L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Fonte:

QUADERNI CALABRESI - DEL MEZZOGIORNO E DELLE ISOLE N. 50

Febbraio 1982

CHI COMBATTERÀ LA MAFIA?

di Nicola Zitara


Agosto 2012


Dopo gli omicidi dei compagni Valerioti e Losardo, il partito comunista—solo fra i partiti italiani—ha sentito il bisogno di effettuare una ricerca popolare sul fenomeno mafioso, di un contatto con la base. Le iniziative prese possono avere due obiettivi: capire meglio la natura della malattia, organizzarsi meglio per combatterla. Nel primo caso, dobbiamo pur dire che un partito del peso elettorale del PCI, con una struttura interna diversa dagli altri partiti e comunque ancora (nelle dichiarazioni almeno) teso a riformare la società in cui viviamo, mostra una preoccupante debolezza del suo sistema nervoso in quanto la mano si sarebbe mossa, in questi anni, senza un comando cerebrale. Nel secondo caso (combattere la mafia, dopo averla meglio conosciuta), potrebbe emergere una velleità, una paurosa sproporzione tra mezzi e fini.

Spieghiamoci meglio. La mafia, dal 1943 al 1955 circa, era ancora un fenomeno contadino. Chi ha visto il film «In nome della legge» può avere un'idea della sua natura sociale. Il mio paese (Siderno) è stato, a memoria d'uomo, un paese a forte presenza mafiosa (o 'ndranghitista, tanto il fenomeno non è diverso se non per la sua ampiezza).

Si tratta di una nota, e non di un saggio, scritta ancora sotto il turbamento seguito agli assassinii Valerioti e Losardo, consumati in Calabria. La pubblichiamo insieme agli altri scritti perché essa affronta, sia pure in modo rapido, il quadro complessivo del problema, costretto al fondo di una situazione che appare senza vie di uscita.


Ricordo perfettamente chi erano, subito dopo la caduta del fascismo i mafiosi e cosa volessero: contadini affamati che tentavano una resistenza non violenta alla sopraffazione padronale nelle campagne. Dico non violenta in quanto non ribellista, ma organizzata, pensata e istituzionalizzata. L'importante mi pare fosse non tanto il codice di comportamento, quanto la struttura riflessiva. Cioè, i contadini non si buttavano più allo sbaraglio, come avevano fatto nei secoli precedenti ma si costituivano in organismo capace di contrattare. Logicamente non tutti i contadini, nel qual caso avremmo avuto un'organizzazione politica visibile, ma solo quelli naturalmente dotati di ardimento, capacità fisica di sofferenza, consapevolezza di appartenere ad un corpo idoneo a competere con l'avversario.

Negli anni per noi difficili della guerra fredda, ricordo discutemmo a livello di base se dovessimo considerare la mafia un nemico o un amico. Molti pensavano, e qualcuno sostenne, che se ci fosse toccato di imboscarci sulle montagne non avremmo potuto avere altro alleato che la mafia. E non era un'ipotesi campata in aria. La mafia del mio paese e quella dell'entroterra erano infatti (e lo sono ancora) prevalentemente di sinistra.

Il fatto di cui bisogna tenere il massimo conto è che la mafia è cambiata all'unisono con i cambiamenti avvenuti nella società contadina. Già l'intrallazzo (fase dell'economia meridionale che andrebbe attentamente studiata) aveva offerto a molti contadini la possibilità di rompere il bozzolo dell'economia di autosussistenza per sviluppare traffici molto remunerativi con le città affamate di prodotti alimentari. Successivamente, quei contadini che avevano fatto fortuna nella fase in cui i prezzi agricoli erano stati notevolmente alti, a causa della carestia bellica e post-bellica, riuscirono a penetrare nelle cinte urbane e ad aprire botteghe di generi alimentari e di mercerie, in paesi e città. I primi a muoversi in tale direzione furono i mafiosi e comunque i più dritti (diciamo noi, intendendo gli individui più capaci di imporsi nei rapporti sociali).

