hanno l’ardire di infangare la Storia. Non si interrogano sulle problematiche connesse allo studio del concetto di rappresentazione, preferiscono non farlo. Sappiamo bene che ciascun fenomeno può essere sia rappresentazione che rappresentato e sappiamo anche che lungo questa faglia la Storia diviene il terreno di scontro di idee contrapposte. Tale contrasto però non riflette in essenza che lo scontro tra il vecchio ed il nuovo sapere, tra verità meno compiute e verità più compiute, e non può tollerare una elegia al mecenate che finanzia università ed accademie.

Cosa possono raccontare le carte processuali se non il punto di vista dei vincitori? Sarebbe invece lecito indagare sul e dal punto di vista degli sconfitti.

Il giorno 13 giugno del 1861 tre donne a San Paolo furono arrestate perché zufolavano una canzoncina allegra che recitava “Viva Cipriano che ci ha dato la libertà”. Il capo della locale Guardia Nazionale pretese invece che gridassero “Viva il Re Galantuomo” come era chiamato l’invasore Vittorio Emanuele e dinnanzi al rifiuto delle donne pensò di arrestarle. Accade però che le tre si rifugiarono in un vicino palazzo e non intesero uscirne. Fu allora che intervenne in loro soccorso Saverio Napolitano che provò a bastonare la Guardia Nazionale. Furono arrestati tutti e quattro e condannati a cinque giorni di detenzione (Giudicato Regio di Saviano, sentenza 22/6/1861). L’episodio è rivelatore del fatto che se per le autorità politiche e giudiziarie del Regno d’Italia Cipriano Della Gala era un bandito, un assassino, un “camorrista”, per il popolo invece Cipriano era un liberatore. Aveva ragione il generale piemontese Giuseppe Govone che interrogato alla Camera nel dì 13 luglio del 1863 sul perché le popolazioni meridionali sostenessero i briganti, ebbe a dire: “I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti, che la società loro infligge”. Per i contadini Cipriano Della Gala non era un delinquente, un uomo pericoloso, no, era addirittura un uomo che dava la libertà.

Fermiamoci un attimo a riflettere perché se il brigante è “colui che da la libertà”, giudici, guardie, carcerieri e politiche, l’intero Stato che reprimono il brigantaggio chi sono per il popolo se non coloro che tolgono la libertà, oppressori, despoti. Vale cioè la sentenza di Publilio Siro: “iudex damnatur, cum noces absolvitur”.

Il bello è che la libertà Cipriano l’aveva davvero data quando nella notte del 16 giugno del 1861 travestito da Guardia Nazionale riuscì a farsi dare le chiavi del carcere di Caserta e a liberare tutti i detenuti lì relegati.


- I generali Pinelli e Franzini

A capo delle forze italiane per la repressione del brigantaggio nella provincia di Terra di Lavoro, sin dal 30 giugno 1861 c’era il generale Ferdinando Pinelli, ai suoi ordini la Guardia Nazionale Mobile, cinque battaglioni di bersaglieri, due reggimenti di fanteria, artiglieria da montagna, due compagnie di granatieri e quattro squadroni di cavalleggeri. Con riferimento a Nola, scrivevamo in Il Brigantaggio Postunitario in Terra di Lavoro che quel distretto era nell’anno 1866/67 il più militarizzato con 5,1 militi per km per un totale di 1405 militi di cui 1348 soldati, 51 carabinieri e 6 soldati di pubblica sicurezza. La Guardia Nazionale era stata sciolta a partire dal 1862 per continue collaborazioni con gli insorti. Il Pungolo del 24 agosto di quell’anno rimuove ogni dubbio sulle intenzioni del generale Pinelli: egli doveva distruggere le bande “di Ciprian la Gala di circa 150 briganti, fra i quali alquanti francesi e bavaresi; quella di Antonio Caruso di circa cinquanta; una terza di Antonio del Mastro di circa quaranta; una quarta di Angelo Bianco di circa 36; una quinta di Crescenzo Gravina, di cui ignorasi il numero dei componenti”. Ci sembra inverosimile che tanti militi armati fino ai denti non riuscissero ad arginare meno di trecento uomini armati su un territorio di appena 259,73 kmq scarsamente montagnosi. Probabilmente gli uomini di Cipriano erano molti di più e lo erano perché godevano di un ampio sostegno popolare, sostegno che invece mancava ai Piemontesi.

