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Ignazio Silone


Fontamara


La voce della partenza di Berardo si sparse subito e destò meraviglia, benché un cafone che vive a giornata non abbia nessun obbligo di restare nel suo paese, neppure quando il lavoro è più intenso, se altrove può avere una paga superiore. Ma grande fu la nostra meraviglia nel vedere, la sera stessa, Berardo tornare a Fontamara.

Eravamo in quattro o cinque in mezzo alla strada, assieme a Marietta, a Baldissera e al vecchio Zompa, e parlavamo appunto di Berardo. Egli deve essersi messo in testa di rifarsi la terra al più presto, dicevamo. Ma come, se quello che guadagnerà da bracciante gli basterà appena per nutrirsi?

«Lavorerà il doppio» diceva Marietta. «Si cercherà qualche lavoro per la sera.»

«Ci rimetterà la salute» io dissi. «Avrà la terra, sì, ma al camposanto.»

D'altronde, nessuno osava suggerirgli di rinunziare a Elvira.

«Non serve girare» disse il vecchio Zompa. «Albero spesso trapiantato, mai di frutti è carico» Vedendolo riapparire improvvisamente, stavamo per pensare che la voce della partenza fosse stato uno scherzo, ma osservammo che indossava la camicia e il cappello dei giorni di festa e portava sotto il braccio un fagotto. Perché era tornato indietro?

«Per andare a Roma adesso ci vuole il passaporto» gridò Berardo. «Ogni giorno ne inventano un'altra.»

«Perché?» domandò Baldissera. «Non è più dell'Italia?»

Il suo racconto fu molto confuso.

«Stavo alla stazione» disse. «Avevo fatto il biglietto. È entrata una pattuglia di carabinieri e han cominciato a domandare le carte a tutti, a chiedere le ragioni del viaggio. Io ho subito detto la verità e cioè che volevo andare a Cammarese per lavorare. Han risposto: "Bene, hai la tessera?". Che tessera? "Senza tessera non si lavora." Ma che tessera? Impossibile di avere una spiegazione chiara. Mi han fatto restituire il prezzo del biglietto e mi han messo fuori della stazione. Allora mi è venuta l'idea di andare a piedi fino alla stazione seguente e di prendere il treno di là. Appena fatto il biglietto, ecco due carabinieri. Dove vado? Dico, a Cammarese, per lavorare. Mi han domandato: "Fuori la tessera". E io, che tessera? Che c'entra la tessera? "Senza tessera non si può lavorare" , dicono "così è nel nuovo regolamento dell'emigrazione interna." Ho cercato di convincerli che io non andavo a Cammarese per l'emigrazione interna, ma soltanto per lavorare. Però è stato tutto inutile. "Noi abbiamo degli ordini" hanno detto i carabinieri. "Senza tessera non possiamo permettere di salire in treno a nessun operaio
che si trasferisca in altra regione per lavorare."

«Mi hanno fatto restituire il prezzo del biglietto e mi han messo fuori della stazione. Ma quella storia della tessera non mi andava giù. Sono entrato in una osteria e ho attaccato discorso con quelli che c'erano. "La tessera? Come, non sai che cos'è la tessera?" mi ha detto un carrettiere. "Durante la guerra non si parlava che di tessera." Ed eccomi nuovamente qui, dopo aver perduto la giornata.»

Il più colpito dal racconto di Berardo fu il generale Baldissera che cercò fra le sue cartacce e tirò fuori un foglio stampato.

«Anche qui si parla di tessera» disse assai allarmato.

Infatti si parlava di tessera. La federazione dell'artigianato invitava perentoriamente il generale Baldissera a fornirsi della tessera di scarparo.

«Alcune settimane fa, anche Elvira ricevette una lettera simile» aggiunse Marietta. «Non c'è più libertà di lavoro. Le hanno scritto che se vuole continuare a esercitare l'arte della tintoria, deve pagare una tassa e fornirsi di tessera.»

Questa coincidenza delle lettere arrivate a Fontamara e degli incidenti toccati a Berardo mi indussero ad avanzare il dubbio che probabilmente doveva trattarsi di una burla.

«Cosa c'entra il Governo con l'arte dello scarparo e del tintore?» dissi. «Cosa c'entra il Governo coi cafoni che vanno in cerca di lavoro da una provincia all'altra? I governanti hanno altro da pensare» dissi. «Questi sono affari privati. Solo in tempo di guerra si ammettono prepotenze simili. Ma adesso non siamo in guerra.»

