Eleaml



Hercule de Sauclieres

Gli intrighi, le menzogne

ed il brigantaggio piemontese in Italia

Prima versione italiana di Giulio B.G.N.E

Venezia: Tip. Emiliana, 1863

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CAPITOLO PRIMO

La strategia dei settari

2

CAPITOLO SECONDO

La propaganda e la menzogna dei liberali intriganti

10

CAPITOLO TERZO

Cavour e le sue trame

17

CAPITOLO QUARTO

Lo Stato Pontificio, il nemico

21

CAPITOLO QUINTO

I partigiani della demagogia sovversiva

30

CAPITOLO SESTO

Eliminare il Regno delle Due Sicilie

40

CAPITOLO SETTIMO

La Chiesa schiava nello Stato in rivoluzione

54

CAPITOLO OTTAVO

Quegli assassini dei fratelli d'Italia sono un nuvolo di cavallette voraci.

78

CAPITOLO NONO

Smascherare il Piemonte

88





CAPITOLO PRIMO
La strategia dei settari


Allorché il Piemonte, spinto da un'ambizione eccessiva, strascinato fors'anche dal genio fatale delle sette rivolu­zionarie, intraprendeva, or son quindici anni, a ridurre sotto il suo dominio l'Italia intera, l'opera essendo perico­losa ed in pari tempo gigantesca, fece appello ad ogni cat­tiva passione della terra: gli ambiziosi, gli avidi, gli auda­ci, gl'intriganti ed i perversi, tutti quelli che avevano una vendetta da soddisfare, un'utopia da svolgere, e tutti pure quei tali per cui la rivoluzione è una speranza, una fortu­na[1]; in fine quelli che non saprebbero vivere senza mettere la Società in qualche pericolo. Nelle opere del disordi­ne l'ambizione e la cupidigia tengono luogo del genio: in tal guisa non occorre un gran talento per agitare e scon­volgere le nazioni. Era il momento in cui, nell'Europa in fuoco, si rovesciavano i troni da tutte le parti, e che i ridi­coli eroi della demagogia si mettevano ovunque nei posti dei re. Si sa che questo fu per tutti gli onesti un supremo momento di terrore. Un sol uomo, nominiamolo per la gloria e l'onore del suo nome, il signor di Lamartine, col ammirabile Manifesto alle Potenze, salvò l'Europa dal più gran pericolo dei tempi moderni, e la preservò da una guerra di propaganda rivoluzionaria, alla quale si prepa­ravano già i faziosi di tutti i paesi e che forse avrebbe lan­ciato il mondo intero in un sanguinoso caos, come ai tempi delle irruzioni dei barbari.

Il Piemonte, timido allora nei suoi ambiziosi progetti di conquiste e di annessioni, si contentava di maneggiarsi solo in modo che la Corona ferrea dei re lombardi venisse riunita alla croce bianca di Savoia. In questo frattempo il Barone Hummelauer avendo presentato al consiglio dei ministri della Corte d'Austria un acconcio piano di pacificazione[2], il Governo sardo credendo il momento propizi0 ad agire, fece giuocare tutte le risorse più segrete della sua diplomazia onde ottenere che l'antico regno lombardo venisse annesso ai suoi Stati. Il sig. Barone Hummelauer espose destramente in questa Memoria i motivi che dove­vano invitare il governo di Sua Maestà l'Imperatore d'Austria "a riconoscere il principio della nazionalità ita­liana ed inoltre a contribuire a tutto potere alla confedera­zione della penisola sopra basi le più nazionali". In un dispaccio al Visconte Palmerston, in data di Londra 23 maggio 1848, il barone Hummelauer proponendo a nome del suo Governo una base pel riordinamento degli affari d'Italia sotto la mediazione amichevole dell'Inghilterra, scriveva queste rimarchevoli parole: "II Gabinetto britan­nico dev'essere informato del modo col quale procedono le cose in Francia meglio che noi stessi lo potessimo essere". Il nobile Visconte infatti è il più fino di tutti i diplo­matici: ed è anche quegli che meglio d'ogni altro conosce gli uomini politici d'Europa ed i diversi motivi che li fanno agire. "Noi riguardiamo come inevitabile e fors'anche prossima un'invasione della Francia". Un'invasione! Non si direbbe meglio parlando d'un'irruzione di barbari. Il diplomatico tedesco prosegue: "L'invasione dell'armata piemontese e delle altre truppe e bande del resto d'Italia ne' nostri Stati non è stata fatta in realtà che per chiamar­vi i Francesi". Realmente il riordinamento proposto dal governo di S. M. l'Imperatore d'Austria consisteva nel fare un "regno lombardo-veneto sotto la sovranità dell'Imperatore con un'amministrazione separata da quello del rimanente dell'Impero: un regno intieramente azionale, e le cui basi sarebbero state combinate dai rap­presentanti del medesimo regno senza intervento di sorta da parte del governo imperiale. Un arciduca-viceré sarebbe stato posto alla testa dell'amministrazione del remo come un luogotenente dell'Imperatore". In questo caso si sarebbero riuniti al nuovo regno i ducati di Parma e di Modena, sempre però coi dovuti riguardi ai loro sovrani, e colla garanzia che le loro proprietà personali sarebbero state rispettate. La conseguenza di questa solu­zione era "la possibilità di riunire i mezzi del Piemonte a quelli dell'Austria in un sistema di difesa comune contro l'invasione dei Francesi". Ma questo accomodamento non contentava le mire ambiziose del Piemonte: si sa con quali intrighi si fece abbandonare questo progetto.

L'indomani di questo dispaccio il Barone Hummelauer comunicava a lord Palmerston un nuovo piano per siste­mare gli affari d'Italia. "La Lombardia cesserebbe d'ap­partenere all'Austria, e sarebbe libera padrona di restare indipendente o di riunirsi a quello degli stati italiani che più le piacesse. Lo stato veneto resterebbe sotto la sovra­nità dell'Imperatore; esso avrebbe un'amministrazione separata, interamente nazionale, combinata dai rappre­sentanti del paese medesimo senza intervento del Governo imperiale, e sarebbe rappresentata presso il Governo centrale della monarchia da un ministero ch'essa nominerebbe e che formerebbe il rapporto fra lei e il Governo centrale dell'impero. L'amministrazione veneta sarebbe presieduta da un arciduca-viceré che risiederebbe a Venezia come luogotenente dell'Imperatore... Le truppe veneziane sarebbero tutte nazionali, quanto al loro perso­nale; ma siccome esse non avrebbero potuto essere d'una forza sufficiente per formare un'armata separata, così avrebbero dovuto partecipare naturalmente all'organizza­zione dell'armata imperiale, ed esser poste sotto gli ordini immediati del ministero della guerra dell'Imperatore...".

Il 9 agosto seguente il signor Giulio Bastide, ministro degli affari esteri della Repubblica francese, offriva anche la sua mediazione in nome del proprio Governo, concludendo in questi termini una convenzione con lord Normanby, ambasciatore d'Inghilterra a Parigi. Vi era detto fra le altre cose che le ostilità sarebbero state immediatamente sospese fra le due Potenze belligeranti. Qualche giorno dopo, il 21 agosto, il signor Giulio Bastide comunicava questa nuova al signor di Harcourt, ambasciatore della Repubblica francese a Roma, dicendo: "Non è colpa della Francia se l'Italia non è stata da lei soccorsa. La Repubblica le ha sino dai principii offerta una generosa assistenza, ma l'Italia l’ha rifiutata pre­tendendo ch'essa era in grado di bastare a sé medesima. Oggi che questa speranza si va perdendo e che gravi avve­nimenti preparano all'Italia, ed aggiungerei alla Francia, una situazione anche più grave, questa ha certamente il dirit­to di consultare i suoi propri interessi e di esaminare la que­stione sotto il suo punto di vista e sotto quello della situazio­ne generale d'Europa, della quale bisogna ugualmente tener conto. Essa ha giudicato che una soluzione pacifica era essen­zialmente desiderabile, ed a questo scopo d'accordo coll’Inghilterra ha offerta la sua mediazione all'Austria ed alla Sardegna sopra basi onorevoli. È in questi termini ch'io ho risposto ad una dimanda che mi venne diretta dal Governo provvisorio di Milano per sollecitare il nostro intervento. Il re Carlo Alberto ha accettata la nostra mediazione. Noi attenderemo la risposta del Gabinetto di Vienna.

Disgraziatamente il re ha reso più difficile l'esercizio di questa mediazione coll'inqualificabile armistizio che ha conchiuso col maresciallo Radetsky, armistizio che ritorna in possesso dell'Austria le piazze occupate dalle truppe pie­montesi e che abbandona Venezia a sé stessa.

Veramente mentre che la diplomazia proseguiva i suoi intrighi in favore del Piemonte, il re Carlo Alberto aveva domandato un armistizio come introduzione al ripristinamento d'una pace definitiva; e l'Austria, più generosa che previdente, aveva arrestate le sue armate vittoriose alla frontiera del Piemonte, ed il 9 agosto accondiscendeva alle dimande del vinto. Il 20 settembre seguente un'amni­stia completa era accordata dall'Imperatore d'Austria a tutti gli abitanti del regno lombardo-veneto per la parte che essi avessero presa agli avvenimenti politici di quel­l'anno. Una costituzione particolare fu accordata al fine di togliere qualunque pretesto a nuove rivolte. Ma non anti­cipiamo gli avvenimenti.

Il 13 ottobre dello stesso anno, il signor Giulio Bastide, questo scrittore del National trasformato subitamente in ministro degli affari esteri, scriveva al signor Delacour incaricato d'affari della Repubblica francese a Vienna, uno strano dispaccio che sente più della minaccia d'un cospi­ratore che del linguaggio riflessivo del diplomatico d'una grande nazione. Il signor Lamartine non avrebbe certa­mente parlato così. "L'Austria, diceva il ministro repubbli­cano, qualunque sia il suo governo, farà sempre una follia ostinandosi a voler ritenere un paese il di cui possesso non può essere che un'occupazione armata[3]. Da molti secoli le pazzie italiane hanno fatto un male grandissimo alla Francia. Sarebbe da molto tempo l'Austria guarita da quest'incomodo, se si fosse occupata a pigliarsi quel posto che legittimamente le appartiene nel mondo, vale a dire ch'essa dirigesse i suoi sforzi per porsi a capo d'una confe­derazione danubiana[4]. Se essa vuoi tenere altro sistema da questo, conserverà difficilmente, o meglio perderà l'Italia e verrà schiacciata dall'impeto sempre crescente delle popolazioni slave. Essa dovrebbe ben comprendere che se qualche Potenza l'incalza ad estendersi al di là delle Alpi, questo è per un interesse che certo non è il suo: si vuole allontanarla dalle bocche del Danubio. Voi vi interesserete onde il Gabinetto di Vienna diffidi di questa politica nemica[5]".

Ecco intanto il ministro di Foreign-Offìce inglese che viene a patrocinare alla sua volta la causa del Piemonte ed a mostrare all'Austria i pericoli dell'avvenire, se essa si ostina a non voler rendere alla Lombardia la sua indipendenza ed la sua libertà. Vi si vede sempre dell'intrigo in favore del Governo sardo, qui però riveste almeno una forma ed un linguaggio diplomatico. La nota inglese è saggia, profonda nelle sue previsioni; e se essa non è del tutto profetica, sarà però la confidente dei progetti della rivoluzione, perché la previdenza umana non arriva ordi­nariamente a preconizzare fino coi dettagli gli avvenimen­ti sempre incerti del futuro. Checché ne sia, lasciamo par­lare lord Palmerston stesso: il suo dispaccio è dell'11 novembre 1848 a lord Ponsonby ambasciatore del Gabinetto britannico a Vienna.

Dapprincipio il nobile visconte è convinto, dice egli "che è impossibile sperare che una provincia (la Lombardia) nella quale esiste in ogni ceto della popola­zione sì nelle città che nelle campagne un odio inveterato contro la dominazione austriaca, che una tale provincia possa mai diventare una possessione utile e sicura per la corona imperiale". Si potrebbe ritorcere l'argomento con­tro la dominazione inglese in Irlanda e nelle Isole Jonie.

"Non si può ragionevolmente sperare, prosegue il capo del Gabinetto inglese, che la medesima concessione di istituzioni nazionali fatte oggi dall'Imperatore alla Lombardia, possa cambiare le antipatie ch'essa ha pel governo straniero, od avere altro effetto da quello in fuori di offrire alle popolazioni maggior facilità di scuotere il giogo dal quale esse sono così desiderose di liberarsi".

Il semplice buon senso mostra qui che la Lombardia avrebbe avuto immensamente da guadagnare in questa concessione d'istituzioni nazionali con un arciduca per viceré; come tutto ha perduto diventando una piccola pro­vincia del Piemonte, si sa come diventato Regno d'Italia. Non occorre né una gran saggezza, né un profondo giudi­co per comprendere che vai meglio governarsi ed amministrarsi da sé, che essere governati ed amministrati gli altri. Quando un popolo per l'imperiosa necessità degli avvenimenti è costretto ad essere soggetto, la cosa più n\0_ riosa per lui si è quella d'esser soggetto al più possente La Lombardia non era umiliata essendo soggetta all'Austria; oggidì essa deve sentirsi ben avvilita vedendosi conquistata da armi straniere e da queste ceduta, senza il suo consenso, ad un altro straniero, ad un detronizzatore di sovrani, ad un invasore di nazionalità, ad un re che incendia le città che non può sottomettere e che bombar­da gli ospedali!!! Ma proseguiamo: il popolo lombardo è già punito della sua imprudente ribellione. Il mazzinismo s'incaricherà di rendere la lezione profittevole: non si giuoca mai impunemente collo spirito del disordine.

"Il momento attuale, prosegue lord Palmerston in un rimarchevole pronostico dell'avvenire, è favorevolissimo all'Austria per concludere un riordinamento, col quale la Lombardia verrebbe resa libera. L'armata austriaca ha nuovamente occupata la Lombardia: in conseguenza una concessione non sarebbe che il risultato di una risoluzione ben ponderata e non mai d'una necessità locale. L’autorità dell'Imperatore frattanto è ristabilita a Vienna, e conse-guentemente le decisioni che l'Austria prenderebbe relati­vamente alla Lombardia non potrebbero essere considera­te come un sacrifìzio imposto al Governo d'un impero in pericolo; le due Potenze che intrapresero la presente mediazione sono amiche dell'Austria e desiderano since­ramente ch'essa mantenga la pace d'Europa.

Ma ben molti avvenimenti possono sopravvenire in qualche mese. Grandi cangiamenti possono aver luogo in Francia; l'elezione che dev'esser fatta il prossimo mese, può innalzare in questo paese altri uomini al potere, e con altri uomini altra politica. Massime d'una politica tradizionale legate ad un'azione più viva riguardo ai paesi stranieri ti possono esser prese per norma dal nuovo Governo, la Francia. Il sentimento popolare di questo paese che inclina presentemente alla pace, può pigliare una direzio­ne opposta, e la gloria che si considerava in Francia di liberare l'Italia fino alle Alpi dalla dominazione austriaca, potrebbe decidere la nazione francese a numerosi sforzi e sacrifizii. Il caso di chiamare l'intervento della Francia in favore dell'indipendenza italiana, non tarderebbe molto a presentarsi, e sarebbe avidamente colto dai Lombardi come dal Governo e dal popolo di Francia che sarebbe pronto a correre all'appello. È indubitabile che una forte armata francese aiutata e sostenuta da una leva generale d'italiani schiaccerebbe le forze di cui l'Austria può disporre in Italia, e, secondo tutte le probabilità, l'Austria perderebbe allora tutti i suoi possedimenti in Italia fino alle Alpi.

È detto benissimo che questo conflitto potrebbe porta­re una guerra generale in Europa, e che altre potenze potrebbero sostenere l'Austria. Ma il Governo austriaco è egli ben sicuro dei sentimenti che nutrirà la Germania quando venisse il giorno di ribadire il giogo all'Italia?... Il principio di nazionalità, che in oggi è il grido unanime della Germania, non si potrebbe pronunciare contro l'Austria in un tal conflitto?... In conseguenza di tutto questo, il Governo di S. M. britannica prega fervorosa­mente il Governo austriaco di voler prendere al più presto possibile questo stato di cose in seria considerazione...".

