L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml



Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012


Fonte:
QUADERNI CALABRESI - DEL MEZZOGIORNO E DELLE ISOLE N. 47
Settembre 1980 - pagg. 3-5

IL RE È MORTO, VIVA IL RE

di Nicola Zitara

In questi nostri centri dell'assolato Meridione, che furono tributari della vecchia nobiltà napoletana e dove, fino a trenta anni fa, non di rado, il padrone prendeva a calci il «suo» contadino, spadroneggiano ora nuovi signori. Non sono più baroni o principi, e neppure galantuomini: sono medici e avvocati, professori e farmacisti, portalettere e collocatori comunali, mafiosi e vittime della mafia. Non sono una classe, sono una mentalità, una cultura. Non sono solo, come si crede, lo stato di diritto rovesciato in clientela e ridotto a sberleffo, sono qualcosa di più.

Intanto, come si diceva, non sono una classe, almeno in senso marxista, perché ciò che distingue tale insieme non è il modo di produzione del reddito. Lo sono invece nei termini di una contrapposizione sociale, assolutamente non nuova nella storia, tra coloro che dispongono di un potere e coloro che debbono sottostare. Se si trattasse dei germani di cui parla Tacito, diremmo «i forti e i deboli». Ma siccome l'età delle spade è finita e la correlazione è in effetti di natura morale, diciamo: i padroni e i leccapiedi.

Chi poi, per sua disavventura, non possiede la struttura immorale per stare al gioco (nell'una o nell'altra posizione) è espulso dalla società. Ai tempi d'oggi, nessuno Io prende più a calci, salvo che non capiti nelle mani della «giustizia», ma consapevolmente si taglia fuori dalla comunità come un ribelle. In certo senso finisce di essere uomo perché viene considerato un deviante, sconvolto dalla superbia, dal-


l'autolesionismo, da un orgoglio ingiustificato. L'ultima libertà che gli rimane è quella di sedersi su una panchina in piazza e di borbottare insofferenze sottovoce, sparlare, imprecare, ingiuriare. Ma sottovoce: il padrone è diffuso, onnipresente, connivente e solidale; è un corpo sociale che ha mille occhi e mille orecchie come i lazzari di Francesco Mastriani, e come i lazzari non perdona. Non che si rischi una coltellata a sparlare o a stare fuori del giro, ma il lavoro, il pane, la carriera, la vita professionale, i diritti sanciti in mille leggi dipendono dai padroni. Se non hai un amico tra di loro, tutto diventa enormemente difficile. Appartiene alla categoria dei padroni chi è in condizioni di fare qualcosa per un altro, tanto che si tratti di cosa legale, quanto che si tratti di cosa illecita, tanto gratis, quanto a pagamento. Un ufficiale giudiziario che eleva protesto contro tutti gli assegni a vuoto, non è un padrone. Lo è l'ufficiale giudiziario che trova il modo di palleggiarsi tra mani e cassaforte l'assegno scoperto, finché l'insolvente non ha trovato il modo di coprirlo. Chi sta nel giro commerciale, se ottiene il favore diventa cliente dell'ufficiale giudiziario e viceversa. Nasce cioè un sodalizio basato su favori reciproci che può allargarsi al direttore di banca, all'avvocato e, proseguendo di nodo in nodo, al medico veterinario, al tesoriere comunale, all'infermiere, al giardiniere comunale, all'idraulico, al capo dell'Enel, in un inestricabile rosario di amicizie favoritistiche che di solito non conosce distinzioni sociali e colori di partito.

Logicamente un ufficiale giudiziario rigoroso, in un mondo in cui gli ufficiali giudiziari sono di solito disponibili a sgonfiare il rigore delle procedure, avrà pochi simpatizzanti, giusto quelli che non hanno un blocchetto di assegni e sono inclini a deprecare sottovoce il generale andazzo dei favoritismi. Ma, come dicevo, si tratta di una minoranza la quale si autocensura, poiché in generale, qui in Meridione, un «amico» non lo trova solo chi si rifiuta.

L'amicizia è il rullo compressore che livella e amalgama la sovrastruttura morale della società meridionale. Trattandosi di un fenomeno di riflessione, ovviamente anche le basi strutturali presentano una forte omologazione. Inserisco brevemente l'argomento perché trattarlo approfonditamente richiederebbe notevole impegno e molta capacità di penetrazione.

Non siamo più ai tempi di Salvemini o di Gramsci, e di quei grandi patrimoni, di cui quest'ultimo paria nel famoso scritto sulla questione meridionale, credo non sopravviva nessuno, almeno nella forma


di rendita dominicale. Benedetto Croce, se vivesse oggi, dubito che rifiuterebbe la cattedra universitaria e i relativi emolumenti. Anche a possedere ventimila pecore, nessuno nell'attuale realtà economica, potrebbe comprare un palazzo Filomarino e rinchiudersi nelle sue stanze per dedicarsi agli studi. Ma non esiste neppure più Gagliano. In realtà il meridione si è incredibilmente arricchito negli ultimi dieci anni. La miseria è scomparsa. Anche la disoccupazione è scomparsa, eccetto quella dell'«esercito terziario di riserva».