«Cosa ne sai tu?» mi interruppe il generale Baldissera. «Cosa ne sai tu se siamo in pace o in guerra?»

Questa domanda ci impressionò tutti.

«Se il Governo impone la tessera, vuol dire che siamo in guerra» continuò in tono lugubre il generale.

«Contro chi la guerra?» chiese Berardo. «È possibile che siamo in guerra senza che se ne sappia nulla?»

«Cosa ne sai tu?» riprese il generale. «Cosa ne vuoi sapere tu, cafone ignorante e senza terra? La guerra sono i cafoni che la combattono, ma sono le autorità che la dichiarano. Quando scoppiò l'ultima guerra, a Fontamara sapeva qualcuno contro chi fosse? Pilato s'incaponiva a dire che fosse contro Menelik. Simpliciano affermava che fosse contro i Turchi. Solo molto più tardi si seppe che era soltanto contro Trento e Trieste. Ma ci sono state guerre che nessuno ha mai capito contro chi fossero. Una guerra è una cosa talmente complicata che un cafone non può mai capirla. Un cafone vede una piccolissima parte della guerra, per esempio la tessera, e questo lo impressiona. "Il cittadino" vede una parte molto più larga, le caserme, le fabbriche d'armi. Il re vede un intero paese. Solo Dio vede tutto.»

«Le guerre e le epidemie» disse il vecchio Zompa, «sono invenzioni dei Governi per diminuire il numero dei cafoni. Si vede che adesso siamo di nuovo in troppi.»

«Ma insomma, tu la tessera la prenderai?» chiesi a Baldissera, per farla finita.

«Prenderla? La prenderò» egli rispose. «Ma pagarla, puoi star sicuro, non la pagherò.»

Nonostante il diverso modo di esprimerci si può dire, dunque, che in fondo eravamo pienamente d'accordo. Quella sera molte altre cose furono dette sulla guerra e non ci fu famiglia in cui non se ne parlasse! Ognuno faceva all'altro la domanda : «Ma contro chi, la guerra?».

E nessuno sapeva rispondere. Seduto davanti alla cantina di Marietta, il generale Baldissera dava spiegazioni con pazienza, a tutti quelli che si recavano a chiedere informazioni da lui. Lui era felice di questo.

«Contro chi la guerra? Nemmeno io lo so; nel foglio non è spiegato; il foglio dice solo che bisogna pagare la tessera», egli diceva ad ognuno.

«Pagare, sempre pagare», commentavano i cafoni.

La confusione che era già negli spiriti aumentò il giorno dopo con l'arrivo inaspettato di Innocenzo La Legge.
Perché Innocenzo si azzardasse a tornare nuovamente a Fontamara, dalla quale una legittima paura lo teneva lontano da vari mesi, doveva ben esserci un grave motivo; di sua spontanea volontà certamente non sarebbe venuto. Quando egli arrivò all'altezza della cantina e vide accorrere verso di lui gente da tutte le parti, ebbe un momento di panico. Marietta fece a tempo a porgergli uno sgabello, prima che cadesse per terra.

«Scusate, scusate», cominciò a dire con un filo di voce. «Non abbiate paura. Perché avete paura? Sono io che vi faccio paura? »

«Parla», gli impose Berardo con voce poco incoraggiante.

«Ecco, intendiamoci», riprese Innocenzo «intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la vista.»

Vi fu una piccola pausa, giusto il tempo per permettere a Dio di esaminare il caso. Innocenzo conservò la vista.

«Continua» gli comandò Berardo.

«Ecco, voi ricordate che una sera venne qui un graduato della milizia? Un certo cavaliere Pelino? Lo ricordate? Bene, benissimo, questo mi fa un grande piacere.

Dunque, il cav. Pelino ha fatto un rapporto alle autorità superiori in cui afferma di aver constatato che Fontamara è un covo di nemici dell'attuale Governo. Non vi spaventate, non c'è nulla di male. Il cav. Pelino ha riferito, parola per parola, certi discorsi fatti qui, in sua presenza, contro l'attuale Governo e contro la Chiesa.