In un altro dispaccio 5 dicembre del medesimo anno, ugualmente diretto a lord Ponsonby, il diplomatico inglese insiste perché il Governo austriaco abbandoni affatto la Lombardia, e la lasci incorporarsi al Piemonte col quale essa farà parte di uno stato italiano indipendente, in luogo di essere una provincia soggetta a Potenza straniera. Come se il Piemonte stesso non fosse per la sua origine straniero alla Lombardia, la cui antica e gloriosa capitale ora non è più che una semplice Prefettura del Governo di Torino Bisogna propriamente dire colla storia e con lord Palmerston medesimo che "i Lombardi sono sempre stati malcontenti, qualunque fosse il padrone che li governava e che sotto la Francia essi hanno manifestato uguale mal­contento che sotto l'Austria, e nella stessa maniera". Ed ecco già che essi in odio al Governo piemontese si gettano nelle braccia del gran profeta Mazzini, come se l'indipen­denza non potesse acquistarsi che col disordine e la distruzione. Si potrebbe dire veramente che vi sono dei popoli, la missione dei quali sopra la terra è quella di essere sempre malcontenti. Sarebbe quasi a pentirsi di lasciarli esistere.


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CAPITOLO SECONDO
La propaganda e la menzogna dei liberali intriganti


Frattanto il Principe Schwarzenberg avendo formalmen-te ed energicamente dichiarato in nome del Gabinetto Austriaco1 che il Governo di S. M. l'Imperatore era irrevo­cabilmente deciso a non accettare alcuna mediazione che avesse per oggetto un'alterazione qualunque de' suoi posse­dimenti in Italia, e che consentirebbe meno ancora a distac­care la Lombardia dall'Impero, proposizione che non ema­nava dal Gabinetto imperiale, e non era mai stata da esso sanzionata; il Gabinetto di Torino perdendo allora ogni spe­ranza d'aver la Lombardia con intrighi diplomatici, ruppe slealmente l'armistizio col suo famoso Manifesto alle nazioni dell'Europa civilizzata, e cercò nell'azzardo delle battaglie quel­lo che gl'intrighi non gli avevano potuto far ottenere. Già Roma, Napoli, Firenze, Venezia e Parma erano in rivolta ed obbedivano a Governi provvisorii di società segrete o a ridi­cole Repubbliche create dalla Giovine Italia. Si sa ciò che avvenne; il re vinto a Novara, abbandonato, tradito dalla setta2, se ne andò ad espiare nella solitudine dell'esigilo i funesti effetti della sua ambizione; ma quello che non si sa mai abbastanza, si è la grave ragione allegata dal Governo sardo per giustificare questa sleale rottura dell'armistizio Arrestiamoci dunque un momento su questo strano Manifesto, capo di opera di menzogna e di mala fede rivo­luzionaria.

Il Governo sardo, si dice dapprincipio "costretto, dal seguito degli avvenimenti, a rientrare in quella carriera ove lo chiamarono i voti degl'Italiani determinati di ricon­quistare la loro nazionalità". Ma poiché gl'Italiani erano allora così determinati a riconquistare la loro nazionalità, come avviene che nell'armata di Carlo Alberto a Novara non v'erano che Piemontesi? Donde viene che le bande di Garibaldi a Roma non erano composte per la massima parte se non che di stranieri di tutti i paesi? Il Governo sardo del resto riconosce anch'egli nel suo Manifesto alle nazioni dell'Europa civilizzata, che egli fu lasciato solo sul campo della battaglia ove passioni poco nobili avevano già spar­so semi di discordia. E difatti l'Austria avrebbe avuto essa un'armata forte abbastanza per vincere la rivoluzione, dal momento che le popolazioni tutte d'Italia fossero marciate di conserva coi ribelli? Ben si sa, per esempio, che i popo­li della campagna in tutta la penisola sono devoti ai loro legittimi Sovrani. Se il Piemonte se ne vuoi convincere, ritiri le sue numerose truppe dai paesi che gli ha conqui­stati la Francia, o che si è annessi con intrighi e tradimen­ti, e che oggi tiene sotto il suo giogo colla violenza ed il terrore delle armi, e vedrà ovunque richiamati ed accla­mati i Sovrani legittimi. Il Piemonte sarebbe forse il solo ad ignorare che il suo nome in oggi è esecrato da un'estremità all'altra della Penisola?

Il Manifesto pretende inoltre che la rivoluzione italiana sia un effetto del progresso della civilizzazione! Sarebbe stato più giusto il dire, che le ambizioni di qualche uomo l’han­no prodotta, che le società segrete l'hanno preparata, organizzata, disciplinata, e che i facili tradimenti hanno ovunque assecondato il suo movimento; la balordaggine poi dei popoli, e la turbolenza del sangue italiano fecero il rimanente. Se i progressi della civilizzazione fossero stati capaci di produrre quest'opera d'iniquità che si chiama la rivoluzione italiana, sarebbe stato necessario per l'interes­se dei popoli medesimi di consigliare i re a sterminare ogni civilizzazione.

"Era naturale che la rivoluzione italiana vedesse nell'Austria il suo principale nemico, e contro questo diri­gesse tutti i suoi sforzi", naturalissimo; i faziosi della peni­sola sono stati così spesso e severamente puniti dall'Austria, che essi dovevano detestarla con tutta la forza dell'animo loro. Ma quello che meno si capisce è come il Piemonte si sia fatto il campione della rivoluzione italia­na, ed abbia prese le armi contro una Potenza che più volte protesse la corona dei re di Sardegna messa in peri­colo dai faziosi medesimi. L'interesse, se non la ricono­scenza, doveva fargli un dovere di non offendere un simile alleato. E chi lo proteggerà quando la democrazia italiana in rivolta rovescerà il suo trono come già gli altri? Chi proteggerà uno scomunicato contro il terribile giudizio di Dio???

Che se è permesso di cercare l'origine dei diritti che si fondato sui possedimenti anche secolari e sui trattati, con molta maggior ragione si deve permettere di discutere quei precisi diritti che altra origine non hanno in fuori dagl'intrighi, dalle perfidie, dai tradimenti, e che non sono che attentati contro la morale, la civilizzazione, la libertà contro il diritto medesimo. Non sappiamo forse noi come si fece quest'odiosa iniquità che si chiama il Regno d'Italia?... Non abbiamo noi assistito alla sua creazione?... Il Piemonte dice, è vero, nel suo linguaggio subalpino: Io sono l'Italia, io cedo ai voti dell'Italia! Ma giacché tu sei l'Italia, perché da fratello barbaro e snaturato massacri i tuoi fratelli? E chi ti ha dato il diritto di opprimerli col tuo giogo? Dove sono i trattati che hanno esteso il tuo pic­colo regno dalle Alpi fino al mar Jonio?... Che diritti hai a questi possedimenti?... Il tuo diritto, il tuo unico diritto, io non lo vedo inscritto che su una carta d'ammissione ai clubs della Giovine Italia, fra il diritto dell'assassino, del rivoltoso, fra una bomba fulminante, un cannone ed un pugnale! Veramente ti si addice bene di "Considerare diversissima l'origine di possedimento che l’Austria ha sui varii territorii di cui si compone il Regno Lombardo-Veneto!".

"Il diritto dell'Austria sulla Repubblica di Venezia non è fondato sopra altro che su quegli atti arbitrarii che la coscien­za pubblica ha sempre condannati come contrarii a tutte le regole della giustizia e dell'equità". Ma con qual diritto il Piemonte possiede gli stati della Repubblica genovese?... Non è in virtù dei trattati del 1815?... Con qual diritto pos­siede egli la Lombardia conquistata all'Austria dall'armata francese?... Non è in virtù dell'atto di donazione che gliene fece Napoleone III e del trattato di Zurigo sì dolosamente osservato fino a tutt'oggi?... Quando si vuoi fare il moralista bisogna prima praticare le regole della morale. Che se l'Italia è stata costretta a subire i trattati del 1815, il Piemonte non ha il diritto di lagnarsene, giacché senza questi trattati egli non esisterebbe di certo.

Ma vedete singolar maniera di ragionare. "Se i trattati, dice il Manifesto, decidono delle questioni fra i popoli, essi però non possono decidere dell'esistenza dei popoli medesimi, perché non possono cancellare la lingua e la storia, e fare che un atto passeggero, risultato della forza brutale, prevalga perpetuamente contro le leggi stabilite dalla natura e dalla provvidenza. L'Italia deve esistere da sé stessa, non nella geografia o nelle statistiche, ma nei Congressi delle nazioni civilizzate". Ed infatti trovasi forse un'epoca nella storia, nella quale l'Italia abbia esistito da sé stessa come regno, come impero, o come repubblica? Io la vedo da ben duemila anni vinta e sottomessa ai conqui­statori del mondo, soggetta al giogo dei Romani; io non la vedo mai formare una nazione indipendente. All'incontro io la scorgo da dodici secoli circa formare diverse nazionalità presso a poco come prima della fonda­zione di Roma, benché con un diverso sistema politico.

L'Italia una, repubblica, impero, regno, teocrazia anco­ra, oggi non si può comprendere che coll'idea d'uno scon­volgimento dell'equilibrio europeo. Però si comprende l'i­dea d'una Confederazione italiana formata di concerto coll’Austria, la Francia e la Spagna, l'avanguardo della civilizzazione cristiana nella sua marcia verso l'Oriente. Là vi era una nobile e grande intrapresa che avrebbe ricolmo il Piemonte di gloria; ma egli preferì avvilire la sua corona nei miserabili intrighi delle società segrete. L'egoismo rivoluzionario l'ha dominato, od ora la logica del male lo conduce fino a scorrere nel sangue della sua fatale Unità.

I trattati, dite voi, non possono decidere dell'esistenza dei popoli, né fare che un fatto passeggero, risultato della forza brutale, prevalga in perpetuo!". Ma le vostre conqui­ste e le vostre annessioni non sono forse il risultato della forza brutale, e la più brutale?... E non è ancora colla forza brutale che ne conservate il vostro dominio?... Speriamo dunque che questo fatto passeggero di forza brutale non prevalerà perpetuamente. Quanto poi a questa espressione "che i trattati non possono decidere dell'esistenza dei popoli" dessa mi sembra uno schiaffo umiliante dato in anticipazione dal Governo sardo al suo re, che cedeva nel 1860 con un trattato la italiana contea di Nizza ed il suo antico ducato di Savoia all'imperatore Napoleone.

"Il Governo sardo, prosegue il Manifesto, non rinnega la responsabilità d'aver cominciata la guerra dell'indipen­denza italiana, anzi al contrario si vanta d'aver cominciata un'opera così perigliosa. Egli sapeva che ciò facendo rispondeva ai voti dei popoli e combatteva pel trionfo della più santa causa dell'ordine sociale e dell'umanità. Tutti i Governi della penisola erano allora seco lui d'ac­cordo, tutti avevano fornito il loro contingente alla guer­ra, e tutti così provarono che l'indipendenza d'Italia era il voto di tutti i popoli italiani". Qui l'iniquità si fa audace menzognera ed impudente: e come non bastasse commet­tere gli attentati, il Piemonte se ne vanta in nome della santa causa dell'umanità. Veramente c'è molta umanità a far massacrare i popoli per conseguire un vano titolo di re d'Italia! Attila, questo flagello di Dio, massacrò i popoli egli pure, ma non se ne vantava.

"Tutti i Governi della penisola, dite voi, erano d'accor­do col Piemonte, e tutti fornirono i loro contingenti alla guerra, provando così che l'indipendenza d'Italia era il voto di tutti i popoli italiani!" Quando si mentì mai così impudentemente? Ma quali sono i Governi della penisola che hanno aderito alla vostra politica, e forniti i loro con­tingenti alla guerra? E il Papa? La rivoluzione dopo aver assassinato il suo primo ministro, lo condannò ad andare in cerca d'un rifugio su quella rocca di Gaeta, che poi una gloriosa difesa doveva immortalare. È il re delle Due Sicilie? La rivolta sorgeva quasi padrona nei suoi stati, egli aveva dovuto abbandonare la sua capitale. Forse il Duca di

Parma, o il Granduca di Toscana? Essi avevano dovuto egualmente abbandonare i loro stati. La più atroce tiran­nia regnava in tutta la penisola. Le società segrete aveva­no ovunque stabiliti Governi provvisori d'intriganti, e dal­l'una all'altra delle due estremità la penisola gemeva sotto il giogo della più atroce tirannide. Quanto al duca di Modena, egli non solo non fornì i suoi contingenti alla guer­ra, ma anzi, messosi alla testa delle sue truppe, ruppe più volte gli amici e gli alleati del Piemonte, e fra gli altri luo­ghi a Livorno, ultimo baluardo della rivoluzione in quel­l'epoca. Io non vedo dunque col Piemonte alcun governo regolare in questa ingiusta guerra; io non vedo che il solo partito della distruzione, il quale certamente avrà fornito il suo contingente e la sua approvazione in una guerra di tal sorta.

Il Manifesto sembra poi voglia fare un rimprovero al Governo francese per non avere offerto al vinto re di Sardegna che una semplice mediazione in comune coll’Inghilterra, mentre gli venivano domandati dei soccorsi che erano stati promessi a popoli che desideravano conquistare la loro nazionalità. Ma prima del 1848 la Francia non ha mai né promessi né offerti soccorsi ai rivoluzionarii d'Italia perché potessero acquistare la loro pretesa nazionalità, e gli altri diplomatici ne fanno fede. Però nel 1848 la Repubblica francese gli offrì un generoso e fors'anche imprudente soccorso che il Piemonte rifiutò, dicendo orgogliosamente quelle famose parole che poi divennero popolari "L’Italia farà da sé". E queste parole confermano dispaccio del 21 agosto 1848 diretto dal cittadino lio Bastide, ministro degli affari esteri, al cittadino D'Harcourt ambasciatore della Repubblica francese a Roma. "Non è colpa della Francia, dice il cittadino mini-stro, così chiamavasi al felice tempo della libertà, dell'e­guaglianza e della fratellanza, se l'Italia non è stata da lei soccorsa. La Repubblica le ha sin dal principio offerta una generosa assistenza, ma l'Italia l'ha rifiutata pretendendo d'essere in grado di bastare a sé medesima". Questo rifiu­to si capisce; quando si ha per sé il voto dei popoli si deve poter far tutto senza soccorsi stranieri. Dunque la Francia nulla aveva promesso, essa aveva offerto generosamente la sua assistenza che fu sdegnosamente rifiutata. L’Italia farà da sé! E si è dovuto conquistarle la Lombardia, chiudere gli occhi sulle annessioni, e turarsi gli orecchi per non udire le grida delle vittime massacrate a Castelfidardo, ed infine darle un aiuto a rovesciare il trono di Napoli.

Quanto all'accusa data all'Austria, che questa potenza voleva solamente approfittarsi dell'armistizio del 9 agosto per rinvigorire le sue forze e farsi giuoco della buona fede della Sardegna, si potrebbe domandare al Piemonte se egli è stato colle mani alla cintola nei 7 mesi che durò l'armisti­zio. E poi chi aveva domandato quest'armistizio? Non fu Carlo Alberto tradito dalla fortuna, e costretto a piegare il capo sotto il capriccio delle circostanze? S'ignora forse che dipen­deva solamente dalla volontà dell'Austria ad inseguire il nemico, mentre si ritirava, e dettargli la pace sul suo pro­prio territorio? E l'armistizio medesimo non fu egli domandato come un'introduzione allo stabilimento d'una pace definitiva?3 Quanto poi all'espressione volersi far giuoco della buona fede della Sardegna, questa è una figura retorica che ogni giorno perde molto del suo valore, soprattutto  uno che il Piemonte ne fece un uso sì frequente; non vi presteremo dunque una grande attenzione.

Noi non parleremo delle viene perfide dell'Austria, né delle flagranti violazioni dell'armistizio commesse da questa Potenza, e di cui il Manifesto fa con dolore una lunga enumerazione, né dei diritti eterni che regolano tutte le Società calpestate dalla forza brutale d'un vincitore, né delle manifestazioni spontanee delle popolazioni italiane che domandavano fervorosamente al Piemonte l'unione dei popoli lombardo-veneti e dei ducati alla Sardegna, né del rispetto del Governo sardo per una convenzione subita, né della sua pazienza e longanimità, né infine della nobiltà e della generosità del popolo subalpino mentre andava a versare il suo sangue per la santa causa dell'umanità; le nazio­ni civilizzate che il Governo sardo chiama a testimonii della giu­stizia della sua causa, sono da molto tempo edificate della verità e della sincerità piemontese. Ma quello che noi non sapremmo passare sotto silenzio è l'appello alla guerra ed alla rivolta contro l'Austria fatto in questo Manifesto alle popolazioni della penisola italiana e della Germania ancora. Qui il Governo sardo, reso cieco dall'ambizione, non s'ac­corge che questo appello alle passioni rivoluzionarie, è un incendio attaccato ai quattro angoli dell'Europa, è una vio­lenza sostituita alla giustizia ed al diritto, è il dispotismo bru­tale, o l'anarchia più brutale ancora della moltitudine. E che cosa guadagnerebbe il Piemonte sollevando le nazioni con­tro l'Austria?... La riprovazione universale e la caduta del suo trono; non si agitano impunemente gli ultimi gradi della società! Carlo Alberto vinto a Novara ha cessato di esser re; Vittorio Emmanuele coronato Re d'Italia sul Campidoglio dalla rivoluzione potrebbe quel giorno finire di tenere lo scettro in mano. L'avvenire ci mostrerà se sono saggi e veri amici dei popoli quelli che si fanno uno sgabello delle rivo­luzioni.