Chi è senza lavoro va via. Qualche famiglia va del tutto via prima che i figli crescano, in modo che si trovino ben acclimatati nella società settentrionale, quando saranno cresciuti. Certo delle quinte nere si vedono qua e là nell'intero scenario meridionale: a Napoli, a Palermo, a Catania, nei borghi di montagna esistono sacche di antica povertà. E c'è anche un mondo di povertà moderna, esteso numericamente e diffuso geograficamente, del quale si parla molto, salvo a lasciarlo lì dov'è e cosi com'è. Ma escludendo i settori estremi in alto e in basso, nel complesso il Meridione presenta tre varianti di un grande strato sociale, per il quale le categorie tradizionali di classificazione sociale non sono più calzanti.


1. Coloro che sbarcano il lunario.


Si tratta di una classe di reddito che sta tra le quattrocento e le seicentomila lire mensili di entrate familiari. A lavorare è in genere il solo capofamiglia, ma può capitare che intervenga l'aggiunta di una indennità di disoccupazione del coniuge o la pensione di un anziano. Sono famiglie di piccoli impiegati, maestri, professori, netturbini, vecchi contadini che producono ortaggi, qualche bottegaio nei piccoli centri, operai e dipendenti in genere del settore privato senza specializzazione professionale, ecc.


2. Benestanti.


Si tratta di famiglie con reddito superiore alle seicentomila lire circa e inferiore al milione e mezzo.

È il gruppo più consistente. In genere sono occupati entrambi i coniugi, oppure uno dei due, di solito la moglie, porta avanti una bottega. Comprende famiglie di insegnanti, medici ospedalieri, operai specializzati, artigiani, bancari di basso rango e altri pubblici e privati dipendenti di grado medio, ecc.



3. I ricchi.


Famiglie che superano il milione e mezzo-due milioni e mezzo circa di reddito mensile.

Comprende famiglie di commercianti, grossi imprenditori agrari, avvocati, medici, piccoli appaltatori edili, farmacisti, commercialisti, qualche artigiano più fortunato, piccoli industriali, ecc.

Le tre classi di reddito così abbozzate costituiscono un unico corpo sociale che—è importante annotare—ingloba forse il settanta per cento della popolazione meridionale. Anche se il modo di produzione del reddito è vario, non esiste differenza di mentalità tra un direttore di banca, un avvocato e un capomastro-imprenditore che la sera, sporco di calce, torna a casa in Mercedes. Al di là dell'ultima cifra abbiamo una classe minoritaria di super-ricchi. Non mi pare, a proposito, che sia di grande rilevanza sociale distinguere tra capitalisti e non, cioè tra soggetti che traggono profitto dalla trasformazione del denaro in merce per il mercato, e soggetti che ricavano entrate rilevanti dalla rendita e dai servizi. In effetti il lavoro subalterno o libero alimenta le entrate degli uni e degli altri, poiché profitti e rendite si ridistribuiscono e circolano a favore di tutti coloro che si collocano in posizioni sociali eminenti.

Nell'ambito descritto della classe di mezzo, non solo colletti bianchi e mani callose vivono a contatto di gomito e anche se i più agiati manifestano esigenze di status (casa, abbigliamento, scuole particolari per i figli, ecc.), non esiste tuttavia frantumazione culturale, poiché le differenze economiche non comportano l'incrinatura dei comuni orizzonti e della comune concezione della vita sociale. Ciò perché in primo luogo le istituzioni sociali volontarie, come i partiti, i sindacati, le associazioni visibili e segrete, i circoli ricreativi e sportivi in genere tendono (consapevolmente o inconsapevolmente) a mettere insieme il primario chirurgo, il meccanico, l'impiegato comunale, il piccolo industriale, ecc. In secondo luogo perché è la distribuzione del reddito e il modo di consumarlo a delimitare le posizioni sociali. Possibilità effettive, ambizioni frustrate, più che dividere, accomunano i ceti intermedi. Il mondo meridionale è oggi il regno della uniformità borghese, delle ambizioni borghesi, del benessere borghese. La forte mobilità ascensionale che si è avuta negli ultimi due decenni ha squarciato e travolto vecchie costumanze e consolidate distinzioni economiche e sociali. Dentro questo regno della borghesia la comunità sopravvive non come retaggio del passato ma come sistema di autodifesa nella forma di amicizia favoritistica.



C'è anche un aspetto secondario del fenomeno.

