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Fonte:
https://quotidianiespresso.repubblica.it

Il grande inganno: 'siamo tutti terremotati'

Il numero dei comuni coinvolti fu allargato a dismisura, alla fine divennero 687

di Gianni Giannattasio

22 novembre 2005



Salerno. Alle 19,35 del 23 novembre del 1980 un’onda sismica del settimo-ottavo grado della scala Mercalli (magnitudo 6,5 - 6,8 della scala Richter) si sprigionò dalle profonditá sottostanti il Cervialto, investì violentemente il cuore dell’Appenino campano e lucano, cioè le alte e medie valli dell’Ofanto, del Sele e il bacino del Tanagro. Poi, verso Sud, le zone montane del Potentino e verso Nord il complesso montano del Terminio, spingendosi da un lato verso l’alta valle del Calore e dall’altro verso l’alta valle del Sabato.

L’estensione dell’epicentro comprese un territorio di quasi 300mila ettari, con una popolazione di oltre 230mila abitanti di 71 comuni delle province di Avellino, Salerno e Potenza.

Le vittime. I morti furono 2.735, di cui 1.762 in provincia di Avellino, 674 in quella di Salerno, 153 nel Potentino, 12 in provincia di Caserta, 3 in provincia di Benevento e 131 nel Napoletano (di cui a Napoli 52 per il crollo del palazzo in via Stadera).

I feriti. 8.848 le persone ferite: 3.993 in provincia di Avellino; 2.468 in quella di Salerno; 1.501 nel Napoletano; 715 in provincia di Caserta; 139 nel Casertano e 32 nel Beneventano.

Delimitazione dell’area. Sepolti i morti, soccorsi i feriti e garantita una prima sistemazione di fortuna agli sfollati, nelle settimane successive il problema politico con cui fare i conti, in vista della ricostruzione, fu la delimitazione dell’area terremotata. Un primo tentativo venne fatto dal Governo nel dicembre 1980, vi includeva 104 comuni della provincia di Avellino, 67 di Napoli, 46 di Potenza e 66 di Salerno, ma la proposta non venne accolta e il decreto non fu varato.

Altro elemento di contrasto sorse sui criteri per la divisione dei comuni terremotati in classi di danno. Nel gennaio del 1981 vennero individuate tre categorie: disastrati, con danno di oltre l’80%; gravemente danneggiati, con danni dal 40 all’80%; e danneggiati dal 5 al 40%.

Le spinte politiche per allargare l’area dei comuni terremotati, che avrebbero beneficiato dei contributi per la ricostruzione, cominciarono ad essere pressanti. La Regione Campania propose una lista di 339 comuni, di cui 23 disastrati, 76 gravemente danneggiati e 240 danneggiati. Il 13 febbraio del 1981 il Governo formulò un nuovo elenco che comprendeva 315 comuni in tutto e sopprimeva la categoria dei gravemente danneggiati. Bisognò attendere il 30 aprile del 1981 per il primo decreto, con il quale il Governo dichiarò disastrati 33 comuni, più i centri storici di Avellino e Potenza, ma non delimitò, per le difficoltà politiche incontrate e perché le Regioni non collaborano, l’intera area danneggiata. Nel decreto, però, comparirono per la prima volta, in qualità di danneggiati, 11 comuni della provincia di Foggia.

Nel frattempo il Parlamento approvò la legge sul terremoto, la 219/81, che reintrodusse la categoria dei comuni gravemente danneggiati. Otto giorni dopo, il 22 maggio, con decreto della presidenza del Consiglio dei ministri, venne ufficialmente delimitata l’area dei comuni terremotati. Le pressioni dei parlamentari campani e pugliesi avevano prevalso e nella lista furono inclusi tutti i 119 comuni della provincia di Avellino, 86 comuni (su 91) della provincia di Napoli, 53 (su 99) di Potenza, tutta la provincia di Salerno (all’epoca 157 comuni), 102 della provincia di Caserta (su 104), l’intera provincia di Benevento (78 comuni), tutta la provincia di Matera (31 comuni), 14 del Foggiano (su 64). In totale 642 comuni, così suddivisi: 33 disastrati; 297 gravemente danneggiati; 312 danneggiati. In quest’ultima categoria furono inclusi anche quelli che avevano subito danni inferiori al 5%.