Senza dubbio, egli ha mal capito i vostri discorsi, senza dubbio. Ma le autorità superiori hanno deciso di prendere certi provvedimenti verso Fontamara. Niente di grave, vi assicuro, niente da pagare, niente. Si tratta di sciocchezze, alle quali in città si dà grande importanza, ma un cafone, una persona seria nemmeno vi bada.»
Innocenzo non sapeva quali fossero tutti i provvedimenti decisi contro Fontamara. Egli era il cursore del comune e conosceva quindi solo le decisioni del comune, che aveva l'incarico di comunicare; il resto non lo sapeva né lo incuriosiva. La prima decisione riguardava il ristabilimento forzoso nella frazione di Fontamara dell'antica legge del coprifuoco; un'ora dopo l'avemaria nessun cafone doveva trovarsi fuori di casa e doveva restare in casa fino all'alba.

«E le paghe restano uguali?» domandò Berardo incuriosito.

«Cosa c'entrano le paghe?» rispose Innocenzo.

«Come, cosa c'entrano? Se non possiamo uscire di casa prima dell'alba» spiegò Berardo «vuol dire che arriveremo a Fucino, sul luogo di lavoro, un po' prima di mezzogiorno. Se soltanto per un paio d'ore di lavoro ci daranno lo stesso salario di prima, viva la legge del coprifuoco.»

«E l'irrigazione?» domandò Pilato. «Come si fa a regolare l'irrigazione notturna se tutti restiamo in casa?»
Innocenzo La Legge rimase interdetto.

«Voi non mi avete capito», disse «oppure, scusate, fingete di non aver capito, per torturarmi. Chi vi ha detto che voi dovete cambiare le vostre abitudini? Voi restate cafoni e farete i vostri lavori quando volete. Ma l'Impresario è podestà e voi non potete impedirgli di fare il podestà. Ed io che cosa sono, io? Cursore del comune, e non dovreste impedirmi di fare il cursore. L'Impresario, come podestà, decide, per mettersi al riparo dalle proteste e dai reclami delle altre autorità, che voi durante la notte dovete stare in casa. Io, come cursore, vi porto il suo ordine. Voi, cafoni, fate naturalmente quel che vi pare.»

«E la legge?» si mise a urlare il generale Baldissera. «La legge dove va a finire in questo modo? La legge è o non è la legge?»

«Scusa», gli chiese Innocenzo «tu la sera, a che ora vai a dormire?» «Appena si fa buio» rispose il vecchio scarparo miope.

«E la mattina a che ora ti alzi?»

«Alle dieci, perché il lavoro è scarso e la debolezza è grande.»

«Ebbene», sentenziò il cursore «io ti nomino custode ed esecutore della legge.»

Tutti ci mettemmo a ridere, ma Baldissera rimase cupo, e siccome era già quasi buio, se ne andò a dormire.
Innocenzo fu felicissimo per l'insperato successo di ilarità e divenne più spigliato. Accese una sigaretta e cominciò a fumare. Ma fumava in un modo mai visto: invece di fare uscire il fumo dalla bocca, lo tratteneva e poi lo soffiava dalle narici, ma non da entrambe, come anche noi sappiamo, sebbene, alternativamente, prima dall'una e poi dall'altra.

Approfittò del momento di ammirazione in cui ci sorprese per comunicarci la seconda decisione del podestà riguardante Fontamara. In tutti i locali pubblici doveva essere affisso un cartello che dicesse:

IN QUESTO LOCALE È PROIBITO PARLARE DI POLITICA.

Di locale pubblico a Fontamara c'era solo la cantina di Marietta. Innocenzo consegnò alla cantiniera un ordine scritto del podestà col quale le si comunicava che lei sarebbe stata ritenuta responsabile se nella sua cantina si fossero fatte discussioni politiche.

«Ma a Fontamara nessuno sa neppure che cosa sia la politica» osservò giustamente Marietta. Nel mio locale nessuno ha mai parlato di politica.»

«Di che si parla, dunque, se il cav. Pelino tornò al capoluogo tutto infuriato?» chiese Innocenzo sorridendo.
«Si ragiona un po' di tutto» riprese a dire Marietta. «Si ragiona dei prezzi, delle paghe, delle tasse, delle leggi; oggi si ragionava della tessera, della guerra, dell'emigrazione.»

«E di questo non si dovrebbe più parlare, secondo l'ordine del podestà» chiarì Innocenzo. «Non è ordine speciale per Fontamara, ma in tutta Italia è stato diramato quest'ordine. Nei locali pubblici non bisogna più parlare di tasse, di salari, di prezzi, di leggi.»

«Dunque, non bisogna più ragionare» concluse Berardo.