Sono numerosi i resoconti e gli esisti degli scontri tra le truppe di Pinelli ed i briganti presenti sui giornali dell’epoca, ma tanto numerosi quando inaffidabili. Il primo settembre del 1861, le truppe eseguirono i chiari comandi del generale Pinelli: occuparono le pendici di Montevergine, Monteforte ed ancora Mercogliano e Summonte. Imponenti colonne di uomini presidiavano montagne e centri abitativi di Roccarainola, Mugnano e Baiano. Al comando di Pinelli c’erano 4.000 uomini, due compagnie di granatieri e 2 pezzi di artiglieria piazzato sul castello di Avella, una numerosa colonna di bersaglieri che  occupava l’intera piana di Lauro. Così disposte le truppe attesero l’intera notte di sabato ed all’alba di domenica scagliarono tre violenti attacchi. Il primo a Sarmola si ingaggiò con la banda di Antonio del Mastro; i briganti furono accerchiati al sopraggiungere dei bersaglieri da Lauro. Il secondo attacco fu mosso tra Falconara e Fornino contro la banda di Angelo Bianco. Il terzo, infine, avvenne a Fellino direttamente con Cirpiano Della Gala. Stando al comunicato di Pinelli riportato dai giornali, almeno le bande di del Mastro e Bianco sarebbero dovute essere distrutte, ma pochi giorni dopo le ritroviamo più attive e folte di prima.

Quando i fallimenti di Pinelli non furono più tollerati a Torino, toccò al generale Teobaldo Franzini sostituirlo. Teobaldo impose ai sindaci dei distretti di Nola, Avellino e Melfi, di impedire ad ogni cittadino di allontanarsi dal centro urbano per raggiungere campagne e monti perché aveva notato che “dalla gente che lavora in campagna all’appressarsi della forza sempre si alzino voci, gridi ed anche si tirino colpi di fucile nel colpevole fine di darne avviso alle bande de’briganti”. Quale provvedimento più intelligente e civile che ordinare la fucilazione immediata di chi assumesse simili comportamenti? Teobaldo lo legiferò ed aggiunse che la raccolta delle castagne nel mese di novembre fosse conclusa in tre giorni, che fossero distrutti i pagliai e murate le case rurali per impedire ai briganti di rifugiarvisi (ASC, Gabinetto Prefettura, b. 1 f. 29). La risposta militare fu brutale, furono sbattuti in carcere i parenti dei briganti come il padre di Antonio Caruso, la madre e la sorella di Cipriano ed i suoi fratelli Romano e Felice “nonché l’altro stretto congiunto a nome Felice Barone e di costui figlio che stanno nel luogo detto Madonna delle Grazie” (ASC, Alta Polizia, f. 6617).


- I fucilati

Non possiamo esentarci dal citare “Il brigantaggio nolano” di Pasquale Perna che raccoglie numerose notizie tratte dall’analisi degli archivi parrocchiali del nolano. Da questo testo abbiamo tratto il seguente elenco di briganti della banda Della Gala fucilati: 

- Curcio Gennaro, contadino di anni 25 di Casamarciano, e Settembre Raffaele, contadino di anni 55 di Cimitile, fucilati il 2 agosto 1861, ore 16.00 a Casamarciano;

- La Manna Stefano, contadino di anni 42 di Visciano, fucilato alle ore 22.00;

- Petillo Felice, contadino di anni 22 di Risigliano, fucilato l’8 agosto 1861 a Risigliano;

- Pascarella Angelo, contadino di anni 40, Simonelli Carlo, muratore di anni 35 e Napolitano Pasquale, muratore di anni 37, tutti di Saviano, fucilati il 17 agosto 1861 alle ore 24 a Nola;

- Guacci Francesco, soldato sbandato della leva 1857 di Solofra, conciatore di pelle, fucilato il 20 agosto 1861 a Nola;

- Ragosta Raffaele, colono di anni 38, e Esposito Sebastiano, artiere, di anni 28, di Marigliano, fucilati il 21 agosto 1861 alle ore 24 a Marigliano;

- Cicia Luca, colono di anni 27, di Durazzano, fucilato a Baiano il 23 agosto 1861 alle ore 14;

- Iuliano Salvatore, barbiere di anni 18 di Sirignano, fucilato il 23 agosto 1861 a Mugnano;

- Ferraro Antonio, di Taurano, di anni 60 bracciale, fucilato a Lauro il 29 agosto 1861 ore 11;

- Napolitano Pasquale, manovale di anni 48 di Cicciano, e Giuliano Carmine, di anni 23 di Camposano, fucilati a Cicciano il 2 settembre 1861 alle ore 20.00;