Tale fu il Manifesto del Governo sardo che denunziava l'armistizio alle nazioni dell'Europa civilizzata. Capo d'o­pera di menzogna e di mala fede, ricevette la sua punizio­ne con una famosa sconfitta. Il Gabinetto austriaco con una risposta nobile, piena di moderazione, ma energica, l'aveva già qualificato come insigne opera di perfidia. L'Europa sa già da lungo tempo ove sia la frode, ed ove parimente sieno la giustizia ed il diritto.


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CAPITOLO TERZO
Cavour e le sue trame


Frattanto la rivolta essendo stata ovunque repressa dalle armi francesi ed austriache, ed i sovrani d'Italia essendo già rientrati nei loro Stati, un nuovo regno s'inau­gurò in Piemonte; l'abdicazione di Carlo Alberto aveva fatto re Vittorio Emmanuele. In questo momento la rivo­luzione italiana entrò in una nuova fase. Un uomo straor­dinariamente abile per le sue opere d'astuzia e d'intrigo venne in soccorso dell'ambizione sarda. Il suo genio vide in un colpo d'occhio ciò che aveva mancato al successo delle imprese piemontesi; comprese quello che si doveva fare e lo tentò con una perseveranza ed un'abilità che un giorno faranno la sua riputazione se non la sua gloria; e diffatti non è un onore lo sconvolgere le nazioni, e nulla vi è di grande a rovesciare i re dai loro troni. Da quel momento tutte le rivoluzioni si concentrarono in un sol uomo, egli ne divenne come il Dio, ne fu il dominatore ed il genio.

Il Conte Cavour, noi abbiamo già nominato quest'uo­mo straordinario, si diede dapprincipio ad organizzare e disciplinare la rivoluzione onde meglio dominarla e farla servire più facilmente alle viste ambiziose del Piemonte. E la rivoluzione felice d'aver incontrato un uomo audace che volesse incaricarsi degli affari suoi, si lasciò disciplina­re e condurre. Per la prima volta dopo il 1789 il genio del male subiva volontariamente il giogo di un capo; in obbediva a Cavour, contando però di ripigliare il comari do dopo la vittoria, e Garibaldi, quell'eroe mazziniano che fu sì felice di potere a Roma1 immergere le sue mani nel san­gue francese, ne divenne il primo luminare. Vittorio Emmanuele non ne fu che il docile braccio armato di potenza e di ferro. Così tutte le cure e tutte le ambizioni si trovarono riunite in una sola mente e in un sol cuore L'inferno doveva ridere di questa grottesca riunione d'uo­mini che si detestavano e si disprezzavano nel fondo dell’animo loro, ma che avevano bisogno l'uno dell'altro e miravano tutti al medesimo fine: togliere al Papa lo scet­tro di re e distruggere il Papato, o costringerlo ad andarsi a cercare un asilo presso i Turchi, o fra i popoli selvaggi d'America.

Fu allora che il Conte Cavour sotto il nome di Società nazionale italiana fondò quella formidabile società segreta che doveva avere quanto prima ramificazioni nell'Europa intera, ed aderenti in tutte le classi e in tutte le condizioni della società. Garibaldi che ormai diventava la personificazione vivente della rivoluzione, ne fu nominato il presi­dente visibile ed ufficiale, in attesa d'esser poi proclamato n eroe, un semidio dell'Olimpo piemontese in tutte le gazzette e da tutti gli addetti alle sette; ma Cavour ne tenne sempre la presidenza reale e la direzione. Due uomini vennero addetti al futuro eroe di Marsala, il Marchese Giorgio Pallavicino e La Farina. I principali comitati di questa associazione di rivoltosi erano a Torino, a Genova, a Milano, a Venezia, a Roma, a Firenze, a Napoli, a Londra, a Ginevra e a Parigi. In quasi tutte le città della penisola v'erano sotto-comitati che ricevevano direttamente il moto d'ordine da Milano, da Genova o da Torino: quest'ultima città aveva poi sempre la supremazia. Alcune ambasciate estere e consolati avevano l'incarico di far passare gli scritti e le corrispondenze clandestine a tutti i comitati e sotto-comitati d'Italia: questi le facevano tenere agli adepti che le spargevano poi nel pubblico. È in questa guisa che da Milano a Palermo si distribuiva il Piccolo corriere italiano e si propagavano lo spirito della rivolta e la menzogna.

Il carbonarismo che esiste ancora sotto altro nome nelle società italiane, ed il cui scopo è di rovesciare l'ordi­ne sociale, si prestò senza indugio ai desiderii dell'ambi­zione piemontese. Dal suo lato la Giovine Italia, setta essenzialmente mazziniana, assecondò attivamente gl'in­trighi rivoluzionarii del Conte Cavour. D'altra parte i comitati rivoluzionarii di Francia, Germania, Prussia, Polonia ed Ungheria, e quelli ancora di Svizzera, Russia, Inghilterra e Spagna, interessati ciascuno pel loro scopo Particolare a mettere l'Europa in disordine, prestavano attivo concorso alla nuova associazione, e così la società nazionale italiana divenne in pochissimo tempo una potenza formidabile, che dominò il Governo, diresse la pubblica opinione, ed organizzò la rivolta in tutta la penisola I] Conte Cavour aveva nelle mani tutte le risorse e tutti gl'intrighi di questa formidabile associazione, e sino al 1861 egli ne mosse i principali affigliati come si fanno muovere le marionette sul teatro.

Organizzato questo primo mezzo d'agitazione, il diplo­matico cospiratore si occupò d'una creazione d'altro gene­re, che se non fu più pericolosa, fu certo più vile: formò un'associazione di libellisti e d'insultatori che non avevano altra missione tranne quella di sollevare l'opinione pubbli­ca contro gli abbominevoli Governi d'Austria, del Papa, del re delle Due Sicilie, e dei Sovrani dei Ducati. Quest'opera di menzogna fu condotta dal Conte Cavour con un'abilità straordinaria ed un'attività appena credibile. Egli dirigeva tutto, dava il moto d'ordine ed approfittava dello stesso mistero di cui era costretto a circondarsi per dare una certa tinta d'indipendenza e di verità alla cosa che con tutta facilità ingannava e seduceva lo spirito delle masse. Se ci fosse permesso d'entrare qui nei dettagli di questa miserabile associazione, potremmo benissimo dir qui quanti milioni furono spesi presso a poco da dodici anni in qua per questa infame unione di libellisti insultatori.

Il Siede, il Journal des Débats, la Presse, VOpinion nationale, il Messager, VIndépendance belge, il Times ed il Morning-post furono in Francia, nel Belgio ed in Inghilterra i principali organi dei cospiratori; essi pubbli­cavano e pubblicano ancora ciecamente nelle loro docili colonne tutto quello che loro è mandato da Genova, da Napoli, da Roma e da Torino. Se loro si dicesse di soste­nere che la luna è quadrata, essi nella loro prosa italianis-sima assicurerebbero che quest'astro non fu mai rotondo e che il Santo Padre è un cieco negando la forma quadrangolare della luna: ed il signor Luigi Jourdan, questo gran teologo del Siede, dimostrerebbe coi Padri della Chiesa e colla sacra Bibbia che altre volte questa credenza fu uni­versale nei popoli2. È in questo modo che si formarono certe grandi riputazioni dei tempi moderni, e che la calunnia e la menzogna hanno oggi nel mondo tanti cre­duli partigiani. Poveri schiavi! Povera umanità!



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CAPITOLO QUARTO
Lo Stato Pontificio, il nemico


In questo mentre la guerra d'Oriente venne a scoppia­re con diverse combinazioni di politica e di battaglia: il Conte Cavour diventato ministro rallentò per un poco di tempo, però senza sospenderlo, il suo lavoro di rivoluzio­ne, e mandò qualche migliaio d'uomini a farsi uccidere in Crimea, nella speranza che gli sarebbe poi stato concesso di far sentire la sua voce in un Congresso di sovrani, a vantaggio dell'Italia oppressa. Ma l'odio mazziniano covava sempre, e seguitava a preparare rivolte ed attentati. Essendo nemico dichiarato dell'alleanza francese, temeva sempre di tradimenti, ed ecco perché cospirava sempre anche allora che il Piemonte non cospirava.

Frattanto lo Czar vinto a Malakoff dimandò la pace: il tarlato Impero maomettano seguitò a fare insulto alla civi­lizzazione moderna; il previsto Congresso s'unì a soddisfa­zione dell'ambizione piemontese, ed i rappresentanti del piccolo regno sardo vennero a sedere allato dei sei rap­presentanti delle più grandi Potenze d'Europa. Un grido di rivolta sta per uscire da questa pacifica riunione di diplomatici: questo sarà come il segnale d'un orribile misfatto. L'attentato d'Orsini altro non fu in realtà che «tetto e la conclusione delle due note del Conte Cavour: delitti politici sono le funeste conseguenze delle rivolte: essi le seguono, non le precedono mai. Ma lasciamo da parte questa detestabile logica del delitto e torniamo al Congresso.

Il Governo sardo, credendosi obbligato in tutte le circo­stanze di dichiararsi il campione della causa italiana, fece rimettere ai ministri di Francia e d'Inghilterra il giorno 27 marzo 1856 col mezzo del Conte Cavour e del Marchese di Villamarina suoi rappresentanti al Congresso di Parigi una Nota verbale "per chiamare l'attenzione particolare di queste due Potenze sullo stato deplorabile delle provincie sottomesse alla Santa Sede, e delle Legazioni in particola­re". Questa prima nota verbale non aveva altro scopo in apparenza che quello di far impietosire, e di commiserare la sorte delle Legazioni. Quanta bontà d'animo in un pub­blico accusatore! "Lo stato d'assedio e la legge marziale, dicevano gli accusatori, vi sono in vigore senza interruzio­ne dal 1849 in poi". Questo prova che dal 1849 in poi le sette rivoluzionarie e gli intrighi del Piemonte non aveva­no cessato di cospirare e di agitare il paese. "Il Governo pontifìcio non esiste che di nome, egli medesimo è con­vinto che non può conservar l'ordine pubblico" cosa che indica "uno stato permanente di disordine e di anarchia nel centro d'Italia". In conseguenza di questa situazione deplorabile che vi regna oggigiorno, i ministri sardi dimanda­no alle Potenze che tolgano immediatamente al Governo pontificio l'amministrazione delle "provincie situate fra il Po, l'Adriatico, e l'Appennino, della provincia d'Ancona fino a quella di Ferrara; "e che le diano ad un vicario laico, vale a dire al Piemonte. Colle invasioni e colle annessioni si è dolosamente preso quello che insolente­mente si dimandava con una semplice Nota verbale nel 1856. Ma non riuscendo l'astuzia allo scopo dei cospirato­ri, bisognava ricorrere alla violenza: dopo gl'intrighi dove­vano venire i massacri. Il vicario laico, che allora si propone non era d'altronde secondo l'opinione dello stesso governo sardo, che una soluzione provvisoria. Il Conte Cavour non disse egli che le grandi soluzioni non si fanno mi colla penna?...

La Nota verbale dice in seguito: "che prima della rivoluzione francese le Legazioni non erano che sotto l'alta sovranità del Papa, e che godevano di privilegi e di fran­chigie tali che quasi si potevano dire indipendenti. Ciò non ostante la dominazione clericale v'era così mal soffer­ta che le armate francesi vi furono ricevute con entusia­smo nel 1796". Quasi sono tante le menzogne quante le parole. E primieramente, prima della rivoluzione francese le Legazioni non erano punto indipendenti dall'autorità pontificia; il Papa le faceva amministrare da un legato, come già una volta furono amministrate le provincie di Francia da un governatore, o luogotenente del Re, come oggi è amministrato il regno delle Due Sicilie da un luo­gotenente o prefetto del re di Sardegna. Esse godevano in vero di qualche privilegio, ma questo non diminuiva per nulla l'autorità ed i diritti della Santa Sede, e non dava loro alcuna indipendenza politica, presa nello stretto senso della parola. Le invasioni hanno distrutte queste franchigie, ormai già rese incompatibili col sistema di cen­tralizzazione che regna in Europa.

Egli è anche poco esatto il dire che la dominazione cle­ricale v'era così antipatica che le armate francesi vi furono rice­vute con entusiasmo. Fu un pugno di giacobini che, tradi­tori della loro patria, rivoltandosi contro il governo pon­tificio, ne facilitarono l'invasione e la conquista. È stato cosi che il Piemonte se ne è anche impadronito un giorno. Nel linguaggio sardo questo può dirsi patriottismo, ma in bocca degli uomini onesti questo suona fellonia e tradimento.

Che se il trattato di Tolentino spogliava nel 1797 il Santo Padre d'una gran parte de' suoi Stati, questa non buona ragione perché il re di Sardegna venga alla sua volta a far parte di spogliatore della Santa Sede. La ricordanza inoltre di Tolentino non è poi di quella buona fede e lealtà di cui possa e debba vantarsi un re. Pio VI vi fu indegnamente ingannato; il Conte di Cavour lo sa, e tutte le storie ce lo dicono. E quand'anche, benché non sia vero, "il Governo di Napoleone sia il solo che abbia sopravvissuto nella memoria non solo delle classi illumi­nate, ma del popolo" quand'anche questo fosse vero, e fosse anche vero che "nelle provincie tutte le tradizioni e le simpatie si uniscono a quest'epoca" sarebbe questo un motivo per ristabilirvi il governo francese con una nuova iniquità non minore della prima? Sulla terra vi sono abba­stanza paesi selvaggi da conquistare, senza che Francia e Sardegna vengano a farsi odiose spogliatrici della Santa Sede. D'altronde un'ingiusta conquista raramente porta fortuna: il primo Impero può servire di buona lezione ai conquistatori. Ed è anche falso il dire "che al Congresso di Vienna si esitò molto prima di rimettere le Legazioni sotto il Governo del Papa" e che il Cardinal Consalvi non otten­ne dopo la battaglia di Waterloo questa insperata conces­sione se non in causa dell'imbarazzo in cui si era per la scelta del Sovrano a cui dovevansi dare, e per le rivalità che ne sarebbero venute, e che i diplomatici che siedevano a quel Congresso per ristabilir ovunque l'antico ordine di cose, capivano benissimo che restituendo queste pro­vincie alla Santa Sede, avrebbero lasciato un focolare di disordini nel mezzo d'Italia".

Ma primieramente le Legazioni non sono state resti­tuite alla Santa Sede dal Congresso di Vienna che nel 1815, non dopo la battaglia di Waterloo, ma dieci giorni1 perchè  Italia non è stata costituita nella sua prima base che in quest’epoca. E in quest’epoca ancora che dietro domanda del principe di Talleyrand2, Ferdinando IV venne riconosciuto dai rappresentanti delle potenze riuniti a Vienna3 come sovrano legittimo nel nome Due Sicilie, nel quale allora Murat giuocava una partita così dubbia. L'Austria, nell'interesse della pace d'Italia, e fino allo ristabilimento dell'ordine, aveva credu­to bene d'occupare militarmente le Legazioni, che furono in seguito, unitamente alle Marche, restituite al loro legit­timo Sovrano, con Camerino e sue adiacenze, il ducato di Benevento ed il principato di Ponte Corvo, con un atto del Congresso di Vienna, in data del 9 giugno 1815, arti­colo 103. L'evacuazione militare fu conclusa tre giorni dopo, con un trattato del 12 giugno ratificato da Pio VII il 22 dello stesso mese. Certo non era nel momento in cui l'Europa sorgeva da un lungo sconvolgimento di rivolu­zioni, di guerre e di conquiste, che l'Austria avrebbe volu­to offendere ella stessa diritti già da troppo lungo tempo violati.

