Rosso Malpelo
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Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi;
ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e
cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché
tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua
madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il
suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a
casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era
anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio,
per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a
scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano
tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo,
un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che
tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi,
allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al
mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in
crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli
andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per
rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e
ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi,
finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei
c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino
grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena
rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che
pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la
bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove
lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al
padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per
carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in
quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo
lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per
sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era
calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di
rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora
per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e
solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a
questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro
Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero
diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle
sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe.
Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero
sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle
occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci
morrai nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché
fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel
pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era
pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se
si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio
andare a fare l'avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro
che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano
accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar
la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte
del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e
rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di
zappa in pieno, e intanto borbottava:
- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella
di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe
speso i denari del suo appalto, il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la
lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro
rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco,
come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch'esso. Malpelo
andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco
vuoto ed il fiasco del vino.
Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati
in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei
sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf!
Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì
un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e
si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro
quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono,
quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la
morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si
picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a
comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i
denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero
detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre
ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in
Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e
corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo
sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una
settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben
bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea
prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle
settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come
una bestia davvero.
- To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato
fuori, adesso?
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... -
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle
unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno
s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal
viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da
far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani
tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar
serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane
arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva
forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando
sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle
volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua
e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella
galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo
levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava
bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati,
e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli
susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena
caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito,
talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi
non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani
non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte,
magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava
tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza
pietà, col manico della zappa, e borbottava:
- Così creperai più presto! -
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in
corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono
coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava
ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia,
o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba,
o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato
lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come
se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a
modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava
che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava
gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava
uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed
i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui
l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con
me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché
egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone,
accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per
trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: -
E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a
proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella
cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e
non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il
suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo
nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era,
il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per
prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un
motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo
picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: -
To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me
che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da
questo e da quello! -
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e
dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle
busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico
per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli,
rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo
batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano
secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si
piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un
passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante
volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a
Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può
picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e
ci strapperebbe la carne a morsi -.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più
forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai
tanti di meno addosso -.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a
mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti
stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è
traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli
altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei
più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si
lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro
che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo
mangiò a tradimento, perché era più forte di lui
-.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il
ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava
sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la
finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio:
- Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la
sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si
stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di
manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato
da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da
quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo,
allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra.
Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il
padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però,
e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli
che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si
pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato
lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e
non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche
volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la
verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono
malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le
spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata
rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o
timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una
carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato
di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso
da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo
sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo
damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era
sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a
rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la
domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la
camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei
sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli
orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non
gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei
fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non
gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel
malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei
cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da
quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla
prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici
come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e
lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta
per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci
di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli
asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai
più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a
picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono
asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando
stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno
da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva
di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era
perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva
andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio,
e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo,
col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che
veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle
stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle
strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il
contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i
folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli
uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in
quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a
Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava
ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare
colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che
quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del
babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi.
Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre
là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si
sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora
stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come
l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi
all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara
nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce
n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che
camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio
del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida
disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe
di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo
all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar
dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i
calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i
pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il
pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al
mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che
aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una
parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal
paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che
non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui
sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della
galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre
giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi
calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu
osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il
pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si
poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato
istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani
lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava
di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non
dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e
vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo
istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché
stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di
carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e
li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a
nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per
quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si
potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe
del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi
nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che
solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide
e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone,
quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava
in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una
accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il
mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee
in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche
il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero
troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se
voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva
risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel
manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri
più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi
cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino
grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.
- Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono
più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi
conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci;
e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in
faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida
curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le
fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani
scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano
ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio
li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che
non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha
più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio?
Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo,
colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a
vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti
che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un
pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per
mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco
come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle
guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il
fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo
battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non
più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se
ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e
tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la
vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un
grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si
udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano
sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto
era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso
la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e
n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la
candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.
- Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene
avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura
d'andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi
cercherà -.
Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti
anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come
la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava
sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella
luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il
mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là
vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e
desolata.
- Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, -
dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei
pensava:
- Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera
perché non può andare a trovarli -.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo
sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve
aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che
se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il
dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e
allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra,
come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei
pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno
volentieri in compagnia dei morti -.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci
stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che
lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono
stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te
l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo
aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo
verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice
così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la
gonnella -.
E dopo averci pensato un po':
- Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo
chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino
trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si
ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava
sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin
bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso
duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza
lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva
orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso
in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava
Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera,
sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso,
Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato
si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli
avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male,
così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran
pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio,
lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un
calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si
mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:
- Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di
me, ti giuro! -
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver
la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga
della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli
diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio
tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non
c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi,
né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla
fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle
mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi
volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere
sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso
come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il
carico nel salire la viottola, egli borbottava:
- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo,
è meglio che tu crepi! -
E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a
quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e
il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui
era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si
informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo.
Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre
piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che
guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a
Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da
due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero
Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti
travicelli c'erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare
che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo
figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come
quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e
robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui,
perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei
pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e
tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove
solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano
più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato
così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché
anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro
Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era
andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la
porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava
più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto
come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai
visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai
dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo
pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpelo seppe
in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i
ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là
dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per
quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche
settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che
era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di
stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto,
era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.
- Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si
fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma
non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma
in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva
comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa
andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano
d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il
pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché
nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe
permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del
mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto:
sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del
minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e
cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo.
Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi
di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il
fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe
nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della
cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo,
ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli
rossi e gli occhiacci grigi.
(Novelle Rusticane 1883 – Giovanni Verga)
Per noi la Patria ha più vasti confini perché sappiamo cos'è una siepe. (M. Parrella - poeta lucano)
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