Mentre i contadini più poveri o più deboli o più ligi alla legalità fuggivano oltre gli oceani e cominciavano a imparare l'uso dei treni che portano verso l'Europa gotica, i mafiosi si impiantavano nei piccoli affari urbani, e nei piccoli affari urbani si alimentavano di uno spirito prevaricante, strumentalizzando e strumentalizzati dal sistema elettorale. È con questo passaggio che la mafia cambia natura e diventa corporazione economica violenta contro tutti. Fino a quel punto, quelle


volte che aveva tiranneggiato sui contadini per conto dei signori, aveva agito in stato di necessità; aveva calpestato per non farsi calpestare. A questo punto, invece, era ormai fuori dalla cultura contadina.

La nuova mafia si fonda sulla debolezza del legame tra masse e Stato in Sicilia e Calabria. L'articolazione politica, che altrove ha un significato, qui lo ebbe soltanto nella breve fase delle lotte contadine e bracciantili.

Una struttura politica debole può agevolmente essere forzata. Il consenso elettorale può essere merce di scambio a livello di gruppi ristretti e di singoli. La nuova mafia in sostanza non avrebbe alcun bisogno di mantenere un controllo su quel che resta del mondo rurale, se questo non le servisse come moneta elettorale da spendere in cambio di benefici. Socialmente quindi, la nuova mafia è molto meno forte di quanto non fosse la vecchia. Politicamente, invece, lo è molto di più in quanto fa da tramite tra la politica (Stato erogatore di spesa) e la società.

Dopo il '55 (ma il fenomeno assume consistenza palpabile soltanto nel corso degli ultimi quindici anni), la nuova mafia subisce una profonda evoluzione che la porta a divenire capitalismo fondato sulla violenza. Due i fattori determinanti: primo, l'enorme flusso di danaro; secondo, la vigorosa crescita nella capacità di spesa delle popolazioni meridionali.

I colpi inflitti alla rendita fondiaria, senza la nascita bilanciarne di capitalisti agrari, hanno spinto i figli dei vecchi proprietari terrieri verso attività estranee alla cultura del rischio economico, come le professioni e gli impieghi. La crescita economica, promossa dall'esterno, lasciava pertanto un vuoto sociale, che è stato coperto in prevalenza da mafiosi. Questi erano i soli a possedere lo spirito avventuroso e i capitali per esplicare i compiti che il mutamento economico sollecitava. Da questo punto di vista, si può affermare che la mafia possiede una cultura manchesteriana dell'investimento e del rischio che potrebbe fare la felicità di Giorgio Bocca, se a questi venisse la voglia di conoscere meglio le nostre regioni. Oserei essere ancor più paradossale. Penso, in tutta sincerità, che se non ci saranno sconvolgimenti sociali, nel giro di dieci anni i figli dei mafiosi saranno alla guida dei processi di industrializzazione in Calabria e in Sicilia. Perché, c'è da aggiungere, è in atto, dentro la mafia, un movimento generazionale di inserimento nella legalità. Si tratta, in pratica, di questo: il padre mafioso realizza mafiosamente l'accumulazione originaria; il figlio, volutamente cresciuto


nella legalità, utilizza il capitale paterno nell'industria e nei commerci leciti. Ciò non significa che la mafia stia per finire.

Tornando al pci e a quello che cerca di capire o di fare, o di capire e fare, bisogna pur dire che o si impappina nei giudizi o ci vuole dare fumo negli occhi. Intanto i suoi militanti più generosi cadono come le vittime sacrificali di una impostazione politica o superficiale o scorretta. In Calabria e Sicilia, mafia e capitalismo sono sinonimi. Non è possibile combattere un solo aspetto di questa realtà.

C'è ancora dell'altro. Mafia e politica non sono il triste privilegio della democrazia cristiana. Anche il partito socialista c'è dentro fino al collo. Ci sono dentro intere sezioni dello stesso pci. Ma il pei che fa? Tende la mano ai grossi leaders, ancorché discussi e discutibili, mentre rischiano la pelle i segretari di insignificanti sezioni dell'inessenziale meridione.

La conclusione è scoraggiante, amara. Se lo sviluppo di regioni come la Sicilia e la Calabria deve essere programmaticamente affidato all'iniziativa privata, la mafia è una componente essenziale di tale linea. D'altra parte la Grande Elisabetta non armava vascelli corsari e partecipava ai frutti dei saccheggi? Sotto l'ultraliberale Russel i bambini inglesi non morivano di fatica e di fame intorno ai telai? I minatori cileni e il loro presidente non sono morti per volontà della «libera America»? Quando mai il capitalismo è stato morale!








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