L'amicizia che lega gruppi solitamente elastici di persone come in una catena di Sant'Antonio, dal punto di vista della psicologia sociale, somiglia al concetto di spesa opulenta di Veblen. L'elemento prestigio ha infatti una sua enorme parte in siffatti comportamenti.

Chi è in condizione di favorire gli amici, in misura sempre più vasta e spesso illecita, riceve stima e favore sociale.

In fondo, in una società dove il pane quotidiano è assicurato dalle capacità personali (nella produzione e nei servizi) solo per una minoranza mentre la maggioranza lo riceve perché si è assicurata una sinecura, ciò che veramente conta è la possibilità di favorire il prossimo e il prossimo del prossimo.

Ma al di là di questa, non so quanto aderente osservazione, la causa delle cause del pantano meridionale mi pare vada cercata più a fondo nella istituzionalizzazione totale del mercato del lavoro, non solo nel settore terziario ma anche in buona parte di quello secondario.

Si tratta di un fenomeno che andrebbe considerato senz'altro positivamente se fosse il prodotto di una legislazione sociale tanto coraggiosa da mettere in atto la norma concernente il diritto al lavoro e che andasse anche un pochino oltre, riconoscendo «il salario dell'ozioso». Invece, come è risaputo, la situazione attuale è il prodotto di una contorta politica di rabbonimento dei ceti medi e di egoistica autodifesa da parte della classe operaia, che lascia scoperti i veramente deboli. Contro l'alea insita nel libero mercato del lavoro sono state escogitate garanzie severe. In mancanza di un sistema generalizzato e duttile di tutela contro la disoccupazione, la società ha prodotto un armamentario di difese e sbarramenti tanto numerosi, tanto rigidi e così vessatori, da inchiodare gli occupati in ruoli, sedi, posizioni che accettati all'atto dell'inserimento nel posto come scotto da pagare per accedervi, diventano successivamente, una volta raggiunta la sicurezza dell'impiego, insopportabili perché penosi, costosi, estremamente faticosi. Comincia allora l'affannosa impresa di rompere la colata in cui l'occupato è stato cementato: un'operazione che nel settore pubblico è possibile solo attraverso la catena delle amicizie.

A volte poi la legislazione è antiquata e quindi insensibile a situazioni sociali nuove. Se si sono superati i trentacinque anni (mi pare) non si può accedere a un pubblico impiego. La cosa sarebbe giusta se non ci fossero persone di trentasei e più anni. Perché codeste persone possono mettersi in lista soltanto per un'occupazione privata, quando


al tempo d'oggi il settore pubblico è così vasto? Allora tutti a correre dietro il riconoscimento di un'invalidità civile che dilata i termini per l'impiego pubblico. Il novanta per cento degli invalidi civili che sono stati sfornati dalle commissioni mediche hanno condizioni di salute assolutamente normali. Un sarto di cinquant'anni, senza particolari acciacchi, ma senza più clienti, come può trovare lavoro da infermiere? Solo se invalido civile. Interviene a questo punto l'amicizia con qualcuno che può indurre la commissione medica a riconoscergli una debolezza coronarica.

Se si fa eccezione della legge per i poveri che tanto angosciò l'Inghilterra nei secoli scorsi, nessun paese, che io sappia, investito da un processo di violenta trasformazione sociale ha mai adottato specifici provvedimenti a favore degli espulsi dal lavoro tradizionale. Spesso si è parlato da parti diverse, per esempio, di riqualificazione professionale (salvo a non farne niente), ma la questione non ha mai riguardato, neppure in teoria, gli appartenenti a settori della produzione diversi da quelli industriali. Se l'industria dell'abbigliamento toglie lavoro ai vecchi sarti di paese e se i rasoi elettrici tolgono clienti ai vecchi barbieri, la faccenda riguarda solo loro. Tanto non sono operai, e per di più sono anche anziani! Ve lo immaginate Lama che galvanizza le masse a favore dei vecchi barbieri? Per le confederazioni sindacali solo la produzione conta e su codesti ciarpami di un vecchio mondo è più comodo chiudere gli occhi.

Invece l'amicizia vede e provvede. L'anziano barbiere viene proclamato invalido civile ed impiegato a far punture. Le farà male e di cattiva voglia: non è il suo mestiere. Deve tuttavia vivere anche lui e probabilmente ha anche dei figli da mantenere.