Che se vi fu qualche disparere al Congresso di Vienna, non fu certo per fissare in favore di qual sovrano doveva spogliarsi il Papa: l'Europa allora intendeva ristabilire i diritti ch'erano stati violati. Si cercava ogni mezzo per consolidare la pace, e per togliere possibilmente allo spiri­to rivoluzionario la possibilità, se non il pretesto della rivolta. Disgraziatamente parve che allora l'Europa non comprendesse quello che era da farsi, perché non bastava di ristabilire, o far ristabilire i sovrani detronizzati dalla rivoluzione o dalle guerre. Sarebbe stato necessario o di marciare francamente ovunque collo spirito dei tempi moderni, cosa che sarebbe stata rischiosa senza una mano ferma e potente, o comprimere ovunque questo spirito di rivolta, e non lasciarlo più sopravvivere; sarebbe stato anche necessario occupare attivamente le intelligenze con grandi idee, distornandole così dalle seducenti teorie rivoluzionarie che agitavano potentemente ancora tutte le teste in Italia, in Francia, nella Spagna e nella Germania medesima; sarebbe stato necessario, e principalmente, di non umiliare la Francia in faccia agli altri popoli, onde essa non si credesse poi in dovere, tardi o tosto, di vendi­carsi con una rivolta contro i re, o con una guerra all'Europa. L'Europa doveva ben conoscere che da quasi due secoli la bilancia dell'equilibrio europeo pende sem­pre dalla parte ove si trova la spada francese. Ecco quello che i sovrani pareva non comprendessero nel 1815; ecco perché essi s'incamminavano nuovamente verso una seconda catastrofe: Dio voglia che non arrivino ai medesi­mi errori! Ma sia quel che si voglia, il Conte Cavour fece molto male a sparlare del Congresso di Vienna che gli rese una patria più grande e più possente di prima.

"Il Governo pontifìcio, quando fu ristabilito, dicono 1 diplomatici sardi nella loro Nota verbale, non tenne nessun conto delle idee progressive e dei grandi cambiamenti che il regime francese aveva introdotti in questa parte dei suoi Stati. Per questo era inevitabile un urto fra il Governo ed i popo­li... Tre volte l'Austria intervenne colle sue truppe per rista­bilire l'autorità del Papa costantemente disconosciuta dai suoi sudditi". Ma il Governo sardo non si ricorda egli anco­ra all'epoca che fu ristabilito dei profondi cambiamenti che il governo francese aveva introdotti ne' suoi Stati?... Quanto va il Conte Rossi il 10 aprile 1831 al signor Guizot non più di quanto ci dicono i fatti. Questi fatti ci mostrano che il 1821 una misteriosa rivolta militare essendo scoppiata in Piemonte, l'Austria, pregata, intervenne negli Stadi sardi la sedò. Quanto alle parole del Conte Rossi, sono amare e nasi profetiche. "Il sistema che è prevalso in questo paese, dice egli, è un sistema gesuitico, anti-italiano, anti-francese che voglia dirsi... In questa maniera gli Stati sardi saranno soggetti alla rivoluzione futura. Quando? Come? con qual successo? Iddio lo sa4". Non calunniate dunque la Santa Sede poiché voi alla medesima epoca non avete voluto, o non avete potuto fare meglio di lei; anche voi avete avuto bisogno delle armi austriache per mantenere l'ordine sì spesso turbato ne' vostri Stati.

Se si trova che l'intervento dell'Austria nella Penisola rivoluzionaria "è uno scandalo per l'Europa, un immenso ostacolo alla pacificazione d'Italia", come si da che il Piemonte nel 1859 abbia chiamato uno straniero in suo soccorso nella guerra d'indipendenza contro l'Austria?... Come si da che le bande garibaldine siano generalmente composte della feccia di tutti i paesi d'Europa?... Una patria di 25 milioni d'uomini non ha coraggio e braccia sufficienti per poter da sé sola conquistare la sua indipen­denza?... No, diciamolo francamente: lo scandalo non è nell'intervento generoso che reprime le rivolte, è nell'in­tervento interessato che opprime i popoli. Questo è il vero scandalo, quello che presto o tardi sarà punito. Non è più l’intervento Austriaco o Francese quello che serve d'ostaco­lo alla pacificazione d'Italia. Il solo ostacolo è lo spirito di rivolta che le sette propagano da mezzo secolo e che non in ultimo è stato appoggiato dall'ambizione piemontese sono le menzogne e gli oltraggi che si sono scagliati con tro tutti i sovrani d'Italia, da uomini di Stato, da scrittori oratori, diplomatici, noi potremmo dire anche da prinri' pi, e che la stupida moltitudine ha ripetuto facendosi ignorante eco dell'astio e dell'intrigo. E questo è così vero che in oggi il Piemontesismo si contenta di dire che l'uni­co ostacolo alla pacificazione d'Italia è Roma. E se domani Vittorio Emmanuele salirà il Campidoglio, si dirà che è Venezia, e dopo domani il Tirolo e Trieste, e poi, e poi, il re di Sardegna medesimo sarà d'ostacolo e si andrà a get­tare il suo trono nelle immondezze della capitale. E se Garibaldi sarà d'ostacolo, verrà pugnalato come traditore da un sicario di Mazzini: e Mazzini medesimo finirà coll'essere un ostacolo come lo fu già Robespierre alla libertà! Lo spirito della rivoluzione è come un'onda del mare che sale e che nessuno può dire ove si fermerà. Un famoso repubblicano, Vergniaud, disse nel 1793: La Rivoluzione fa come Saturno, divora i propri figli. Ed è gran fortuna ch'essa medesima purghi la società, dacché questo ufficio da carnefice non conviene ad un sovrano.

La Nota verbale parla inoltre "dello stato deplorabile del paese, e della necessità ed urgenza di riforme amministrati­ve". A sentire il Conte Cavour, "l'organizzazione clericale oppone degli ostacoli insormontabili ad ogni specie d'inno­vazioni, i consigli delle Potenze, e la buona volontà del Papa vengono da lei annullati" e quello che sarebbe anche più chiaro dalla storia dei primi anni del pontificato di Pio IX, e la riforma completa del governo pontificio che risponda ai bisogni dei tempi ed ai voti ragionevoli delle popolazioni. In un simile stato di cose il Conte Cavour trova soli due modi di soluzione: un vicariato nelle Legazioni, o la rivolta. Il vicariato sarebbe un avviamento pacifico verso Roma, la rivolta aveva i pericoli, ma si farebbe mostra di trattenerla, mentre invece s'organizzerebbe nella Penisola intera dalle sette dei carbonari e dei mazziniani.

Questa prima Nota, benissimo combinata, non avendo prodotto alcun effetto, se non di parole, i plenipotenziari del re di Sardegna ne compilarono una seconda che fu diretta al Conte Walewski ed a lord Clarendon il 16 aprile seguente. In questa seconda Nota verbale, che è una con­tinua minaccia all'Austria, ed un'ingiuria alla Santa Sede, i ministri sardi dimandano ai Governi di Francia e d'Inghilterra, "se dopo aver date tante prove di un inte­resse così vivo per la sorte dei cristiani d'Oriente di razze slave e greche, essi poi non vorranno occuparsi d'un popolo di razza latina assai più infelice, perché in ragione del grado di civilizzazione in cui è, sente profondamente le conseguenze d'un cattivo governo". Poi prosegue: "Questa assemblea (il Congresso di Parigi) sulla quale sono rivolti tutti gli occhi d'Europa, va a sciogliersi, non solo senza aver menomamente mitigate le sorti d'Italia, ma senza aver nemmeno fatto brillare un raggio di spe­ranza oltr'Alpi, che avrebbe servito a far sopportare con rassegnazione il presente. Ciò che, proseguono essi, può avere delle tristi conseguenze per l'Europa, per l'Italia, e particolarmente per la Sardegna". Questo ingresso in scena sarebbe patetico se non fosse menzognero, odioso e ridicolo. Presto si vedrà quanto la Penisola abbia guada­gnato dopo che è costretta a subire leggi e costituzioni dal Piemonte.

Mai, gridano in seguito i diplomatici piemontesi con un falso dolore, mai non furono così pieni i bagni e le pri­gioni di condannati per cause politiche; mai non è stato più rilevante il numero dei proscritti, mai la polizia non fu più attiva, né più rigorosamente applicato lo stato d'asse­dio. Questi mezzi di governare devono tenere natural­mente i popoli in un continuo stato di fermento". I gior­nali italiani scrivevano nel 1860 che in tre giorni è stata posta in arresto una metà della popolazione di Napoli5, e Napoli conta 500.000 abitanti. Ora gli acclamatori del piemontesismo ci faranno vedere se in oggi egli è più dolce con questi Italiani ch'egli ha traditi, conquisi, annessi, piemontizzati.

Dopo l'insulto la menzogna; ecco qui la Nota scagliata contro l'Austria e gli altri Governi italiani... "Però in que­sti ultimi tempi l'agitazione parve essersi calmata. Gli Italiani vedendo uno de' loro principi nazionali collegarsi colle grandi Potenze occidentali per far trionfare il princi­pio del diritto, e migliorare la posizione de' cristiani d'Oriente, sperarono che non si sarebbe conchiusa la pace senza portare un alleviamento a' loro mali. Questa speranza li rese calmi e rassegnati. Ma quando conosceranno il risultato negativo del Gongresso di Parigi; quando sapranno che l'Austria, malgrado l'interposizione della Francia e dell'Inghilterra, si è rifiutata ad ogni discussio­ne, ed a prendere in esame i mezzi di porre un rimedio a questo stato di cose, non v'ha alcun dubbio che l'irritazio­ne assopita si svilupperà più che mai violenta. Convinti di non aver più nulla a sperare dalle Potenze, si getteranno dalla parte dei rivoluzionarii e dei sovvertitori, e l'Italia ritornerà un focolare di disordini e di cospirazioni, che si reprimeranno raddoppiando sempre i rigori, ma la più piccola agitazione d'Europa li farà scoppiare in un modo il più violento. Uno stato così dispiacente deve certo occu­pare altamente il Re di Sardegna. Questo svegliarsi delle passioni rivoluzionarie in tutti i paesi che circondano il suo regno, è un pericolo di molta gravita e che può com­promettere quella sua ferma e leale politica ch'ebbe fino ad ora sì buoni risultati nell'interno ed all'estero, e gli valse le simpatie di tutta l'Europa civilizzata".

Oggi si sa cosa si debba pensare di questa politica ferma e moderata, e dei felici risultati che si sono ottenuti nella Penisola. La diplomazia di uno Stato che si dice cattolico e civilizzato, non ha mai messo più falsità ed ipocrisia nelle sue astuzie. E mentre riempite l'Italia di rivoluzioni e di disordini vi lamentate dei pericoli in cui vi mettono i disordini medesimi! Voi formate le rivolte, e poi accusate l'Austria ed il Papa d'essere gli autori de' vostri stessi delitti, e li minacciate, se, cedendo alle vostre mire ambi­ziose, non rimediano prontamente ad un così tristo stato di cose. Veramente l'Europa è stata troppo buona a non infliggervi a quest'ora una severa punizione. Voi avete tutte le ragioni di dire che i Maomettani sono vostri correligionarii: Maometto però non era né civilizzato né cristiano, e non s'è mai vantato d'aver fatto trionfare i principii del diritto e della giustizia; egli rovesciava quanto s'opponeva alla sua ambizione.

"L'Austria, proseguite voi, chiamata dai sovrani dei pic­coli Stati italiani, impotenti a contenere i loro sudditi mal­contenti, occupava militarmente la maggior parte della Penisola centrale... e questa occupazione permanente ren­deva quella Potenza padrona quasi assoluta della Penisola, distruggeva l'equilibrio europeo fissato coi trattati di Vienna ed era una continua minaccia pel Piemonte". Ma che cosa sareste oggi voi senza l'Austria? Una provincia francese od un focolare di Carbonari repubblicani, e Vittorio Emmanuele un re in partibus di Sardegna, Cipro e Gerusalemme! Quanto all'equilibrio stabilito nella peniso­la dal trattato di Vienna, che ne avete fatto voi medesimi? Non avete voi imprudentemente messo tutto in questione, giustizia, diritti, e persino la pace e la salute d'Europa? La vostra medesima corona oggi è in pericolo, e se non cadrà nelle battaglie, sarà sempre lordata dal sangue che fu sparso dalla vostra ambizione, ed avrete bisogno di ben molte virtù per compensare tutte le iniquità di questo regno.

Per quanto poi riguarda al preteso timore espresso nella Nota verbale: "Se la Sardegna soccombe, abbando­nata dai suoi alleati ed oppressa dalla dominazione austriaca... l'Austria guadagnerà un'influenza preponde­rante in Occidente". Il Piemonte si può rassicurare finché vi sarà una Francia, ed in questa Francia una spada; l'Italia non resterà mai lungo tempo né piemontese, né austriaca, né inglese. Qualche volta i popoli dormono, ma il loro svegliarsi è terribile, come quello del leone ferito durante il sonno da un inesperto cacciatore.

Poco importa alla Francia che l'Adriatico sia un lago austriaco: essa non ha la ridicola pretesa di dominare ovunque: la terra ed il mare sono grandi: ad ognuno la sua missione. Ma quello che importa alla Francia, e soprattutto alla Francia cristiana, è che l'Italia sia una con­federazione di Sovrani cattolici collegati col Pontefice-Re, e non una monarchia con governo rivoluzionario, e con un principe vestito in casacca rossa e col berretto mazzi­niano. Quello che importa alla Francia si è di non avere a' suoi confini un nuovo regno inglese che le disputi il pas­saggio dell'Oriente e del Mezzogiorno. Gibilterra, Malta e Corfù non bastano per l'Inghilterra?... D'altronde l'Italia monarchica o repubblicana oggi non può assolutamente restare: questo sarebbe un disordine in Europa, e per )oco tempo il trionfo della barbarie. I diplomatici lo fsanno. Quello che interessa alla Francia, e pe' guai che si preparano in Oriente e pei non minori che si vanno pian piano a formare in Occidente, si è che l'Italia non sia un focolare d'agitazioni rivoluzionarie, né un Vulcano di guerre civili, ma che abbia un governo regolare fondato sul diritto e sulla giustizia, non sull'ambizione e sull'intri­go. Quello poi che più importa alla Francia, e che un gior­no saprà sostenere colla sua spada, si è che il Vescovo di Roma ne sia anche Re tanto pel dominio che ne tiene da Dio come dal suo diritto, e pontefice libero ed indipen­dente per l'indipendenza medesima delle sue decisioni. Ecco quello che vuole la Francia, e che devono parimenti volere tutti i Sovrani d'Europa, se la loro politica non è cieca, o guasta dalla rivoluzione. E se il Piemonte ha biso­gno d'una capitale e d'un regno così vasto come la sua ambizione, la vada a cercare fra i selvaggi; disgraziata­mente vi sono ancora sulla terra molti popoli che giaccio­no nell'abbrutimento e nella schiavitù; là vada a cercare un vasto regno ed un'ampia, capitale.



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CAPITOLO QUINTO
I partigiani della demagogia sovversiva


In questo frattempo il protocollo del trattato di Parigi1 dava come una prima soddisfazione all'ambizione pie­montese, biasimando i Governi della Penisola che resiste­vano alla rivoluzionaria politica sarda. È qui che bisogna cominciare a conoscere le risorse misteriose della politica, per capire come si sono potuti biasimare i piccoli stati d'Italia che certo sarebbero stati più rispettati se avessero potuto mettere 300.000 uomini nei rischi della battaglia. Ma si sa già che quelli che più hanno bisogno di consigli sono i primi "a darli ed a criticare gli altri.

Se il Conte Walewski trovava nel 1856 che "lo Stato pontificio era in una posizione anormale in causa d'avere le truppe francesi a Roma e le austriache nelle Legazioni" come poi può trovare regolare che i piemontesi occupino le Marche e l'Umbria e massacrino la piccola armata papale? Forse che la Francia come prima potenza europea e cattolica non ha il diritto di conservare nel 1860 il pote­re temporale del Papa come fece nel 1849?...

E se v'ha qualche cosa d'anormale nella situazione d'un sovrano che per mantenersi ha bisogno di truppe straniere, è questa una buona ragione per abbandonare una gran parte degli Stati pontificii in mano al Piemonte, mentre l'imperatore Napoleone dichiarava solennemente in molte circostanze, ed il Conte Walewski confermava nel suo protocollo che l'Imperatore non cesserebbe mai di prendere il più vivo interesse all'autorità del Governo pontificio?... La situazione degli Stati romani è essa meno anormale, e la questione italiana minaccia meno la tranquillità d'Europa?... Se qualche cosa v'ha d'anormale, è certo una politica in cui fatti e promesse sono sempre in contraddi­zione. Senza dubbio "è a desiderarsi che lo Stato pontifì­cio si consolidi in maniera da permettere alle truppe fran­cesi d'evacuare senza che si abbiano a temere inconve­nienti per lo Stato medesimo". Ma non basta esprimere un desiderio più o meno sincero, bisogna sopra tutto par­lare al Piemonte il vero linguaggio della Francia, quel lin­guaggio che vale sempre una vittoria, ed una vittoria migliore di molte battaglie.

Dopo una serie di frasi sulla situazione anormale degli Stati pontificii e sulla necessità di prestare aiuto al Santo Padre, il Conte Walewski crede dover rendere un segnalato servigio a certi Governi della Penisola ed a quello delle due Sicilie in particolare, invitandoli ad abbandonare la falsa via nella quale si sono incamminati.