- Botta Vincenzo, falegname di anni 22 di Mugnano, fucilato il 3 settembre 1861 alle ore 23 a Mugnano;

- Tulino Pasquale, Maia Giovanni, contadini di Avella, fucilati il 4 settembre 1861 ad Avella;

- Di Palma Giovanni Antonio, di anni 23 di Somma, fucilato il 9 settembre 1861 a Nola;

- Lanza Domenico, colono di anni 24, di Nola, e Natale Giuseppe, molittaro di anni 23 di S. Benedetto di Caserta, fucilati il 9 settembre 1861 a Nola;

- Sorgenta Angelo, contadino di anni 33 di Marigliano, fucilato alle ore 18 del 14 settembre 1861 a Marigliano;

- Amato Onofrio, di Acerra, fucilato il 17 settembre 1861 a Nola;

- Daniele Pantaleone, possidente di anni 82, il figlio Raffaele di anni 50 e la nipote Daniele Maddalena, di anni 22, di Carbonara, fucilati il 18 settembre 1861 a Carbonara;

- Imbimbo Giuseppe, armiere di anni 50, e Guerriero Michele, pastore di anni 40, di Avella, fucilati il 23 settembre 1861 a Tufino;

- Russo Francesco, detto Ciccariello, contadino di Livardi di anni 35, fucilato il 2 ottobre 1861 a Nola;

- Piscitelli Antonio, carrese di Faibano frazione di Marigliano, fucilato il 5 ottobre 1861 alle ore 13.00 a Marigliano;

- Rocco Antonio, contadino di anni 28, e Palumbo Raffaele, contadino di anni 19, entrambi di Cimitile, fucilati il giorno 19 ottobre 1861 alle ore 23.00 a Nola;

- Muzio Michele, bracciale di 21 anni, di Palma, fucilato l’8 dicembre 1861 a Palma;

- Parisi Francesco, contadino di anni 23 di Cicciano, fucilato il 14 dicembre 1861 a Cicciano;

- Alfano Antonio, bracciale di anni 26 di Palma, fucilato il 16 dicembre 1861 a Palma;

- Fortino Tommaso, garzone di anni 24, di Moschiano, fucilato il 17 dicembre 1861 a Nola;

- Di Napoli Luciano, negoziante di 33 anni di Sirignano, Colucci Andrea, negoziante di 35 anni di Sirignano, Cuomo Michela, contadina di Sperone, fucilati il 18 dicembre alle ore 23 a Mugnano;

- De Luca Pietro, bracciale di anni 22, fucilato alle ore 15 del 23 dicembre 1861 a Palma;

- Peluso Antonio, di anni 27 di San Felice, e Simonetti Antonio, di anni 20, fucilati il 24 dicembre 1861 a Palma;

- Savino Nicola, di anni 28, fucilato il 27 dicembre 1861 a Nola;

- Amoroso Rocco, bracciale di Pago di anni 33, fucilato il 27 dicembre 1861 a Liveri;

- Autiero Pellgrino, di anni 47 di Roccarainola, fucilato il 7 gennaio 1862 a Roccarainola;

- Gragnano Gaetano, proprietario di anni 50 di Vignola, fucilato l’8 gennaio 1862 a Tufino;

- Tedeschi Carmine e Tedeschi Liberato, Guerriero Domenico, Pecchia Michele, Petrillo Nicola, di Mugnano, fucilati il 7 febbraio 1862 alle ore 21.00 a Mugnano;

- Acierno Pasquale di Quadrelle, fucilato l’8 febbraio 1862 a Quadrelle;

- Saulino Saverio, bracciale di anni 32 di San Paolo, fucilato l’8 febbraio 1862 a San Paolo.

- Lancella Giuseppe, di Campomaggiore di Basilicata, di anni 29, fucilato il 2 aprile 1862 alle ore 13.00 a Palma

- Miele Pasquale, contadino di anni 22 di Cicciano, fucilato il 13 aprile del 1862 a Cicciano;

- Lettieri Nicola, soldato disertore, fucilato il 26 aprile del 1862 a Nola;

- Maffettone Antonio, contadino di Taurano di anni 28, e Isernia Nicola, pecoraro di Marzano, fucilati il 9 giugno alle ore 23.00 a Nola;

- Piccolo Antonio, contadino di anni 22 e Di Amodio Bonavolontà, di anni 32, entrambi di Pomigliano d’Arco, fucilati l’11 agosto del 1862 a Brusciano;

- Giuliani Giovanni di Quadrelle, fucilato il 24 agosto del 1862 a Quadrelle.