L'amicizia in questi casi assume la precisa funzione di rendere duttile ciò che è rigido. Potrebbe sembrare un intelligente rimedio, escogitato dall'esperienza, per vincere la sordità e addirittura l'ignoranza dei politici. Ma i guai che provoca sono maggiori dei mali che sana. Non piango se il sistema organizzativo e le istituzioni che ci reggono vanno in malora. Il problema grave è che l'etica sociale, invece che contrapporsi dall'alto di una più affinata moralità al sistema politico, degrada al di sotto di esso. Non c'è in sostanza una ribellione alla degradazione, ma un'acquiescenza, e del tutto un consenso che ripugnano. L'espediente, il raggiro dei vincoli legali sono diventati moneta corrente, ma purtroppo anche i valori meritevoli di difesa vanno in putrefazione. Chi si vede negare la fondata e legittima aspettativa di una sistemazione,


appunto perché essa gli è stata soffiata dal cliente di un potente, invece di ribellarsi, prende a darsi da fare per trovare anche lui un protettore.

Siamo nella melma fino alla cima dei capelli, e la melma straripa infognando tutto e tutti. Fino a dieci anni fa c'era ancora la possibilità di aggregarsi per resistere ad un tale andazzo, e per combatterlo. I punti di resistenza erano il partito comunista, il psiup ed in seguito i movimenti, ma anch'essi hanno ceduto.


Ho già osservato che nei periodi di rapida e violenta trasformazione delle forze della produzione viene in risalto l'assenza di una adeguata legislazione sociale di sostegno per i gruppi sociali più esposti e colpiti, e di quei produttori che vengono a trovarsi a lavorare in settori economicamente obsoleti. In una comunità nazionale traboccante di ricchezza come la nostra, chi è espulso per ragioni oggettive dal mercato deve sopportarne le conseguenze a livello personale e familiare, come se fosse colpevole del preciso reato di lesa produttività. Per i contadini non c'è stata alternativa all'emigrazione, all'inurbamento, alla trasformazione in massa di produttori senza qualifica. Per i ceti medi invece, il rigonfiamento del pubblico impiego è stato e può essere ancora una occasione. Non lasciarsela scappare è però un affare individuale. Ricorrere all'amico per assicurarsi un reddito è socialmente accettato in quanto bisogna aggirare un sistema zoppicante e sopperire all'assenza di una giusta e necessaria assistenza alla disoccupazione permanente. È naturale che un gruppo sociale scardinato dal suo assetto tradizionale per una violenza proveniente dall'esterno ricorra a dei ripieghi per sopravvivere. Tanto più che il sistema non ha offerto che uno sbocco: il rigonfiamento del pubblico impiego. Voglio dire che se il Meridione imputridisce, responsabili di questo non sono solo i meridionali, ma soprattutto chi ha trovato conveniente usare il Meridione come retroterra bracciantile dello sviluppo e come colonia di consumo di automobili e lavabiancheria prodotte in eccesso.

Lo sviluppo industriale del centro-Europa ci ha portato via i contadini e non ci ha dato gli operai. Ha invece alimentato l'espansione dei ceti a medio reddito attraverso la ridistribuzione dei surplus in costante aumento.

C'è chi sostiene che il fenomeno va inquadrato in un progetto politico, ben definito, che si è prefisso di ammortizzare lo scontro sociale. In parole chiare: più voti alla democrazia cristiana. Moderatismo politico e redditi medi si sostengono a vicenda. Una decina d'anni fa,


nello scritto «In attesa dell'avvento», sostenni che il tipo di sviluppo e di sottosviluppo correlato su cui si fonda il sistema italiano presupponeva una classe consenziente anche nel Meridione. Il fenomeno, emerso solo in seguito molto più limpidamente, mi rafforza nella mia vecchia convinzione, Infatti non solo la democrazia cristiana, ma anche i partiti di sinistra e i sindacati, che incarnano il sistema italiano sempre più spavaldamente, vanno capitolando a gara in una politica favorevole ai ceti medi. Ed hanno ragione di farlo se restiamo sul terreno elettorale perché si tratta delia parte più cinica ed egoista della nostra società; di un settore disponibile ad accettare qualunque bandiera pur di sopravvivere e, se possibile, prosperare. Nel frattempo però i ceti medi hanno capito che l'acquiescenza politica generalizzata apre loro degli spazi insospettati di manovra per l'autodifesa e perfino per l'aggressione.

Per un aspetto diverso, come si è già notato, la loro fisionomia dipende sempre più dal livello del reddito che dal modo di produzione. A questo punto la politica della sinistra è costretta a frastagliarsi, a contraddirsi spesso, ad aprire falle per tamponare buchi. Così i valori alternativi vanno dissolvendosi, e con essi il significato stesso di una politica di sinistra.

L'amicizia favoritistica, di cui si è tentato un abbozzo, comporta immancabilmente un rapporto clientelare. Tale rapporto non è sempre politico, anche se, gira e volta, chi ha una posizione di patrono o è già in politica, o finisce per esservi trascinato. I problemi connessi alla situazione sono noti ma solo in parte studiati senza prevenzioni. Si parla generalmente di caduta dei valori ed anche, sebbene con minore insistenza, di confusione politica. Non si accenna per altro, in modo alcuno, all'emarginazione dei resistenti. Infatti, sia pure ai margini del letamaio, esistono ancora degli isolati moralmente e politicamente, almeno in parte sani.