Ascoltando questo diplomatico, gli sforzi di questi Governi per mantenere l'ordine nei loro stati era direttamente contro lo scopo prefisso, non faceva che indebolire il governo ed accrescere i partigiani della demagogia. Ma cosa bisognava far dunque? Per contentare le esigenze di certuni bisognava forse dare a popolazioni essenzialmente monarchiche una di quelle costi­tuzioni che sembrano la malattia del nostro secolo?... "È faci­le", diceva Massimo d'Azeglio, italiano le parole del quale non ponno essere sospette ai rivoluzionarii; "è facile procla­mare monarchia, repubblica, costituzione, ma non è concesso ad alcuno il rendere le popolazioni monarchiche, repubblicane, costituzionali, se esse non lo sono pe' loro costumi e per le loro opinioni. Tutte le ferocie del Terrore non riuscirono a fare dei Francesi tanti repubblicani, perché essi non lo saranno mai. Le copie di costituzioni portate in Italia nel 1821 non hanno resa l'Italia costituzionale, questa non lo fu e non sarà mai costituzionale". Esporremo in due parole quanto produssero in Europa dal 1789 in poi questi grandi cambiamenti nei governi delle nazioni.

Luigi XVI fu il primo che ne fece egli stesso l'esperien­za e che la fece fare al suo popolo diventato filosofo. Invece di proseguire prudentemente le grandi riforme che aveva intraprese nel principio del suo regno, e che sono tutte nominate nella celebre dichiarazione del 23 giugno 1789, questo monarca, rinunciando alle antiche tradizioni nazionali per secondare il trasporto irriflessivo degli spiriti, dopo aver imprudentemente tollerato che gli Stati generali si formassero di loro propria volontà in assemblea nazionale, e legalmente violassero la monarchia francese sotto pretesto di costituirla, Luigi XVI sanzionò tutte le leggi di demolizione fatte da questa assemblea, e stabilì in Francia un nuovo sistema di governo che tra­sportava di fatto e di diritto il potere reale nelle masse. Queste erano le teorie di Gian-Iacopo fatalmente messe in pratica. Si sa quello che ne venne: rivolte, massacri, proscrizioni come ai tempi di Mario e di Siila: la repubbli­ca e poi la barbarie con tutte le miserie che vengono die­tro.

Luigi XVIII, ch'era un re capace di governare da sé solo, credette far buona cosa dividendo ai suoi popoli i poteri ed i diritti della corona con uno statuto. Ma lo spi­rito rivoluzionario pronto ad abusare di tutte le libertà, si mise ad agitare nuovamente la Francia, a cospirare ed a fare rivoluzioni. Carlo X fu rovesciato dal trono in virtù dello statuto medesimo da un'assemblea di 221 faziosi, e questo statuto medesimo divenne poi una verità sotto Luigi Filippo, e non impedì le rivolte sanguinose, le cospi­razioni repubblicane, i regicidii e la caduta del re cittadi­no. Lo spirito rivoluzionario non cerca costituzioni o sta­tuti, egli vuole un pretesto per far rumore, per agitare le masse. Quale sarà la storia che dopo il 1789 oserà darci una mentita?...

La Repubblica del 1848 per mostrare che sapeva fare qualche cosa scriveva anche una bella costituzione alla Gian-Iacopo; ma come tutti, anche lo straccialo era allora un poco sovrano in Francia: lo spirito rivoluzionario s'im­padroniva di tutti i malcontenti degli ambiziosi, di tutti quelli che non hanno una posizione sociale, e di tutti quelli che vivono nelle bettole e nei conciliaboli della distruzione, e dopo aver riempita la Francia intiera di disordini diede quella formidabile battaglia che spaventò l'Europa, e lo scopo della quale sarà per lungo tempo ancora un mistero nella storia! Questa povera costituzione di giornalisti e di avvocati se ne andò poi vergognosamen­te a morire colla repubblica nell'angolo d'una strada fra un cannone ed un mercatante di vino.

Se noi passiamo ora rapidamente in rivista le altre nazioni alle quali i sovrani hanno avuta la debolezza o la disgrazia d'accordare intempestivamente costituzioni alla Gian-Iacopo, allorché avrebbero dovuto contentarsi di riformare gli abusi del loro governo, vedremo che queste funeste concessioni imprudentemente fatte allo spirito rivoluzionario del tempo non hanno servito, quasi da per tutto che ad affrettare la caduta dei troni. Diffatti in Austria la costituzione del 1848 fu come il segnale della rivoluzione di Vienna. Ferdinando I, Ferdinando II, e Francesco II, nel 1821, nel 1848 e nel 1860, nel regno delle Due Sicilie, si videro ugualmente minacciati da for­midabili rivolte ed obbligati a fuggire davanti alla costitu­zione che avevano concessa. Una cosa importante da notarsi è che la costituzione data da Francesco II, il 15 giugno 1860, precedette di due giorni soltanto il massacro degli agenti della polizia in tutto il regno. Certamente veri briganti pagati dalle sette, quoque ipse miserrima vidi, adempirono a Napoli l'ufficio di carnefici in una sola mat­tina. Era un sanguinoso preludio agli orribili scoppii dei Cialdini, dei Pinelli, dei Fantoni e dei Fumel. Leopoldo II, Granduca di Toscana, non fu più fortunato nel 1848. La sua costituzione è del 15 febbraio: la rivoluzione mise un anno a rovesciarlo dal suo trono. Federico Guglielmo re di Prussia accordò anch'egli una costituzione a' suoi popoli, e poco tempo dopo abbandonò la sua capitale in causa d'un ammutinamento, dopo essere stato costretto dai faziosi a discendere nella strada per salutare i cadaveri dei ribelli. Pio IX in fine diede una costituzione a' suoi stati, come per provare che non voleva rimanere indietro dal suo secolo, e per soddisfare anche a certe esigenze: e nel giorno stesso che s'aprivano a Roma le sedute delle Camere dei rappresentanti, sulla soglia della Camera stes­sa, il Conte Rossi suo primo ministro fu assassinato: ed egli stesso fu costretto a cercare un asilo sulla rocca di Gaeta.

Cosa bisogna conchiudere da tutto questo?... Che la rivo­luzione ha un'abilità fatale per agitare i popoli a rovesciar l'Europa. La libertà era in principio la sua parola d'ordine, o meglio il suo grido di disordine: una costituzione, nella quale il suddito diventi sovrano quasi tanto come il sovrano stesso, è oggi il suo mezzo legale di rivolta, e, se si potesse dire, la sua formula politica di disorganizzazione. E siccome questi due termini, libertà e costituzione, non sono nel suo pensiero che la manifestazione dell'astio che nutre contro la religione, la giustizia ed il diritto, tre cose che distinguono l'u­manità cristiana e civilizzata dalla barbara, così è giunta a rendere a tutti sospetta la sua libertà e la sua costituzione. E per la verità molti intriganti rivoluzionarii hanno già troppe volte ridotte a loro profitto queste parole, perché si possa ritenere che le medesime riescano ancora a sedurre uomini serii ed onesti.

In seguito è detto in questo famoso Protocollo che il plenipotenziario della Gran Brettagna, lord Clarendon, avrebbe creduto "mancare al suo dovere se avesse appro­vato col suo silenzio delle situazioni che nuocciono all'e­quilibrio europeo, e che sono molto lungi dall'assicurare la pace in un paese dei più interessanti d'Europa". Questo rimprovero era diretto naturalmente al Papa ed al Re delle Due Sicilie, ma non agli intrighi del Piemonte né al suo spirito rivoluzionario, che mentre era la causa di tanti mali in Italia, era anche il solo motivo che per le incessan­ti rivolte, armate straniere discendessero così spesso nella Penisola. Lungi dal passar sotto silenzio le cause che ave­vano prodotto lo stato anormale, irregolare, di cui parla il nobile lord, ci sembra sarebbe stata saggia ed utile cosa l'informarsene, ed esporle imparzialmente al Congresso. Scoperte le vere cause, sarebbe stato più facile il porvi un rimedio. E d'altra parte quando la rivoluzione minaccia un trono è forse cosa prudente il coprirlo di biasimo?... Noi abbiamo già detto che questo è uno scusare le più audaci involte. E il Governo inglese è egli così puro e così perfetto da poter francamente tacciare di detestabile ogni altro governo?... Se l'amministrazione degli Stati Pontificii, fra le altre cose, è poco onorevole pel Governo del Papa, e rincrescevole ai popoli, l'amministrazione delle Indie inglesi, delle Isole Jonie e della Gran Brettagna è meno rincrescevole forse ai popoli?...

Il plenipotenziario della Gran Brettagna raccomanda fra le altre cose la secolarizzazione del Governo Pontificio e l'organizzazione del sistema amministrativo in armonia collo spi­rito del secolo. Ma forse il nobile lord ignora le ammirabili riforme amministrative intraprese con ardore e realizzate da Pio IX? Quanto alla secolarizzazione, noi lo preghiamo di leggere il rapporto ufficiale del signor Conte di Rayneval, inviato francese a Roma, e si convincerà che il numero degli ecclesiastici esercenti funzioni pubbliche negli Stati Romani è infinitamente piccolo. "Nel 1856, dice questo rapporto, nelle diciotto provincie pontifìcie il numero degli ecclesiastici impiegati dal Governo non ecce­deva il numero di quindici!!! Uno per provincia, e tre provin­cie non ne avevano alcuno. Erano delegati, o, come noi diciamo, prefetti. I tribunali, i consigli, ed in una parola gl'impieghi d'ogni sorta, erano coperti da laici, che ascen­devano fino al numero di 2933, cioè 2313 per le funzioni civili e 620 per le giudiziarie... Nella somma totale gli ecclesiastici impiegati nell'interno dello Stato arrivavano a 98, i laici a 5059. Diffalcando i funzionarii dei tribunali superiori della capitale, in mezzo ai quali qualcuno, come il tribunale del vescovo, non ha che una giurisdizione esclusivamente ecclesiastica, noi troviamo che in tutti quanti i rami dell'amministrazione dello Stato pontificio, il numero degli ecclesiastici impiegati non oltrepassa il numero di trentasei". È veramente dispiacente il vedere dei diplomatici di grandi nazioni biasimare un Governo di cui mostrano conoscere l'amministrazione, e basare le loro asserzioni su dati e fatti che sanno di certo essere falsi.

Per quanto riguarda al Governo napoletano, il plenipo­tenziario della Gran Brettagna crede nel suo Protocollo che sia per lui un diritto ed un dovere di alzar la voce nel seno del Congresso contro un sistema che alimenta in seno alle masse in luogo di ammorzare l'effervescenza popolare. Ecco almeno un'accusa ben fondata: il Conte Cavour non avrebbe detto meglio; poi aggiunge: Noi dobbiamo far conoscere al re di Napoli questo voto del Congresso pel miglioramento del suo sistema di governo, voto che certo non rimarrà senza un risultato, e domandargli un'amnistia per le persone che in causa di delitti politici furono condannate o desti­tuite senza un processo. Raccomandiamo la lettura di questa frase all'ex re del Piemonte, ora, per la grazia dei tradi­menti, re d'Italia; questa frase sembra essergli particolar­mente diretta; noi siamo sempre pronti a dimostrarlo con fatti e con cifre innegabili, non con vane accuse.

Ci permetteremo di dire al nobile plenipotenziario della Gran Brettagna che se la storia volesse registrare il nome di tutte le vittime officialmente immolate dal fanatismo prote­stante in Inghilterra ed in Irlanda, sarebbero necessarii gros­si volumi per contenere questa sanguinosa nomenclatura. E se si potesse fare un paragone col regno di Vittorio Emmanuele re d'Italia, si stupirebbe della quantità innume­revole di esiliati e detenuti, non solo per delitti politici, ma ben anche per solo sospetto di Borbonismo e di Papismo. E che sarebbe poi se si avesse da aggiungere a questa lista di sangue l'elenco di tutti i pugnalati e fucilati delle Due Sicilie sotto lo stesso felicissimo governo del re galantuomo. Noi invi­tiamo lord Clarendon a leggere i giornali italianissimi di Napoli dal 7 settembre 1860, fino al giorno in cui cadrà dal capo a Vittorio Emmanuele la corona sulla cima del Campi­doglio: ei vi troverà particolari precisi ed interessanti per un futuro Congresso di sovrani. Quanto al detestabile sistema di governo che scuoteva tanto sensibilmente la suscettibilità ner­vosa di lord Clarendon, noi risponderemo che la legislazione napoletana è una delle più umane d'Europa, e che duran­te il suo regno Ferdinando II non ha mai segnata una sen­tenza di morte per causa politica. I luogotenenti del Piemonte, in contrario, hanno nelle Due Sicilie fatte fucila­re in due anni tante persone, che, quando si ristabilirà il governo regolare, sarà quasi impossibile di farne una esatta statistica.

Gli altri plenipotenziarii delle Potenze al Congresso di Parigi furono più miti riguardo ai piccoli sovrani della Penisola; in generale si contentarono d'esprimere il loro desiderio per lo stabilimento della pace, dichiarando che non avevano né potere né missione d'immischiarsi negli affari interni dei Governi rappresentati, o non rappresen­tati al Congresso. Il barone Hubner, con una franchezza tutta tedesca, aggiunse che egli non era né anche autoriz­zato ad esprimere voti. Ed il barone Manteuffel, dopo aver dichiarato che non aveva dal suo Governo alcuna istruzio­ne per trattare le gravi quistioni che preoccupavano qual­che membro del Congresso, diceva, che era in caso di domandare se avvisi della natura di quelli che erano stati propo­sti non fossero più in grado di suscitare nei paesi uno spirito d'opposizione e di movimento rivoluzionario, di quello che rispondere alle idee che si sarebbero volute realizzare con una intenzione certamente buona. Questo era il linguaggio della saggezza; poi soggiungeva con nobile energia: // gabinetto prussiano riconosce perfettamente la funesta influenza che eserci­ta la pressione sovversiva d'ogni ordine regolare, e i pericoli che sparge predicando il regicidio e la rivolta. La Prussia partecipe­rebbe volentieri all'esame delle misure che fossero giudicate conve­nienti per mettere un termine a questi intrighi. Dietro l'esem­pio del rappresentante della Prussia, sir Gladstone diceva più tardi al Parlamento inglese, parlando degli affari d'Italia: "La politica stabilita col protocollo del trattato di Parigi non è essa di tal natura da non rischiarare l'oriz­zonte politico, ma invece di offuscarlo?... E in una nota del 18 maggio 1856 il signor di Buoi si esprimeva così: "I distruttori non cesseranno d'adoperare le loro armi con­tro i governi legittimi d'Italia, finché vi saranno dei paesi che li appoggino e li proteggano, e degli uomini di stato che non temano di far appello alle passioni ed agli sforzi che hanno per iscopo lo sconvolgimento".

Il Conte Cavour poco soddisfatto di queste osservazioni tanto saggie quanto giuste, fece allora notare con mala fede evidente, che l'occupazione delle Legazioni e del Ducato di Parma per parte delle truppe austriache distruggeva l'equili­brio politico in Italia e costituiva un vero pericolo per la Sardegna. Ma il signor Barone Hiibner, indovinando le intenzioni del plenipotenziario sardo, gli domandò con giusta ragione perché serbasse il silenzio sull'occupazione di Roma per parte delle truppe francesi, giacché le due occupazioni avevano avuto luogo alla medesima epoca e pel medesimo scopo; e ricordò ancora con una evidente astuzia "che non vi erano solamente gli Stati romani in Italia che fossero occupati da truppe straniere, che le comuni di Mentone e di Roccabruna facienti parte del principato di Monaco erano da otto anni occupate dalle truppe sarde, e che la sola differenza che esisteva fra le due occupazioni era che gli austriaci ed i francesi erano stati chiamati dal sovrano del paese, mentre le truppe sarde erano penetrate sul territorio del principe di Monaco contro i suoi desiderii, e che vi si mantenevano, malgrado i reclami del sovrano del paese medesimo.

Queste discussioni in seno del Congresso non avrebbe­ro avuto alcun inconveniente se fossero state segrete, come è necessario nelle grandi questioni che interessano la pace degli stati, e che trattano dei loro affari interni; ma si sa come il Conte Cavour se ne servì perfidamente alla Camera di Torino (sedute del 7 e del 10 maggio) e in tutti i suoi giornali per agitare l'Italia. Così il signor Conte Walewski potè rallegrarsi, dice il Protocollo, d'aver impegna­to i plenipotenziarii a scambiare le loro idee su tali questioni, pensando che questo cambio d'idee non sarebbe senza utilità per i progetti della sua politica in Italia. E la Camera dei Deputati di Torino potè votare con soddisfazione la pro­posta seguente: "// senato, convinto delle buone conseguenze che potrà produrre il trattato dì Parigi, sia per la civilizzazione, sia per il ristabilimento delle vere basi dell'ordine e della tran­quillità della Penisola, e riconoscendo la parte onorevole che hanno avuta per questi desiderati risultati la politica del Governo del Re, e la condotta dei plenipotenziarii del Congresso di Parigi, esprime un voto d'intiera soddisfa­zione".