Così Pasquale Perna contava 64 briganti fucilati nel solo nolano ben prima dell’entrata in vigore della Legge Pica, cui sommare i 263 fucilati provenienti da Montefusco e quanti moriranno nello scontro finale sulle catene montuose di Roccarainola.


- La disfatta

In queste condizioni era difficile resistere. Il territorio era militarizzato, la banda era tallonata, la cerchia dei manutengoli si restringeva sotto i colpi della repressione e l’ennesimo inverno da passare sui monti sembrava troppo greve.

Il 18 dicembre del 1861 la banda subì la prima pesantissima sconfitta: Cipriano aveva fatto accampare i suoi 500 uomini sull’altopiano di Piano Maggiore sull’Appennino tra la Valle Caudina e l’agro Nolano in territorio di Roccarainola, la grande quantità di boschi e anfratti naturali rendevano certamente quel luogo sicuro e, dunque, adatto ad un breve stanziamento, ma la notizia giunse al General Franzini che tentò un attacco; il 3° battaglione dei bersaglieri, comandati dal maggiore Robaudi, si posizionò sull’altura al lato Ovest, una compagnia di Guardie Nazionali chiuse il versante Sud verso Baiano e Mugnano del Cardinale, il 18° battaglione del maggiore Melegari occupò le cime dal versante Caudino a Nord, mentre altre due compagnie di Guardie Nazionali sopraggiungevano per chiudere i passi del Vallone di Forchia e di Cervinara. L’abbondante nevicata caduta nei giorni precedenti rendeva impossibile muoversi ad est verso il Partenio; dunque l’accerchiamento sembrava riuscito ed irreparabile, eppure la neve rallentò le operazioni dell’esercito e permise alla banda, destatasi dagli allarmi delle vedette, la rapida fuga verso San Martino. I briganti lasciarono sul luogo cibo, vestiti e capanne con le innumerevoli raffigurazioni di Santi e Madonne, ma proprio mentre fuggivano verso San Martino si imbatterono nella seconda compagnia della Guardia Nazionale che ingaggiò lo scontro. Nonostante fossero sopraggiunte sul posto le altre compagnie e i briganti furono presi tra due fuochi, l’eroico gesto di 31 di loro che lasciarono sul campo la vita per permettere la fuga ai compagni, fece sì che il grosso della banda si dirigesse verso il vallone di Cervinara, che nel frattempo i soldati avevano abbandonato. Anche qui in zona Montesarchio, i briganti furono assaliti dalla fanteria comandata dal tenente Negri e riuscirono a ripararsi sul Taburno e poi sul Partenio. Quel giorno la banda perse, tra morti e catturati, 163 dei suoi più valorosi uomini. Tre dei prigionieri furono subito giustiziati, erano Luciano di Napoli di Sirignano, negoziante di 33 anni, Andrea Colucci anche egli negoziante di 35 anni di Sirignano e Michela Cuomo contadina di Sperone.

Fu forse come conseguenza di queste sconfitta che la banda decise di dividersi in quattro nuclei: la prima con una cinquantina di elementi comandata da Cipriano, la seconda di quindici elementi diretta da Crescenzo Gavina, la terza, anch’essa, di quindici comandata da Nicola Piciocchi e la quarta di dieci uomini diretta da Antonio Testa.


- L’Aunis

Era il 10 luglio del 1863 quando tre lance armate della Marina Italiana nelle acque del porto di Genova si disposero a semicerchio a poppa del vapore Aunis delle Imperiali Messaggerie Francesi. Il piroscafo svolgeva regolare e periodico servizio sulla linea Civitavecchia-Livorno-Genova-Marsiglia-Barcellona. Salirono sulla passerella dell’Aunis alcuni funzionari della polizia italiana accompagnati da 25 carabinieri armati. Accorse l’ufficiale in seconda del piroscafo che, pur riluttante, dovette alla fine accettare la perquisizione delle propria nave. I poliziotti individuarono cinque strani uomini, sobriamente vestiti con gilets, orologi, fazzoletti nei taschini, cravatte sgargianti e in possesso di regolari passaporti vistati dalle legazioni di Spagna e Francia nello Stato Pontificio; si trattava proprio dei fratelli Cipriano e Giona Della Gala e di tre loro gregari, Pasquale D’Avanzo, Domenico Papa e Angelo Sarno. Essi furono fatti scendere, ammanettati e condotti immediatamente al Palazzo del Governo tra le proteste dei Francesi. Anche il Console, informato in ritardo dell’operazione, protestò con l’ambasciatore di Francia De Sartiges, mentre Costantino Nigra, ambasciatore italiano a Parigi dovette fornire minuziosi chiarimenti al Ministro agli Esteri di Napoleone III: era sorta una delicatissima disputa che dalla politica passava al diritto internazionale perché l’operazione, organizzata in tutta fretta dal prefetto di Genova Gualtiero, avvisato da un telegramma cifrato del collega di Livorno, a sua volta informato da un agente di Civitavecchia, doveva necessariamente ricevere l’avallo dei Francesi, che invece non erano stati interpellati. A Marsiglia o Barcellona i comitati borbonici avrebbero provveduto a sistemare i briganti in attesa di una nuova importante spedizione in Italia con nuova identità. Ci furono colloqui e scambi di note tra le diplomazie e alla fine prevalse la tesi che la nave delle Messaggerie Imperiali non si poteva perquisire. I Della Gala, dunque, furono rimessi in viaggio verso la Francia, l’accordo prevedeva, però, che le autorità transalpine restituissero i cinque, puntualmente consegnati il 7 settembre agli italiani.