Per questi motivi vorremmo tentare, in confronto con noi stessi e con le tesi più ricorrenti, un'analisi delle cause funzionali del clientelismo che si affiancano a quelle politico-sociali.

Riprendiamo un concetto già accennato a proposito dell'invalidità civile. Non scomoderemo la Costituzione né quegli istituti fondamentali che le danno un volto. Il discorso è più grande e più piccolo: riguarda il rapporto di pubblico impiego.

Nello Stato moderno, la pubblica amministrazione rappresenta una



forma di autodisciplina della sovranità statale. I pubblici amministratori furono istituzionalizzati, nel nostro apparato, come una categoria particolare di cittadini super, strappati alla collettività e ai loro stessi problemi, per essere destinati al servizio dello Stato. La garanzia cioè la si collocò non nella specifica personalità degli amministratori ma nella carriera. La legislazione amministrativa, a sua volta, è in apparenza rigorosamente garantista poiché pretende di disciplinare fin nelle minuzie il rapporto tra cittadino e attività esecutiva dello Stato: quasi un esasperato autocontrollo dell'amministrazione pubblica. In realtà è solo un campo disseminato di tagliole perché la filosofia che vi presiede è il timore dell'autonomia, tanto del cittadino quanto del pubblico funzionario. È lo spirito della Controriforma tradotto in leggi e regolamenti.

Per combattere questa situazione le opinioni più recenti propendono a rivalutare l'ambito di autonomia del pubblico funzionario. Ove questa innovazione fosse introdotta, il nostro problema non sarebbe neppure sfiorato, anche se potrebbero aversi dei significativi benefici nel funzionamento dell'apparato statale. Il problema che mi prospetto è infatti costituito da quella specie di sacerdozio che è il pubblico impiego, per accedere al quale bisogna prendere i voti. Per spiegarmi meglio, ricorro ad un esempio. Prendiamo una coppia composta da un marito impiegato comunale e da una moglie insegnante. Il marito è già da tempo incardinato nel personale di un certo comune del Meridione, mentre la moglie è divenuta titolare in base alla ultima legge che prevede una graduatoria nazionale degli insegnanti di nuova nomina. Siccome nel Sud esiste una forte eccedenza di maestri, la moglie è spedita a insegnare al Nord. La famiglia viene violentemente divisa e le prospettive di riunificazione sono rimandate a un futuro molto vago.

Logicamente a questo punto comincia il balletto delle raccomandazioni. Si fanno intervenire preti, deputati, sottosegretari, cardinali, uscieri del ministero, chirurghi di fama. Tutte le pressioni esperibili sono usate senza cautela e senza discrezione. Stando così le cose è legittima la domanda: è corrotta la gente o è l'organizzazione del pubblico impiego che la spinge a corrompersi?

I sindacati della scuola tirano fuori il fondato argomento che nel Sud mancano decine di migliaia di scuole materne, di asili nido, che le classi sono spesso troppo numerose, che la scuola a tempo pieno e una perla rarissima. Ma lo Stato resiste perché si indebita solo sotto


la spinta di pressioni irresistibili, e se il Nord, nelle sue varie articolazioni, è irresistibile, il Sud invece, essendo organizzato dall'esterno, non è capace di imprimere pressioni irresistibili. Potrebbe avere ragione Pizzorno quando sostiene che il sistema di potere democristiano alimenta delle «diseguaglianze incentivanti», che a loro volta contribuiscono a sostenere il sistema democristiano. Ma a me la cosa sembra più pedestre. Il rapporto di pubblico impiego è un'intangibile divinità per tutte le posizioni politiche. Tu sei nato impiegato comunale e tale devi morire!

Il nostro Travet è costretto a combattere una dura battaglia per riportare la moglie in patria. Anni della sua vita saranno sprecati ad inseguire la raccomandazione giusta, e forse alla fine la spunterà.

Un utopista potrebbe, a questo punto, proporre che la comunità, la quale abbia avuto bisogno del lavoro di una insegnante, si sobbarchi anche dell'onere di trovare un posto al marito, facendogli scegliere, fra una gamma di possibilità, ima nuova occupazione. Cosa tutt'altro che impossibile, considerando che di lavoro meridionale il Nord ha ancora bisogno per mantenere il ritmo della sua disordinata crescita.