"Il Protocollo dell'otto aprile sarà la scintilla d'un irre­sistibile incendio", diceva nel suo esaltamento di gioia il Risorgimento, giornale del Conte Cavour. Questo era parlar chiaro. - "Per la prima volta, diceva L’Opinione di Torino, un Congresso diplomatico ha riconosciuto i torti dei Governi e giustificati i fremiti delle popolazioni". -"Camminiamo di nuovo davanti alla rivoluzione", escla­mava applaudendo il Cittadino d'Asti, giornale ministeriale. - "L'Italia non deve più attendere dalla politica e dai Governi europei i soccorsi per sollevarsi", aggiungeva il Tempo di Casale, altro giornale ministeriale. - "Se gli Italiani pensano di riconciliarsi, che lo facciano, altrimenti si rivoltino" gridava il Diritto di Torino, num. 98. - "Che si sollevino e sappiano non transigere col potere contro il quale si saranno rivoltati, non importa sotto qual forma si presenti" diceva l'Italia e il Popolo di Genova nel suo nume­ro 113. - "II Memorandum (le note verbali) del Conte Cavour, scriveva ancora il Cittadino d'Asti, ha dato un impulso gagliardo all'agitazione: a noi tocca metter in opera ogni mezzo per fare che questa agitazione si man­tenga viva finché giunga il giorno decisivo".

E quando il Conte Cavour il giorno 6 maggio nel Parlamento di Torino espose la sua condotta al Congresso di Parigi, pronunziò queste parole degne di nota, che sono una intera rivelazione, e che secondo l'espressione pittoresca d'un giornale italiano, furono come una semenza di denti di drago: "Noi abbiamo presentata una Nota sulla situazione degli Stati del Papa che l'Inghilterra ha ben accolta, e che la Francia ha accettata. Ma la Francia deve usare di molta circospezione, perché il Papa non è sola­mente sovrano temporale d'uno stato di 3 milioni d'uomi­ni, ma è ancora capo religioso di trentatre milioni di Francesi". E l'effetto di queste parole fu tale che il deputa­to Lorenzo Valerio concludeva il suo discorso così: "Le nostre parole, le parole dette dal signor presidente del Consiglio non resteranno certamente rinchiuse in questo recinto e neanche entro i confini segnati dal Ticino. Né le frontiere, né le baionette, né i commissarii di polizia che legano le altre provincie d'Italia separate da noi, potran­no impedire l'effetto di queste parole".

E così allorquando la notte dal 25 al 26 luglio 1856 una banda d'insorgenti partiva da Sarzana per sollevare il duca­to di Modena, la Maga di Genova difendeva il 29 luglio que­sto attentato colle parole medesime del Conte Cavour: "II signor Cavour non ha detto in Parlamento nel suo Memorandum e nelle sue Note verbali, che se lo stato delle cose proseguiva così, il governo si vedrebbe costretto a stender la mano alla rivoluzione per salvar l'Italia ?..." E il giornale mazziniano Italia e Popolo del 30 luglio 1856 prendendo la difesa dei con­giurati di Sarzana scriveva: "Si ricorda che all'epoca della memorabile discussione parlamentare (dal 6 al 10 maggio) il Governo sardo per riaccendere il fuoco sopito nelle altre provincie d'Italia fece stampare i discorsi di Cavour e di Buffa e li sparse a migliaia nei Ducati, nelle Romagne, nella Lombardia, a Napoli ed in Sicilia. Ma questo non bastava: si incoraggiavano gli abitanti di questi stati diversi col mezzo di emissarii, e si sa che le parole: Viva Vittorio Emmanuele! erano scritte dai partigiani piemontesi sulle pareti e sulle porte delle case a Carrara. Speranze ancora più lusinghiere ed esplicite furono date ai regnicoli venuti espressamente a Torino.

Il Risorgimento del Conte Cavour pubblicava nelle sue colonne: "La Rivoluzione non si farà in Italia finché le popolazioni non saranno ben sicure del concorso del Piemonte. È dunque molto importante di tenerli nella persuasione che dietro i popoli sollevati si trova l'armata pie­montese". E un poco più avanti dice: "Verrà il momento nel quale la rivoluzione si svilupperà in un qualche punto della Penisola, non importa sapere quale: questa sarà la prima scintilla d'un grande incendio. L'Austria vorrà intervenire, ed il Piemonte si presenterà alla sua volta anche col diritto d'intervenire per scemare la preponde­ranza austriaca, e non interverrà solo. Tale, secondo noi, è l'unica soluzione possibile della questione italiana".

Ecco come il Conte Cavour di ritorno dal Congresso pacificatore, calmava gli spiriti ed ammansava i popoli, migliorava la situazione anormale dello Stato pontificio, assicurava il Governo temporale della Santa Sede, senza che vi fosse bisogno di soccorso straniero, e rimediava i disordini dell'anarchia di cui accusava essere il Potere tem­porale la causa permanente. Ecco come egli preparava la sicurezza, la tranquillità necessaria ad un governo al quale dimandava riforme.

 

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CAPITOLO SESTO
Eliminare il Regno delle Due Sicilie


Frattanto il Conte Cavour non essendo riuscito ad otte­nere dal Congresso che una semplice espressione di senti­menti, e pel momento vedendo che non avrebbe avuto niente di più, la rivoluzione si mise con un nuovo ardore a cospirare e ad agitare l'Italia. Anche il Mazzinianismo s'agi­tava a Londra e Ginevra1. Tutte le sette, tutti i comitati si prepararono all'azione; gli affigliati Italiani s'armarono, i capi spiegarono il loro programma2: vedendo la febbrile agitazione che regnava presso certi adepti si sarebbe pensa­to che il mondo sarebbe andato in fiamme. Soli i Governi parevano colti dall'inerzia, sia per impotenza o per acceca­mento, e si vedevano addensarsi l'uragano sul loro capo, e restavano come immobili sotto una magica assicurazione di pace! Nel medesimo tempo tutti i scribacchini ed i libellisti assoldati dal Piemonte cominciarono ad inondare l'Europa con una miriade di scritti spiranti veleno e fiele. Le tribune politiche, le cattedre delle Università si fecero eco dell'o­dio; e si videro generali d'armata, ministri di Stato, princi­pi del sangue a insultare vilmente l'Austria, il Papa, e gli altri sovrani della Penisola, per preparare l'opinione pub­blica alla guerra, all'invasione, a tutti gli odiosi attentati che macchinavano i cospiratori. E i giornali della setta magnificavano e propagavano le menzogne e gli oltraggi. E tutta questa falange di insultatori non rifletteva che diso­norava così le parole e le lettere e per molto tempo la civi­lizzazione d'Europa. La stampa rivoluzionaria di Francia, Piemonte, Belgio ed Inghilterra s'è fatta una certa riputa­zione in questo genere di combattimenti: qualche scrittore ha fatto in tal modo la sua fortuna: qualch'altro v'ha guada­gnata una decorazione: tutti però v'hanno perduta la loro dignità d'uomini, e il Governo sardo v'ha dispensato i suoi milioni, il suo onore, e le sue decorazioni dei Santi Maurizio e Lazzaro, con cui un uomo onesto in oggi non vorrà neppure allacciare le sue scarpe.

In questo mentre il Piemonte e i suoi amici cercarono con intrighi diplomatici e demagogici di far scoppiare una guerra contro l'Austria, coll'idea di farvi entrare la Francia. Ma Napoleone esitò e si disse che la rivoluzione gli faceva paura. Fu allora che Mazzini, Cavour e Garibaldi, questo triumvirato di perfidia, unito se non di sentimenti almeno di scopo, uguale per conseguenza nei medesimi mezzi, organizzarono o lasciarono organizzare gli attentati, quello in odio all'alleanza francese per creare l'unità italiana in mezzo al disordine, questo per affrettare la soluzione colla guerra sperando dominare e vincere il disordine. E siccome la guerra non scoppiò abbastanza presto pei voti dei faziosi, tre bombe fulminanti, sangui­nolento triumvirato d'assassini, la costrinsero a preparare i suoi ordigni di battaglia.

Vi ebbe in quell'epoca nel mondo rivoluzionario una specie di frenesia, di furore. Una immensa quantità d'in­giurie si scorgevano in ogni organo della setta contro gli abbominevoli, i tirannici Governi dell'Austria e dell'Italia. E questa raccolta di oltraggi e di stupidezze inondava l'Europa, e le masse stupide vi si innebriavano con piace­re. Alla prima vittoria la pazzia divenne generale: si pote­va credere che gli uomini avessero smarrita la ragione. I capi della rivoluzione italiana avranno provata un'immen­sa gioia nel vedere come si era esaltata e pervertita la pub­blica opinione: forse si saranno già creduti in Campidoglio. O Vittorio Emmanuele, tu forse salirai sul Campidoglio a furia di delitti e di tradimenti, ma ne discenderai anche per la Rupe Tarpea! Dio è giusto! La striscia di polvere, che i settarii tuoi associati nell'opera della distruzione italiana, hanno sparsa in tutti i regni, farà saltare il tuo trono, e tu abdicherai come tuo padre; e meno fortunato di re Carlo Alberto, non troverai forse una terra d'esiglio in Europa per finirvi quietamente i tuoi giorni: il fuoco che avrai lasciato imprudentemente accendere in Italia, incendierà allora tutte le nazioni.

E quando per la violenza o per l'astuzia la Sardegna si fu definitivamente ingrandita di quattro o cinque nuove provincie, l'odio della rivoluzione si portò con un furore inaudito contro Francesco II, contro un re di ventitré anni, il più virtuoso dei re di questo secolo. Ma bisognava al Piemonte, pei misteriosi disegni de' suoi compiici, se non per l'unità italiana, il regno delle Due Sicilie: e come ad un segnale venuto da Genova, da Torino, o da Parigi forse, tutti gli organi della setta si scagliarono contro il Borbone di Napoli: giammai non s'era visto, eccettuato Luigi XVI e Carlo X, un re più odiosamente oltraggiato e più vilmente tradito. E ciò che v'è di vergognoso pei Governi che tolleravano tali ingiurie nella stampa dei loro Stati si è che questo re non era in guerra con alcun sovra­no d'Europa. Il Governo di Napoleone stesso pareva lo trattasse con un'amicizia particolare, e non ostante questo si leggevano ogni giorno nei giornali rivoluzionarii di Parigi le più odiose menzogne e gli insulti più grossolani. Il Siede, la Presse, il Journal des Débats, L’Opinion Natìonale, il Messager, L’Indépendance Belge, il Times ed il Morning-Post furono i più attivi ed i più infuriati nell'insultare; forse saranno stati anche i meglio ricompensati. E mentre che infami ministri e fiacchi generali, per non dire senza pudore, tradivano vilmente il loro re: mentre l'armata napoletana combatteva valorosamente pel suo re e per la sua patria, contro avventurieri sostenuti dal Piemonte, la setta continuava a scagliare oltraggi contro il glorioso re; e lo si oltraggiava ancora l'indomani della sua caduta! Forse che gli insultatori sanno rispettare l'infortunio?...

Ecco un piccolo saggio della miserabile stampa italia-nissima di quell'epoca. Non dimentichiamo però che biso­gnava fare l'Italia una ad ogni costo, e che le lire piemon­tesi e le ghinee inglesi hanno avuta una gran parte nella Questione Italiana (una lettera di Mazzini a sir John Adams di Glascow, ne fa fede). Non è dunque sorprendente che il Conte Cavour sia stato così ben servito da tutti i gazzettie­ri e libellisti rivoluzionarii d'Europa, vii razza di gente che porta ogni livrea e che serve tutte le bandiere. Qui non occorre spiegare perché il generale Lamoricière sia stato come gli altri calunniato e messo nel novero degli anate­matizzati: egli faceva troppo timore alla setta. E diffatti una vittoria di quell'illustre generale sarebbe bastata a sal­vare il Papa ed il re delle Due Sicilie, distruggendo così tutti i progetti della rivoluzione.

E quando nell'aprile del 1860 il generale Lamoricière accettava il comando delle truppe pontificie, un giornale di Torino, V Unione, apriva nel suo bureau una sottoscrizio­ne per innalzare un monumento d'infamia a questo generale. E vi furono dei miserabili che portarono le loro offerte patriottiche, esponendo così il loro nome al disprezzo del mondo. Il passaggio di Lamoricière nelle Marche e nell'Umbria avendo sparso un grande entusiasmo, il comitato rivoluzionario fece spargere a Pesaro uno scritto, di cui si da qui una esatta e fedele traduzione: "Avviso - II Signor Lamoricière viene a Pesaro, uomo senza carattere e spregevole s'unisce oggi alla setta clericale per sostenere il dispotismo ed opporsi allo sviluppo della civilizzazione.

Il suo primo ordine del giorno sembra scritto dal più abbietto dei frati francescani. Non c'è nessuna differenza fra lui ed il vile Bella3. La Francia e l'Europa l'hanno giu­dicato e condannato alla berlina nelle nostre provincie che per un poco di tempo ancora soffrono sotto gli artigli san­guinosi dei preti. Abitanti di Pesaro, quando Lamoricière arriverà nella nostra città, ritiriamoci nelle case, e mostria­mogli così il nostro disprezzo". Questo proclama sarebbe stato bene nell’Ami du peuple del cittadino Marat; però Marat non era che una bestia selvaggia, aveva bisogno di sangue, ma almeno non parlava di civilizzazione.

L’Indépendance Belge che serve tre padroni in una volta, gli Orléans, Napoleone e la Rivoluzione italiana, s'era limitata a scrivere verso la fine del marzo del 1860: "Noi non crederemmo mai che il signor de Lamoricière voglia coronare il suo passato con una finale che oscurerebbe la più illustre carriera". Ecco, mettere la propria spada al servizio del Papa è un disonore! Che cosa ne pensa l'ar­mata francese di Roma?...

Il Siede parlando al suo milione di lettori, in nome della gente onesta del suo paese gridava in quell'epoca: "Noi deploriamo che questo gran generale d'Africa si metta in oggi al servizio del più tristo fra i Governi: noi siamo stu­piti che un illustre generale possa diventare un soldato del Papa, un capo di bande rivoluzionarie... facendosi il ridi­colo del mondo intero... siamo afflitti di veder finire così una luminosa carriera..." Si può dare un orgoglio mag­giore in un giornale di mercanti da vino e di stracciai? Se almeno questi insulti avessero un poco di spirito, loro si potrebbero perdonare.

Il Morning Post che ora difende il bianco, ora il nero, secondo che John Bull ha bene o male digerito, che ora parla dell'impotenza della rabbia di Roma, come d'un felice presagio dì successo per l'indipendenza italiana, e che qual­che volta non trova "conveniente all'onore della Francia ed alla prudenza dell'Inghilterra, che Roma sia sprovvista di truppe straniere, e che il Papa sia abbandonato alla mercé A'un popolo sfrenato": il Morning Post aveva i nervi irritati vedendo Lamoricière alla testa delle truppe ponti­fìcie, "Che i legittimisti emigrino a Roma è intelligibile, diceva; ma che il generale Lamoricière si faccia sponta­neamente il capo ed il difensore d'un sistema d'oscuranti­smo e di dispotismo tanto atroce come quello della corte di Roma, in verità è uno spettacolo che deve far ridere gli scettici, e penetrare gli uomini onesti di dolore". Povero John Bull! Come è docile alla parola d'ordine!

Mentre la setta faceva insultare Lamoricière la cui spada gli cagionava evidentemente spavento, il re Francesco II, che ispirava pure timore ai settarii, vedeva il suo nome offeso dai più odiosi oltraggi. È un tiranno san­guinario, diceva uno. È il successore del re Bomba, diceva l'altro: e quest'espressione era una sanguinosa ingiuria nella bocca dei diffamatori rivoluzionarii. - II suo Governo è il terrorismo e la proscrizione, si scriveva alla Presse. - "II Governo del re di Napoli è odioso ai popoli": è il signor Havin che s'esprimeva così nel Siede dell'I 1 aprile 1860. -"A cosa dunque pensa il giovane re di Napoli, diceva il Times del 3 gennaio dello stesso anno, governando il suo regno con tirannia e commettendo sopra i suoi sudditi ogni sorta di sevizie arbitraria? E non prevede egli che Napoli finirà per affrancarsi d'un regime che non può che essergli odioso? A meno che egli non cambi di politica, Napoli cambierà certo di dinastia". Il 10 marzo seguente il Times preso da un accesso di febbre rivoluzionaria, forse soffocato dagli odori malsani del Tamigi, esclamava con delirio: "II rappresentante dell'Inghilterra a Napoli ha invano provato di calmare la ferocia del piccolo despota napoletano". È dispiacente che il Times non sia vissuto in Francia al tempo di Marat; avrebbe potuto secondare util­mente quell'onorevole cittadino contro l'odiosa tirannia del feroce Luigi XVI.