Sei mesi dopo, il 13 novembre del 1981, accogliendo le sollecitazioni dei politici lucani, con un nuovo decreto il Governo aggiunse all’elenco altri 45 comuni (20 gravemente danneggiati e 25 danneggiati). In pratica tutta la provincia di Potenza, ad eccezione di Teana, che fu poi inclusa nel 1986.

In definitiva dagli iniziali comuni dell’epicentro, il cosiddetto "cratere", l’area terremotata venne estesa a tutta la Basilicata, a tutta la Campania e a 14 comuni della provincia di Foggia, per un totale di 687 comuni. Le successive modifiche riguardarono solo salti di categoria: Campagna fu inserito tra i disastrati e Grottolella, con un ricorso al Tar, tra i gravemente danneggiati.

Alla fine, agli atti della Repubblica, risultarono 37 comuni disastrati, 314 gravemente danneggiati e 336 danneggiati. L’allora presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, in Parlamento ammise «il deteriore fenomeno del progressivo allargamento dell’area geografica in cui si è verificata la sciagura». «Accadde infatti - spiegò De Mita nel 1987 - che le pressioni politiche e sociali, che si appuntano sui Governi e sul Parlamento conducano a successivi allargamenti dei beneficiari delle provvidenze disposti dalla legge di emergenza. In tal modo la ricognizione geografica dei disastri risulta diversa dai reali confini della zona colpita».

Il catasto dei danni. Stessa sorte toccò alla quantificazione dei danni. La relazione di Zamberletti, commissario per l’emergenza, stimò inizialmente in 20mila gli alloggi perduti nei 36 comuni dell’epicentro, in 50mila quelli gravemente danneggiati o danneggiati negli altri 244 comuni esterni al cratere. 280mila i senzatetto, di cui 50mila a Napoli.

In un rapporto del 1981 per 639 comuni, a cura del Comitato istituito dal ministero del Bilancio, le abitazioni distrutte erano 27.627, quelle gravemente danneggiate 292.018 e 470.729 le lievemente lesionate. Il fabbisogno per la ricostruzione e le riparazioni era valutato in 8mila miliardi di lire.

Nel successivo rapporto del 1982, tarato su 686 comuni, il numero delle abitazioni distrutte lievitò a 77.342, di cui la maggior parte (67.008) in Campania, a fronte delle 16.688 censite nel cratere. I sindaci, infatti, dichiaravano distrutte dal terremoto anche le case che ritenevano di dover demolire per attuare gli interventi di ricostruzione. Aveva preso corpo il deteriore fenomeno della sopravvalutazione del danno nelle aree metropolitane distanti dal cratere.

I danni alle opere pubbliche ammontavano invece, secondo le valutazioni dei Comuni, a 3.404 miliardi di lire, mentre il fabbisogno di opere pubbliche necessarie per lo sviluppo venne valutato a livello centrale in 3.575 miliardi.

Rispetto al precedente rapporto lievitò anche il fabbisogno finanziario, che per l’edilizia privata e le opere pubbliche fu stimato tra 16.000 e 37.000 miliardi.

Nel 1984 le competenze del coordinamento degli interventi della legge 219 passò al Ministero per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. In quello stesso anno fu approvata la legge 80 che introdusse la perizia giurata dei tecnici per l’accertamento dei danni provocati dal terremoto alle abitazioni provate. Sovente i tecnici che siedevano nelle commissioni comunali per la ricostruzione post sisma erano gli stessi che avevano firmato le perizie giurate ai richiedenti il contributo.

«Non ci fu alcun controllo», dichiarò alla commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Scalfaro, l’allora ministro Salverino De Vito. «Era ormai evidente che il catasto del danno sarebbe stato formato dalle domande di contributo, e quindi che il danno era destinato a salire via via che nuove leggi aumentavano la platea dei beneficiari e la commisurazione dei contributi», sostenne la Commissione di inchiesta nella relazione conclusiva il 27 gennaio del 1991. La politica, insomma, aveva moltiplicato i danni reali provocati dal sisma.

22 novembre 2005









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