Concediamo, per amore di discussione, che un'esigenza di questo tipo venga recepita prima dalla coscienza collettiva (ilarità generale) e poi dall'ordinamento giuridico. Il risultato sarebbe nuove norme garantiste e restrittive che invece di agevolare renderebbero più defatigante l'avvicinamento tra moglie e marito. Entrerebbero in ballo gli anni di carriera, il numero dei figli, i voti riportati agli esami di diploma, quelli della terza media, l'analisi delle urine e cose del genere. In sostanza l'impiegato comunale diventerebbe un punto in una graduatoria e solo un sottosegretario socialdemocratico riuscirebbe a far salire il termometro. Le garanzie sono divenute il più grosso impaccio alle esigenze dei garantiti.

Al punto in cui siamo, l'unica cosa seria da fare è l'abolizione della figura del pubblico impiegato. La garanzia apprestata alla carriera spostiamola sul reddito, e che ogni ufficio o scuola siano liberi di assumere precariamente i lavoratori di cui abbisognano e che credano idonei al compito da svolgere. Il controllo sulle scelte ricada tutto sulle comunità e non più sulla pubblica amministrazione. Il rimedio non sarebbe peggiore del male, primo, perché l'attuale grado di confusione sarebbe difficile da superare, e per il funzionamento della pubblica amministrazione non esistono altri gradini da scendere. Secondo, perché la pub-


blica opinione avrebbe il diritto di mettere in discussione l'essere e l'operare degli uffici, il che equivarrebbe al passaggio dall'età paleolitica a quella neolitica per la mentalità degli italiani.

Ma può un'opinione pubblica completamente controllata dall'alto offrire serie garanzie di equanimità? Personalmente non credo che le offra, ma siccome non le offrono neppure i concorsi e le graduatorie, tanto vale adottare il sistema meno costoso. Abolendo le carriere burocratiche, il mercato del lavoro aderirebbe alle esigenze amministrative, e non viceversa. D'altra parte solo pochissime attività burocratiche richiedono un elevato grado di specializzazione. Il tipo di formazione scolastica è ancora sufficientemente elastico da consentire, con l'ausilio di un breve aggiornamento, di passare dall'ufficio dello stato civile alla segreteria di una scuola, dalle ferrovie alle poste, da segretario comunale ad insegnante di diritto, dalla previdenza sociale all'ufficio di collocamento, dagli uffici fiscali all'azienda privata.

Se a un certo punto della sua vita un contadino dell'Aspromonte, emigrato a Torino, si rende conto che i legami affettivi e ambientali con la sua terra diventano un intralcio a un normale svolgimento della sua vita familiare, fa fare la valigia anche alla moglie e ai figli. Perché l'appartenente al ceto impiegatizio ha paura di fare altrettanto? Perché, evidentemente, non è assuefatto a correre rischi.

Una forma di giustizia astorica suggerirebbe che quello che vale per uno dovrebbe valere anche per un altro. Ma siamo nella storia, l'esame delle vicende dell'ultimo trentennio ci conduce a rilevare che se i contadini meridionali sono stati battuti a destra dalla logica dello sviluppo capitalistico e a sinistra dall'accettazione impotente di tale logica, i ceti medi hanno invece imposto la logica della propria sopravvivenza prima a destra e poi a sinistra.

Si è parlato di ceti medi come di un corpo morale, ma il suo nucleo centrale presenta ascendenze e processi aggregativi socialmente definibili. La società meridionale attuale è il prodotto di un aggregato economico, il cui organico processo di trasformazione venne pesantemente violentato durante i primi quarant'anni di vita unitaria. Risultato vano lo sforzo di autotrasformarsi, la classe allora dominante, la rendita agraria, ripiegò su una forma di resistenza passiva tutt'altro che pervicace, come vorrebbe la storiografia corrente. Anzi le vecchie classi si limitarono a ripararsi in gusci sempre più deboli e angusti nella speranza di sopravvivere. Uno di questi gusci è identificabile nel


clientelismo che meritò giustamente i fulmini di Salvemini. Al tempo di Salvemini, attraverso il clientelismo, la rendita agraria, in evidente declino, riversò la sua attenzione verso il pubblico impiego. Erano guerre feroci tra clan ex gentilizi per un posto di maestro o di esattore comunale. Quando poi, a seguito del grande esodo migratorio degli anni cinquanta e sessanta, i salari agricoli si impennarono in una crescita senza precedenti, il padronato terriero finì con il perdere qualunque autonomia. La nuova organizzazione dello Stato, sviluppatasi a partire dagli anni cinquanta, ha offerto a quella classe ormai in completa decomposizione delle alternative praticabili. I redditieri che avevano una professione cominciarono a farla fruttare, chi non l'aveva cercò un impiego e solo coloro che non hanno saputo arrangiarsi imputridiscono nei rimpianti e si avviano verso un tramonto definitivo che né l'integrazione sui prodotti agricoli né gli sgravi fiscali potranno evitare.