"Se il re di Napoli assiste al Congresso delle potenze Europee, non potrà entrarvi che coi sentimenti che hanno i colpevoli allorché si presentano alla giustizia"; così parlava il Morning Post del 22 gennaio 1860. Ci sembra udire uno dei nostri stimabili membri della Convenzione d'altra volta, il beccaio Legendre, che diceva l'il dicembre 1792 qualche momento prima dell'arrivo di Luigi XVI alla bar­riera della Convenzione: è necessario che il silenzio delle tombe spaventi il colpevole: silenzio precursore del giudizio che fanno le nazioni ai re, aggiunse il presidente dell'Assemblea Vergniaud. Si vede che John Bull s'è ispirato per la circo­stanza nella prosa del Moniteur. Poi qualche giorno dopo, profetizzando una rivoluzione, o almeno un rovescio nel regno delle Due Sicilie, il Morning Post diceva: "Non vi sono che gli abitanti di Napoli che possano credere ad un dispotismo così crudele come quello del re di Napoli..." e più avanti dice: "Una fuga vergognosa lungi da' suoi stati sarà la fine inevitabile di questo re, dopo che le sue truppe saranno state messe in fuga senza sparare un fucile'. Questo giornale merita veramente di diventare il Moniteur officiel d'una futura Convenzione mazziniana istituita per giudicare il dispotismo dei re in nome di qualche Repubblica democratica e sociale.

Il direttore della polizia a Napoli, signor Aiossa, aven­do pubblicato una circolare nel gennaio del 1860 per invitare gl'intendenti delle provincie a sorvegliare con zelo le mene dei rivoluzionarii, la Presse del 28 gennaio gridava che "lo stile del direttore è cinico, che la polizia di Napoli è inet­ta, cieca, violenta...".

Il 3 aprile seguente comparve nel Siede un articolo inti­tolato: / Napoletani a Roma. Era il momento in cui si stava decidendo di mandare le truppe napoletane per aiutare il Papa a riconquistare le Romagne. La rivoluzione ebbe timore: il Siede scrisse furiosamente, e la rivolta di Palermo che non doveva scoppiare che il 6 aprile, fu pre­cipitata di due giorni per ordine espresso venuto da Parigi. Diamo qualche estratto di questo lungo articolo. -Primieramente il Siede piange sulle sorti dei popoli napo­letani, ch'egli ama teneramente, e che vorrebbe veder liberi. Poi dopo aver duramente trattato gli sbirri del re di Napoli, vale a dire l'armata reale, grida con un furore che ci sembre­rebbe comico, se non si fosse sparso il sangue di quei popoli: "I Napoletani a Roma? Ma che cosa ha a fare Napoli a Roma? Perbacco baciare la mula del Papa, e visi­tare San Pietro. Che significato può avere la sua presenza in questa città? Quale ne sarà lo scopo? Quale sarà il risul­tato di questa occupazione? Napoli vorrebbe riconquistare a mano armata quello che il Governo del Santo Padre ha perduto... vorrebbe far sventolare la bandiera del dispoti­smo, e stabilire un lutto al quale piglierebbero parte tutte le cattive passioni d'Europa. In Italia vi sarebbero due campi: il mezzogiorno e il nord: Napoli e gli Ultramontani: il Piemonte e la libertà!... Ma noi vogliamo credere che se 1 Inghilterra ha dimenticati gli impegni che ha assunti contro Napoli, la Francia si ricorderà, in presenza di quanto ora avviene nel regno delle Due Sicilie, del protocollo del Trattato di Parigi (1856) e cesserà di riguardare come finita *a sua missione in Italia, e non abbandonerà Roma per lasciarla agli sgherri del re di Napoli: essa occuperà abba­stanza il Governo di questo Principe perché abbia da attendere puramente i suoi interessi".

E diffatti riuscirono ad occupare il re Francesco II in modo che non potè volare in soccorso del Santo Padre. Questo era quanto voleva il Siede: egli per riuscirvi ram­mentò all'Inghilterra ed alla Francia le promesse che ave­vano fatte.

"Ma vedete, continua il Siede, gli sbirri di Napoli e della Sicilia unirsi a quelli che impiegano i Cardinali, il detestabile Governo delle Marche e dell'Umbria unito al cattivo governo di Napoli, le due polizie (leggete le due armate) napoletane e romane facendo sforzi e rivaleggian­do per sorpassarsi. Quale spaventevole serie di nuove tor­ture non presenta una simile rivalità? L'immaginazione, il cuore, la ragione, retrocedono spaventate al cospetto d'una simile unione, e noi siamo in diritto di proclamarlo ad alta voce: la Francia non lo permetterà... Essa ha già trop­po permesso, non permetterà di più". Il Siede faceva mostra senza dubbio d'ignorare che il Gabinetto delle Tuilleries stesso aveva proposto al Governo romano di far guardare Ancona e le Marche da un'armata napoletana. Il Piemonte vi consentiva di buon grado: questo è quello che risulta da un dispaccio del 26 marzo 1860 mandato dal signor Thouvenel al signor Barone Brénier a Napoli. Ma Francesco II ricusò; la sua giovane intelligenza aveva com­preso che non poteva in un sol tempo soccorrere il Papa utilmente, e difendere sé stesso contro la rivoluzione che lo minacciava ne' suoi propri stati. Qui evidentemente v'è un mistero.

Il Siede forse rappresentava la commedia? O piuttosto 11 Piemonte? O forse il Gabinetto delle Tuilleries? Forse un poco tutti tre in una volta. Con questo si spiega ciò che altrimenti resterebbe inesplicabile. Però il Siede e i suoi complici ebbero realmente timore per un istante di Francesco II, e d'un'armata pontificia comandata da Lamoricière. Bisogna convenire che senza i tradimenti, senza le perfidie e gli intrighi rivoluzionarii, si sarebbero fatte delle annessioni piemontesi; ma non avrebbero nien­te fondato di stabile; il male aveva troppo profonde radici in Italia. Ritorniamo alle citazioni.

"Non bisogna illudersi: non è solamente il movimento italiano; il Piemonte ed il suo nuovo regno, noi stessi saremmo minacciati dai napoletani a Roma! Non c'è che da guardare ed ascoltare per convincersene". Ma che! Il re di Napoli avrebbe forse l'idea di muovere guerra alla Francia? Ecco che il Siede torna ridicolo: ma qui diventa minaccioso. "Prima di avere nuovi conti a regolare con Napoli appianiamo gli antichi, ed il Governo delle Due Sicilie non si mostrerà così sollecito a passare la frontiera romana. Privo di questo alleato il Governo dei Cardinali finirà di cercare lo scompiglio d'Europa. Secondo noi il tempo della pazienza è finito. Bisogna parlar alto e forte, e schiacciare nel suo nascere questa coalizione che si vorreb­be formare per ricompensarci d'aver altra volta salvato il Papa ed il papato... La Francia, l'Inghilterra, l'Europa desiderano forse, prosegue il Siede raddoppiando di furo­re, questa battaglia del nord col mezzogiorno d'Italia, questo razzuffamento dei due principii? Vogliono essi che si sparga del sangue? Noi li invitiamo a riflettere seriamente". Si è mai parlato in Francia con tanta sfrontatezza? Si è mai scagliata una più audace sfida ai sovrani? L'antico Marat domandava 70.000 teste d'aristocratici per salvare la Repubblica; ma i moderni Marat minacciano l'Europa di far versare torrenti di sangue se non li liberano dal Papa e dal re di Napoli. Sì, dite benissimo, l'Europa deve riflettere seriamente! Non c'è più d'uopo della diplomazia per vin re questi barbari; loro si vuoi dare una battaglia decisiva

Ancora una citazione e poi avremo finito di parlare di queste selvagge grida di rivolte e di guerre.

"Quattro anni or sono, la questione napoletana si riduceva a sapere se i Governi di Francia e d'Inghilterra non avrebbero con una qualche bomba obbligato il Governo di Napoli a dare una soddisfazione alla pubblica morale ed alle leggi più fondamentali dell'umanità. Le bombe sono rimaste negli arsenali... La Francia si guarderà bene prima di ripetere tanta generosità. Essa non ha colta l'oc­casione per ridurre all'impotenza un governo che non le ha mai mostrata che una cattiva volontà. Oggi questo governo aspira a rimpiazzarla in Roma ed a distruggere quanto essa ha fatto in Italia. Se ci avessero uditi, se aves­sero degnato di crederci, non sarebbe così. A quest'ora forse la Sicilia sarebbe libera. Che ci si creda almeno ora e non si lasci andare il male più oltre... Interessa alla Francia di impedire i risultati mostruosi dell'unione di Napoli con Roma". L’indomani l'insurrezione di Palermo scoppiava: si era finalmente creduto al Siede.

Ecco un saggio dei brutali insulti che scagliava allora la stampa rivoluzionaria al re di Napoli ed al Governo ponti­ficio.

Noi siamo costretti a restringere il numero di queste odiose citazioni, perché in quel momento la sovversione delle idee era tale in Europa che non basterebbe a capirla un grosso volume. Abbandoniamo dunque il giornalismo co' suoi furori e le sue passioni, e ritorniamo agli uomini di Stato, ai personaggi politici ed agli oltraggi che essi lanciavano, oltraggi che se sono più misurati nelle lor espressioni non meritano meno un biasimo severo. Il Barone Ricasoli scriveva da Firenze il 4 marzo il conte di Cavour: "L'Europa ha solennemente stigmatizzato il Governo delle due Sicilie, qualificandolo come il rifiuto di ogni civilizzazione".

Lord Russel, un ministro di Stato della Regina d'Inghilterra, scriveva il 16 gennaio precedentemente al signore Elliot, suo rappresentante a Napoli, queste inqua­lificabili parole, che poi furono riprodotte da quasi tutta la stampa d'Europa: "È certo che le regole più fondamentali della giustizia e dell'onestà a Napoli non si osservano... Si potrà trovare in Europa un governo che possa esser messo al pari di quello delle Due Sicilie, se non è il tirannico ed intollerabile Governo romano?..." Spetta veramente ad un ministro di Stato inglese di parlare di cattivo Governo, ed il dare consigli d'onestà e di giustizia al re delle Due Sicilie?

La storia dell'Irlanda, delle Indie e delle Isole Ionie è dunque così pura di sangue e d'iniquità da permettere al Governo inglese di scagliare insulti contro sovrani che non hanno altro delitto che quello di voler sostenere la propria corona ed i proprii popoli contro le insurrezioni e le rivolte dei faziosi? Ma che cosa fece l'Inghilterra, cinque anni or sono quando scoppiò nelle Indie quella formidabile rivolu­zione? Che fece! Distrusse senza pietà i rivoltosi col ferro e col fuoco. Epperò la rivolta degli infelici popoli indiani era ben altrimenti giusta e legittima, dell'unificazione insensata d Italia in vantaggio del Piemonte. Da due secoli che cosa ha fatto l'Inghilterra in Irlanda? V'ha distrutto senza posa il Cattolicismo. Che cosa è il suo protettorato sulle Isole Ionie, se non un'odiosa servitù imposta a popoli che non fanno che domandare la loro libertà? Questi è quello stesso ministro e poco fa ha detto in pieno parlamento che "l'Italia non sarà mai tranquilla finché il vessillo francese proteggerà a Roma il nido dei ladri e dei briganti".

Allorquando in seguito del congresso di Parigi scoppiò in Europa una esplosione d'odii anti-cattolici lord Palmerston preferendo il governo di Mazzini a Roma nel 1848, al Governo di Pio IX, dichiarava dall'alto della tri­buna inglese: "La città Santa da parecchi anni non ha mai avuto un Governo migliore di quello che ebbe durante l'assenza momentanea del Papa4".

La storia non dimenticherà certo queste parole, e la poste­rità si unirà alla generazione contemporanea per detestarle. Questi rimproveri sono giusti giacché in ogni circostanza, se si ricorda, è lord Palmerston e la sua funesta influenza, il suo cattivo genio, la sua politica odiosa e detestabile, che la Santa Sede ha sempre in lui incontrato. Prima del 1848, come pure all'epoca del Congresso di Parigi, prima e dopo la guerra d'Italia, sempre e dappertutto lord Palmerston ha persegui­ta e calunniata la Santa Sede. La missione diplomatica data a lord Minto, prima della catastrofe del 1848, questa passeg­giata incendiaria d'un plenipotenziario semi-ufficiale, come dice il signor Conte di Montalembert, basterebbe da sé sola a giu­stificare tutti i rimproveri. Il Conte Cavour medesimo non è mai stato più appassionatamente ingiusto contro il governo I pontificio.

Il Marchese Pepoli ha osato scrivere nel suo Memorandum del 3 ottobre 1859: "Noi non sappiamo se \{ |!.: sia un paese in Europa che in proporzione conti un nume;. 1 ro così grande di condannati alla morte, alla galera, all'è-: silio come le Romagne". Qui si esita a qualificare tali ? parole.

E per conchiudere in fine quest'odiosa nomenclatura d'ingiurie scagliate contro i sovrani d'Italia da tutti gli organi rivoluzionarii, faremo qualche citazione più recen­te dei discorsi tenuti nel Senato francese. "In Sicilia e a Napoli, diceva il signor Pietri nella tribuna del Senato il 28 febbraio 1861, il Governo reale si è veramente suicida­to, e gli attacchi di Garibaldi erano quasi superflui in vista delle misure crudelmente stupide prese dalla polizia e dal governo agonizzante". Come questo linguaggio sta bene nella bocca d'un senatore! Forse il signor Pietri ignorava che v'era allora a Napoli un certo Don Liborio, il quale dava a tradimento il suo re e la sua patria a Garibaldi? Ignora forse ancora che la flotta inglese ha favorito lo sbarco di questo filibustiere a Marsala, e che la maggior parte dei generali napoletani gli hanno lasciato riportare delle facili vittorie? Ci pare che sarebbe stato molto più giusto dire che il Governo di Francesco II è stato schiac­ciato dalle società segrete per l'inazione di alcuni e pel tradimento degli altri.

Ma ecco che il Senato imperiale ha calcolato d'illustrar­si nella storia, ascoltando per quattro ore consecutive, e quasi senza protesta, le più rozze ingiurie, dette in più rozzo linguaggio, contro il Papa ed i Borboni, contro que­st'augusta famiglia che ha dato al mondo tanto splendore da render pallide perfino le glorie di Napoleone I. Era il primo marzo e l'oratore un Bonaparte. S. A. I. il Principe Rosso, dopo aver raccolto ogni sorta d'ingiurie per gettar­le sul volto d'un vecchio senza difesa, dopo aver detto che il Governo del Santo Padre aveva irritate le popolazioni, che la situazione degli Stati del Papa era infelice e deplorabi­le, in seguito della sua ostinazione, del suo acciecamento e del suo accanimento, e che il poter temporale è oramai una macchia d'inchiostro sulla carta d'Italia; S. A. I. si è divertito ad inveire con ogni sorta d'ingiurie contro il Governo esecrabile e vergognoso dei Borboni nelle Due Sicilie. Egli ci parla dietro i dispacci ufficiali del Barone Brénier, delle inesplicabili proscrizioni fatte in nome del re dal direttore di polizia, delle deplorabili conseguenze d'un sistema che produce periodicamente delle agitazioni; egli osa anche dirci col mini­stro delle Tuilleries a Napoli, che non sono passioni politiche o suggestioni straniere che possano trattenere i germi permanenti del malcontento, ma che mali reali e danni innegabili sono le cagioni delle rivolte, e giustificano la rivoluzione a Napoli, come i tentativi d'unità italiana fatti dal Piemonte. Giacché, aggiunge S. A. I. dietro una lettera del signor Boulard vice-console di Francia a Messina "non si può fare un cari­co a quelle disgraziate popolazioni delle loro aspirazioni verso un ordine di cose più sopportabile che il giogo intol­lerabile e degradante che si fa pesare sovra di esse". E come se S. A.I. avesse temuto che si potesse accusare il Piemonte d'esser l'agente provocatore delle rivolte, egli si da pre­mura d'invocare la testimonianza ufficiale del signor Barone Brénier che diceva in un dispaccio del 14 aprile 1860: "Si deve attribuire più alle provocazioni cagionate dalle misure di repressione brutale, di cui la polizia è col­pevole, al sistema arbitrario che prevale in tutte le cose, che alle suggestioni venute da Torino, l'attuale movimen­to della Sicilia." Bisogna essere corazzati come le nuove fregate per osare di dire in Senato simili cose. Ma la lette­ra mazziniana del 1857 era dunque sconosciuta a Parigi? E non conoscevano la Società nazionale italiana, né don Liborio?... Che che ne sia, si vede che il Barone Brénier e S. A. I. avevano letti i racconti scritti da Sir Gladstone a lord Aberdeen; questo fa onore alla loro memoria se non alla loro imparzialità. Un poco più lungi l'oratore impe­riale grida con collera: "Non vi sono né infamie, né sper­giuri di cui il Governo Borbonico di Napoli non si sia reso colpevole in faccia a' suoi popoli... Questo cattivo Governo era talmente avvezzo ad abusare dello spergiuro che i popoli l'hanno rifiutato con orrore, non potendo più a lungo sopportare tanta infamia di regime". Noi rifuggia­mo dal proseguire più oltre a ripetere simili infamie, ed abbiamo rossore per la nostra patria che si siano potute ascoltare in Senato senza che pur una voce si alzasse a protestare: almeno l'onore sarebbe così stato salvo. Non si insultarono mai similmente i morti, gli esuli, i vinti ed i re onesti e virtuosi.