La loro fine portò anche ad arresti speciali che sucitarono grande scalpore come quello del principe Medici di Ottajano, accusato di aver contribuito a mantenere ed armare le bande del Taburno (C. Cimmino, pag.59).

Sembrò pure che Cipriano dovesse essere impiegato in qualche azione nel Marzo del 1862 agli ordini di Tristany. Ai primi di Marzo del 1864 si tenne, invece, il processo i cui imputati erano Giona e Cipriano Della Gala assieme a D’Avanzo e Papa, i documenti non chiariscono la fine di Angelo Sarno, liberato o forse morto. La Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere sentenziò la pena di morte per i due fratelli, i lavori forzati per Papa e venti anni per D’Avanzo. Dopo pochi giorni, però, un decreto reale commutò le condanne a morte in carcere a vita. Era chiaro che l’estradizione francese era stata concessa solo dopo che il governo torinese si era impegnato a lasciare in vita i briganti. Cipriano fu recluso al Reclusorio della Foce a Genova e Giona in quello di Portoferraio fino alla morte.


- Funerali per la storiografia di Stato

La domanda principe che muove ogni studioso di fatti sociali è semplice: sono io in grado di descrivere il mio oggetto di studio in termini di input ed output? Posso cioè cogliere nel fenomeno da me osservato cause ed effetti, stimoli e riposte? Lo stimolo, l’input, l’incentivo, la motivazione può essere qualsiasi condizione mutevole verificatasi o verificantesi, un cambiamento, un fatto che incida sulla dimensione studiata fino a modificarla. La modifica è invece l’output, la risposta. E’ così semplice allora individuare l’invasione piemontese come input scatenante come risposta la reazione di gente chiamata briganti dal potere politico che proprio contro di loro si va consolidando.

Questi i fatti, agli altri lasciamo pregiudizi ed aporie ed a loro ricordiamo un pensiero di Leopardi: “Io conobbi già un bambino il quale ogni volta che dalla madre era contrariato in qualche cosa, diceva: ah, ho inteso, ho inteso: la mamma è cattiva. Non con altra logica discorre intorno ai prossimi la maggior parte degli uomini, benché non esprima il suo discorso con altrettanta semplicità”.

Non serve proseguire oltre, perché è sufficientemente chiaro l’assunto di fondo: il fallimento di centocinquanta anni di Italia unita si esprime innanzitutto nel fallimento culturale, nel fallimento della scienza storica che l’Italia ha sviluppato: facciamo i conti con la storia monopolio di stato che ha plasmato i cittadini imbottendoli di rappresentazioni congetturali necessarie alla legittimazione politica del Moloc unitario.

La conseguenza drammatica è che alla scienza storica oltre all’oggetto osservabile è stato tolto anche l’oggetto percepibile in un vortice vizioso che ha generato false oasi di storia libera foriere di tanti miraggi. Ad Urano hanno fatto seguito già tanti piccoli Crono promotori di una storia partigiana in senso opposto a quella risorgimentalista che non è altro che una ulteriore sconfitta per la Storia.

Ci dissociamo da ogni partigianesimo, lasciamo alla storia il titolo di scienza, pensiamo solo di aver enucleato i gravi limiti di una storiografia travolta dall’immaginario collettivo postunitario. Forse se più volte è stata proclamata la morte della filosofia o della religione, oggi proprio il Sud può proclamare a pieno titolo la morte della scienza storica italiana e i funerali si celebreranno negli Archivi di Stato.








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