Con la fine della rendita agraria, la vera classe dirigente nel Meridione è diventata la rendita professionale e burocratica. Non avendo base autonoma di reddito essa si lega allo Stato. Questo in un primo tempo si è identificato con la democrazia cristiana, ma poi è andato a ventaglio verso gli altri partiti, fino all'estrema destra attraverso larga parte della magistratura e della burocrazia e fino all'estrema sinistra attraverso una quota consistente di docenti universitari. Così l'unico potere che esiste nel Meridione, il potere politico, è nelle mani dei ceti medi. Perfino la mafia e la grande speculazione edilizia sono costrette a patti non sempre facili con questa classe onnipresente.

La dilatazione dell'apparato pubblico e dei servizi sanitari hanno irrobustito numericamente questa classe. Attualmente essa incorpora quasi la totalità dei figli della rendita agraria e l'esercito di coloro che attraverso gli studi sono stati promossi dalle classi subalterne alla classe dirigente. Già in periodo fascista la scuola pubblica era diventata accessibile ai figli del proletariato urbano. Nella fase successiva, l'espansione della scolarizzazione ha aperto la possibilità di ascesa sociale a milioni di giovani provenienti da tutte le classi subalterne. Questa nuova linfa non ha rinnovato gli orizzonti ideali dei ceti medi, né, d'altra parte, poteva farlo, in quanto il sistema meridionale è rimasto fermo alla sua storica funzione subalterna, anche se beneficiando della miracolosa crescita del surplus economico in Italia.

Il peso numerico dei ceti medi e l'esigenza dei partiti italiani di contendersi quel terzo dell'elettorato nazionale che ancora risiede nel


Meridione—sommandosi—hanno modellato una società benestante, pur nella sua larga improduttività, tutta incernierata sulla struttura portante dei ceti medi. Le interconnessioni del sistema fanno sì che l'altra Italia sia sottoposta all'alternativa o di aderire alla pressione crescente dei ceti meridionali, o di vederseli sollevare contro.

Già altre volte ho osservato che nel Meridione non esiste una qualsiasi logica connessione tra classi e partiti. In effetti, falcidiata la compatta classe dei contadini, esautorata la rendita, i ceti medi si sono espansi come un gas compresso fino a riempire tutti i vuoti. In un assetto sociale dove, a ben guardare, esiste una sola classe, circondata da settori marginali, i ceti medi si sono impossessati a caso dei ruoli politici più diversi, al fine generale di amministrare i surplus che lo Stato ridistribuisce. Si può andare ben oltre l'osservazione di Pasolini che gli abiti e i gesti sono eguali per tutti, e uniforme la cultura che regge la vita associata. Qui non solo i quadri, gli esponenti di livello nazionale e perfino le basi sezionali dei vari partiti sono omologhi culturalmente, ma socialmente sono appartenenti alla stessa classe.

Ma se in politica sono i professionisti e gli impiegati quelli che più si danno da fare, socialmente i ceti medi sono una classe integrata da altri ceti che possono concorrere per quanto concerne il livello dei redditi con professionisti ed impiegati. A loro si integrano anche altri settori della società per la comune propensione a legarsi dentro quei simboli, etichette e bandiere che possono assicurare un posto a tavola quando si taglia la torta. Il prezzo da pagare è quello di non scombinare le regole del gioco.

La convergenza al centro di gran parte della società non è un fenomeno tipico del cosiddetto caso italiano. Negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, nei paesi dell'Europa americanizzata, dovunque insomma i surplus crescenti dell'economia imperialista vengono in qualche modo ridistribuiti, si verifica un rigonfiamento di quella parte centrale della società che sta tra i molto ricchi e i poveri.

Come altrove, anche in Italia, i partiti politici di importante peso elettorale si spostano verso il centro (quanto meno nella loro azione concreta) per assicurarsi frazioni di un elettorato che tende ovviamente all'autoconservazione dei vantaggi acquisiti. Questo movimento generale nel Meridione assume caratteristiche singolari. La divaricazione abissale tra etichette politiche e comportamenti concreti è ormai generalizzata e dà luogo a situazioni del tutto divertenti. Pensate per esem-


pio a un buon avvocato con clientela borghese e borghese-mafiosa, con villa al mare, lussuoso appartamento in città, baita in montagna, moglie con visone, lui in Citroen, che nei suoi comizi si incazza contro lo sfruttamento capitalistico e la degradazione delle istituzioni. Potrebbe sembrare ridicolo, contraddittorio, equivoco. Si tratta invece di una situazione che rientra assolutamente nella norma (e non solo oggi ma anche ai tempi di Turati). La gente accetta un comportamento del genere come assolutamente conforme all'etica sociale. Se il nostro è un bravo avvocato è normale che abbia dei buoni clienti, è normale che costoro paghino parcelle salate, è normale che l'avvocato evada le imposte, è normale che sia socialista o comunista perché ciascuno è libero di avere le idee che vuole. E l'avvocato, con i voti della sua clientela personale, diventa deputato, continuando dall'alto del suo onorevole seggio a concionare contro lo sfruttamento capitalistico e fuori dalle aule parlamentari ad aiutare i suoi elettori come meglio gli riesce e senza angustiarsi l'anima se costoro sono capitalisti, semicapitalisti o poveracci. Sono suoi amici, e se vogliamo, anche amici del suo partito. L'idea è ciò che conta.