«Ecco, bravo, Berardo ha capito perfettamente» esclamò Innocenzo soddisfatto. «Non bisogna più ragionare: questo è il senso della decisione del podestà. Bisogna farla finita coi ragionamenti. E poi, siamo sinceri, a che servono i ragionamenti? Se uno, ha fame, può nutrirsi di ragionamenti? Bisogna farla finita Con questa cosa inutile.»

La soddisfazione d'Innocenzo fu grande nel constatare che Berardo gli dava ragione e perciò accettò la sua proposta di rendere più chiaro il cartello che doveva essere appeso al muro e che egli stesso scarabocchiò in nostra presenza, su un largo foglio di carta bianca, nel tenore seguente:

Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti.

Berardo provvide ad affiggere il cartello, in alto, sulla facciata della cantina. La sua condiscendenza ci sbalordiva assai. Come se il suo atteggiamento non fosse già abbastanza chiaro, Berardo aggiunse:

«Adesso, guai a chi tocca quel cartello.»

Innocenzo gli strinse la mano e voleva abbracciarlo. Ma le spiegazioni che Berardo subito aggiunse, moderarono il suo entusiasmo.
«Quello che il podestà ordina da oggi, io l'ho sempre ripetuto» disse Berardo. «Coi padroni non si ragiona, questa è la mia regola. Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri, che non ragionano (o, almeno, fingono di non ragionare). L'asino irragionevole porta 70, 90, 100 chili di peso; oltre non ne porta. L'asino irragionevole ha bisogno dl una certa quantità dl paglia. Tu non puoi ottenere da lui quello che ottieni dalla vacca, o dalla capra, o dal cavallo. Nessun ragionamento lo convince. Nessun discorso lo muove. Lui non ti capisce, (o finge di non capire). Ma il cafone invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dar la vita per il suo padrone.

Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere persuaso che nell'altro mondo c'è l'inferno benché lui non l'abbia mai visto. Vedete le conseguenze. Guardatevi intorno e vedete le conseguenze.»

Per noi, quello che Berardo diceva, non era una novità. Ma Innocenzo La Legge era atterrito.

«Un essere irragionevole non ammette il digiuno. Dice: se mangio lavoro, se non mangio non lavoro» continuò Berardo. «O meglio neppure lo dice, perché allora ragionerebbe, ma per naturalezza così agisce. Pensa dunque un po' se gli ottomila uomini che coltivano il Fucino, invece di essere asini ragionevoli, cioè addomesticabili, cioè convincibili, cioè esposti al timore del carabiniere, del prete, del giudice, fossero invece veri somari, completamente privi di ragione. Il principe potrebbe andare per elemosina. Tu sei venuto qui, o Innocenzo, e tra poco, nella via buia, farai ritorno al capoluogo. Che cosa può impedire a noi di accopparti? Rispondi.»

Innocenzo avrebbe voluto balbettare qualche cosa, ma non potè; era livido come uno straccio.

«Ce lo può impedire» continuò Berardo «il ragionamento delle possibili conseguenze dell'assassinio. Ma tu, Innocenzo, di tua mano, hai scritto su quel cartello che, da oggi, per ordine del podestà, sono proibiti i ragionamenti. Tu hai rotto il filo al quale era legata la tua incolumità.»

«Ecco», riuscì a balbettare Innocenzo «ecco, tu dici di essere contro i ragionamenti, ma invece, scusa, a me sembra, scusa, dico per dire, a me sembra che tu ragioni fin troppo. Tutto il tuo discorso non è che un ragionamento. Io non ho mai sentito un asino, cioè un cafone irragionevole, parlare in quel modo.»

«Se i ragionamenti sono a vantaggio solo dei padroni e delle autorità», io domandai a Berardo «perché il podestà ha deciso di proibire tutti i ragionamenti?»
Berardo rimase un po' in silenzio. Poi rispose:

«È tardi, domani mi devo alzare alle tre per andare a Fucino. Buona notte.»

E se ne andò a casa.

Le discussioni con lui finivano così. Egli parlava, sbraitava per ore intere, come un predicatore, dicendo le cose più assurde e violente che gli venivano in testa, in un tono che non ammetteva repliche. Poi, quando aveva finito, uno gli faceva una domanda e lui rimaneva imbarazzato e se ne andava senza rispondere.

Ignazio Silone - Fontamara (1933)

 

Per noi la Patria ha più vasti confini perché sappiamo cos'è una siepe. (M. Parrella - poeta lucano)












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