Nei centri dove si è arrivati a un'equilibrata lottizzazione del surplus di solito le amicizie si collaudano e prosperano. Il sottosegretario socialista si fa in quattro perché un amico possa avere lo sfruttamento di una fonte di acqua minerale. Si fa in otto perché la Cassa per il Mezzogiorno approvi un contributo e un mutuo per la costruzione degli impianti. Il neo-capitalista, da parte sua, magari non prende la tessera del partito, ma attraverso le sue amicizie procura mille preferenze al benemerito dell'industrializzazione del Meridione. Ma dove la lottizzazione non è equilibrata, le amicizie oscillano, provocando disguidi e guai elettorali.

L'amicizia, anche se vi somiglia, non è infatti un fenomeno mafioso, e non richiede perciò eterna fedeltà, con sanzioni feroci a carico dei trasgressori. Le amicizie si legano e si sciolgono in base a convenienze, in un conto aperto di dare e avere, che può essere saldato o lasciato in rosso in qualunque momento sulla base di un calcolo opportunistico. Per questo motivo ritengo del tutto stravagante quell'analisi sociologica che si rifà al gruppo di tipo patriarcale quando studia i fenomeni elettorali nel Meridione. Salvo che in qualche periodo eccezionale, come gli anni dal 1943 al 1951 e senza dubbio, andando a ritroso, il moto dei fasci siciliani e anche l'occupazione dei feudi incolti nel primo dopoguerra, nel Meridione non si fa politica


in senso autonomo, ma si utilizza la scheda per assicurare coram populo dell'esistenza di una solo nominale parità di diritti con i cittadini del Settentrione. Essendo elusi i veri problemi del paese meridionale da tutti i partiti, lo scontro politico diventa un balletto di notabili e ignoti capicongrega che offrono e chiedono amicizia. Un esempio illuminante. Ricordo che in occasione delle elezioni amministrative del '64 o pressappoco, il PSIUP riuscì ad avere un eletto al Consiglio provinciale di Reggio Calabria. La cosa avveniva nella circoscrizione di San Luca dove anche i sassi delle strade appartengono alla mafia. Incredibile meraviglia, finché non seppi che l'eletto era l'avvocato degli esponenti mafiosi sanluchesi.

Se le eminenze della nuova mafia, come le eminenze politiche, appartengono a quella piccolissima frazione di popolazione che sta sopra i ceti medi, la mafia di piccolo calibro, adesso che la civiltà contadina è praticamente scomparsa, è uno dei ceti medi meglio organizzati. L'interclassismo inaugurato dal PCI, a seconda delle situazioni locali, ha quindi spostato a suo favore parecchie simpatie mafiose. Si è detto sopra infatti che le amministrazioni locali sono in mano ai ceti medi, che sono ceti medi indipendentemente dalla collocazione politica, e pertanto le amministrano a favore dei ceti medi, fra cui il ceto medio mafioso, composto essenzialmente da bottegai, macellai, baristi, piccoli appaltatori, trasportatori e simili. Cadono di conseguenza antiche chiusure, peraltro non ovunque operanti, tra il partito degli operai di fabbrica e la mafia di piccola statura.

Ho diviso e raggruppato compartimenti e settori sociali al fine di rendermi più facile l'esposizione, ma niente è più lontano dalla classificazione sociologica del mondo che ho tentato di descrivere. L'amicizia in realtà passa attraverso le classi, attraverso i partiti, attraverso il lavoro e perfino attraverso le famiglie. Essa ha una valenza politica che risiede nel generale imborghesimento della società meridionale. Solo alcuni settori dei ceti medi riescono ad esprimere un forte ricatto sociale ed economico. L'amicizia è una specie di negazione della negazione politica. Ribalta una debolezza strutturale ed un'incerta collocazione sociale in affermazione realizzata caso per caso, individuo per individuo. Certamente non nego che su questo terreno arido e cespuglioso il partito-stato abbia arato con interventi assistenzialistici, favorendo la logica del dualismo geografico, decisiva non solo per lo sviluppo capitalistico ma anche per la stazionarietà politica in Italia. Ma l'amicizia è una forma di agonismo sociale in un contesto dove le


fonti della produzione sono estremamente deboli. È un aspetto, quello sottosviluppato, della cultura borghese e della degenerazione dei valori sociali che essa produce ovunque penetra.









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