Ecco intanto che S. A. I., non sappiamo poi per quale scopo, riunisce le calunnie per gettarle contro una regina, una donna, una morta!!! "La vostra casa di Napoli, dice l'oratore coll'orgogliosa tracotanza d'un nipote del procu­ratore arricchito, conta la regina Carolina, la figlia di Maria Teresa: non vi sono errori che non abbia commessi: essa si è ingolfata nel sangue, e voi l'avete veduta l'amica di lady Hamilton, la padrona di Nelson, di Nelson che fu il carnefice dei Napoletani. Quale fu il ministro di questa regina? Con qual mano sparse tanto sangue? Colla mano del Cardinal Ruffo, che ha coperto il paese di patiboli, e riempite le prigioni di esigliati. È la Regina Carolina che cambiava stanza da letto per avere le finestre che guardas­sero sulla piazza, e che diceva: da questa parte vedrò meglio ad impiccare".

S. A. I. che è così bravo per oltraggiare una donna, l'ava d'un piccolo sovrano iniquamente detronizzato dal Piemonte, oserà parlare così allorché si presenterà l'occa­sione della troppo famosa Elisabetta regina d'In­ghilterra?... Oserà parlare così di Filippo davanti ad un Orleans? Questo è quanto abbiamo il coraggio di rispon­dere a parole tanto odiose: è anche troppo d'aver così lor­data la nostra penna. Però una cosa ci stupisce, cioè che il Senato non abbia protestato contro tali oltraggi, e che li abbia ascoltati con una pazienza che, diciamolo ad alta voce, non è né della sua dignità né delle sue convenienze; almeno questa è l'opinione di tutta l'Europa onesta. Si può ben essere obbligato pel dovere religioso di obbedire ai Governi costituiti, anche ai peggiori, ma non si è mai obbligati di servire i poteri insultatori.

Terminiamo qui questa nomenclatura d'insulti scagliati ai due più onesti sovrani d'Europa; basta per far apprezzare il carattere odioso della rivoluzione italiana, come pure i principali personaggi dai quali viene personificata. Quanto agli insultatori, essi hanno compita una ben brutta missione, che può ben essere stata vantaggiosa per qualcheduno di loro, ma che non sarà mai stimabile presso alcuna nazione. Insultare dei vecchi, delle donne, dei deboli porta vergogna in tutte le lingue della terra. Abbiamo mostrata la mostruo­sa alleanza dei rivoluzionari d'ogni colore e d'ogni partito per attaccare e calunniare Pio IX, questo canchero che divora il cuore d'Italia, e Francesco II, questo re di briganti: noi ripren­deremo ora il seguito del nostro discorso: ci siamo fermati alla commedia, o meglio alla cospirazione degli insulti.

In fine questa ignobile commedia d'ingiurie sembrò ter­minare coll'ultimo tradimento di Gaeta. Ma qui comincia un'altra commedia; commedia non meno odiosa del silenzio e dell'inganno. Bisognava far credere all'Europa intiera che l'Italia meridionale era tranquillizzata, per rendere più faci­le il riconoscimento del Regno d'Italia. Era un giuoco molto abile da lasciar credere alle ingenue Potenze del Nord. Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventati i tiranni; ed oltraggiarono, colle loro stu­pide menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indi­pendenza, come avevano oltraggiati principi, re ed anche regine colle loro rozze ed odiose calunnie. Inventarono la felicità d'un popolo disceso all'ultimo gradino della miseria, come avevano inventata la sua servitù al tempo de' suoi legit­timi sovrani. Vedremo ora ove sono i veri oppressori dell'Italia, ed ove sono le vere vittime ed i veri briganti. I fatti che noi citeremo sono autentici; noi non abbiamo avuto che da scegliere fra i più orribili ed i più odiosi. Ecco le pro­messe e le accuse piemontesi che noi esamineremo, e met­teremo a parallelo dei fatti nel seguito di questo scritto.

1. Il Conte Cavour allorché volle unire i cattolici ed il cle-ricato in favore dell'unità italiana aveva detto sotto la forma bugiarda d'un assioma che la Chiesa sarebbe stata libera nello stato libero; ed i settarii, confermando le parole del loro mae­stro, avevano aggiunto che la religione sarebbe più fiorente allorché il Papa fosse stato sbarazzato dal suo poter tempo­rale. Noi vedremo come la Chiesa è libera, non solamente nell'Italia conquistata e annessa, ma nel Piemonte, e come si sia resa fiorente la religione in tutta la penisola sottomessa al 1^ giogo del re di Sardegna.

2.   I partigiani dell'unità italiana avevano pubblicamen­te accusati tutti i Governi d'Italia d'essere Governi detesta­bili, odiosi ai popoli, deplorabili nella loro amministrazio­ne, contrarii alla civilizzazione ed al progresso dei lumi. Bisognava, dicevano essi, liberare gli Italiani dalla loro pretesa schiavitù, cercare i mezzi di calmare gli odii e le discordie, e lavorare seriamente alla felicità ed alla prosperità di questi popoli. Noi mostreremo il Piemonte che  "libera, civilizza e pacifica l'Italia, colle imposte, le carcera­zioni, gli esilii, gli incendii, le fucilazioni e la miseria, e che rende il suo giogo mille volte più brutale e più odioso di quello dei Maomettani e dei barbari.

3.  Il Piemonte si pretendeva chiamato col voto dei popoli italiani e coll'opinione pubblica in Europa a liberare l'Italia da' suoi tiranni. Si è già detto come l'opinione pubblica sia stata ingannata dal giornalismo della Setta; vedremo ben tosto come s'è manifestato il voto dei popoli italiani in favore del Governo piemontese, come si mani­ festa ancora ogni giorno colle rivolte, e come si manifeste­
rebbe dal nord al mezzogiorno se non vi fosse il timore dei pugnali, e la pressione delle leggi sarde. Infine noi parleremo del riconoscimento del nuovo Regno d'Italia; un grande scandalo dopo una ributtante iniquità! Mostre remo, per dire chiaramente il nostro pensiero, i difensori della legge, del diritto e della giustizia, che tendono la mano all'iniquità stessa sanzionandola col disprezzo d'o­gni diritto, d'ogni giustizia, d'ogni legge; faremo vedere i re che danno l'abbraccio di pace e di fratellanza alla rivo­luzione, a quella rivoluzione che fa insorgere i popoli ed assassina i re, a quella che essi trattavano, non è molto, colle più dure parole, e che hanno pubblicamente coperta dei loro anatemi e del loro disprezzo.



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CAPITOLO SETTIMO
La Chiesa schiava nello Stato in rivoluzione


"La Chiesa libera in libero stato". - Così parlava tempo ; fa il Conte Cavour pei disegni ed i bisogni della sua politica. Sarebbe stato più esatto dire: la Chiesa schiava nello stato in rivoluzione. Diffatti da un secolo lo spirito rivolu­zionario non è sempre stato il nemico accanito della Chiesa? Dappertutto ove ha regnato, anche un sol giorno, non ha dichiarata la guerra, e una guerra implacabile al Cattolicismo?... Non è sempre stato, e dappertutto, tiran­no, persecutore ed empio? E quando per impotenza o tat­tica non è stato né despota né oppressore, ha per questo cessato un sol giorno d'essere calunniatore?... Sta nello spirito rivoluzionario, come nella natura della sua missio­ne, l'odiare ed il tormentare la Chiesa. Tutta la sua storia da un secolo in qua non è che un secolo di persecuzioni, ora col sarcasmo e la calunnia, ora coi furori sanguinarii, o filosofici, sempre però odiosi: potrebbe essere diversa­mente?... Lo spirito rivoluzionario dei tempi moderni non è il genio del male partorito dall'orgoglio?... Non è sempre Voltaire che si beffa di Dio, ed il '93 che proscrive il cattolicismo in nome della nazione, e manda i preti al patibolo in nome della libertà?... Non è ancora il libe­ralismo che calunnia ed insulta la Chiesa sotto la Ristaurazione, e nel 1850 aizza il popolaccio contro i Gesuiti ed abbatte la Croce, quest'Albero d'amore divino e di libertà? In fine non è ora come pel passato che si ante­pone il rozzo appetito alla Religione, e la ragione a Dio?...

Così si vede lo spirito rivoluzionario nelle sue opere! Cosa ha egli prodotto dopo Voltaire e Gian Jacopo? Cosa produce ai nostri giorni? Disordini e ruine, il dispotismo nello Stato, l'anarchia nella società, la licenza e l'empietà dappertutto, la libertà in nessun luogo. Quanto alle sue dottrine, queste non sono che i mostruosi errori de' tempi antichi, vestiti con un'arte detestabile di nuove forme e parole cento volte già confutate e vinte dal buon senso e dalla scienza, cento volte già condannate co' giudizii più severi della Chiesa.

Non è dunque senza ragione che l'augusto Pio IX ha potuto dire nella sua allocuzione del 9 giugno scorso: "Mentre noi percorriamo rapidamente e con dolore gli errori del nostro disgraziato secolo, lasciamo di ricordare, venerabili Fratelli, tant'altre falsità quasi innumerevoli, che voi conoscete perfettamente, e coll'aiuto delle quali i nemici di Dio e degli uomini si sforzano di turbare e distruggere la società sacra e la civile. Noi passiamo sotto silenzio le ingiurie, le calunnie, gli oltraggi gravi e molti-plicati coi quali non cessano di perseguitare i Ministri della Chiesa e questa Sede Apostolica. Non parliamo del­l'odiosa ipocrisia colla quale i capi ed i satelliti di questa ribellione e di questo disordine, sopra tutto in Italia, affrettano dire che vogliono che la Chiesa goda della sua libertà, mentre con un audace sacrilegio calpestano ogni giorno i diritti e le leggi della Chiesa, la spogliano de' suoi beni, perseguitano prelati ed ecclesiastici nobilmente dediti al loro ministero, li imprigionano, scacciano violen-temente dai loro asili i seguaci degli ordini religiosi e le vergini consacrate a Dio, e non indietreggiano davanti ad alcuna impresa per ridurre la Chiesa ad una vergognosa servitù ed oppressione... Omettiamo di ricordare i tristi errori che compiono i seguaci di queste perverse dottrine, per non cagionare una crudele desolazione al nostro cuore, al vostro, ed a quello della gente dabbene. Non parliamo di quell'empia cospirazione, di quei maneggi colpevoli e fallaci coi quali vogliono rovesciare e distrug­gere la sovranità temporale della Santa Sede... Lo spirito si rifiuta con orrore al sol toccare i principali di questi errori pestilenziali, coi quali gli uomini dei nostri infelici tempi turbano tutte le cose divine ed umane... E chi non vede infatti che tanti empii dogmi, che tante macchinazio­ni e follie depravate corrompono ogni giorno più misera­mente il popolo Cristiano, lo spingono alla rovina, attac­cano la Chiesa Cattolica, la sua dottrina salutare, i suoi diritti e le sue leggi venerabili, i suoi sacri ministri, propa­gano i vizii ed i delitti, e rovesciano la società stessa...?.

Perciò noi vi esortiamo e vi scongiuriamo, voi che siete il sale della terra, i guardiani ed i pastori del gregge del Signore... di allontanare con sicura e con estrema vigilan­za i fedeli che sono affidati alle vostre cure da questi cibi avvelenati, di combattere e di confutare la perversità mostruosa di queste opinioni, tanto colla parola che cogli scritti... Non cessate mai per quanto dipende da voi d'al­lontanare dai fedeli il contagio di questo flagello, cioè di togliere dalle loro mani e dai loro occhi i libri ed i giornali perni­ciosi, d'istruire i fedeli dei precetti della nostra santa Religione, di esortarli ed avvertirli a fuggire queste dottri­ne d'iniquità come Sfugge l'incontro d'un serpente... Vegliate con estrema diligenza affinché nelle lettere e negli studii elevati non penetri cosa che sia contraria alla Fede, alla Religione ed ai buoni costumi. Agite con ener­gia virile, e in questa grande perturbazione di tempi non lasciate abbattere il vostro coraggio... e non cessate di opporvi agli sforzi di tutti i nemici della Cattolica Religione e di questa Sede Apostolica...".

E i Vescovi nel loro ammirabile indirizzo hanno potuto rispondere al Santo Padre: "Noi non possiamo a meno di volgere i nostri sguardi a sì tristi spettacoli. Da ogni parte infatti si presentano all'animo nostro i delitti spaventevoli che hanno devastato miseramente questa bella terra d'Italia, di cui Voi, beatissimo Padre, siete l'onore e l'appoggio, e che si sforzano di rovesciare la vostra Sovranità e quella di que­sta Santa Sede dalla quale è scaturito come da sorgente ori­ginaria quanto v'è di bello nella società civile. Né i diritti permanenti dei secoli, né il lungo e pacifico possesso del potere, né i trattati sanzionati e garantiti dall'autorità dell'Europa intera hanno potuto impedire che tutto fosse rovesciato col disprezzo delle leggi sulle quali fin qui s'ap­poggiava l'esistenza e la durata degli Stati. Noi Vi vediamo, Santissimo Padre, pel delitto di questi usurpatori, che non prendono la libertà che come velo alla loro malizia, spoglia­to delle vostre provincie... che la Vostra voce simile alla trom­ba sacerdotale ha difese con invincibile coraggio contro ini­que violenze... Tutto ciò che Voi soffrite lo soffriamo noi pure, e supplichiamo Dio che ponga un termine a sì ingiuste perturbazioni.

Ma non ci stupiamo che i diritti della Santa Sede siano così accanitamente attaccati. Sono già parecchi anni che la follìa di alcuni uomini è arrivata al punto non solo di sfor­zarsi di respingere le dottrine tutte della Chiesa, e di met­terle in dubbio, ma di proporsi di rovesciare da cima a fondo le verità cristiane. Di qui gli empii tentativi d'una vana scienza e d'una falsa erudizione contro le nostre sante dottrine e la loro divina ispirazione: di qui la perfi­da cura di togliere la gioventù alla tutela materna della Chiesa per imbeverla degli errori del secolo, e spesso anche sottraendola ad ogni educazione religiosa: - di qui le nuove e perniciose teorie sull'ordine sociale politico e religioso che si spargono impunemente da per tutto; di qui l'abitudine troppo famigliare in parecchi uomini di queste contrade di disprezzare l'autorità della Chiesa, d'u­surpare i suoi diritti, di disconoscere i suoi precetti, d'in-sultare i suoi ministri, di deridere il suo culto, di avere in onore e di esaltare tutti gli uomini (soprattutto ecclesiasti­ci), che si scostano dalla via della religione e camminano in quella della perdizione. I venerabili Prelati, ed i sacer­doti del Signore sono spogliati del loro potere, costretti ad esulare, e gettati in carcere, sono strascinati avanti ai tri­bunali civili con affronto per essere stati fedeli al loro santo ministero. Le spose di Cristo gemono, scacciate dai loro asili, consunte di tristezza, vicine a morire di miseria; i religiosi sono forzati a rientrare, loro malgrado, nel mondo; mani violente si stendono sul sacro patrimonio della Chiesa; con libri detestabili, con giornali, con imma­gini, viene dichiarata una guerra terribile e continua ai costumi, alla verità ed al pudore.

Quelli che si abbandonano a tali aggressioni sanno benissimo che nella Santa Sede, come in una fortezza ine­spugnabile, risiedono la forza e la virtù d'ogni giustizia e d'ogni verità, e che gli sforzi del nemico si rompono con­tro questa cittadella; che la Santa Sede è una sentinella per mezzo della quale gli occhi chiaroveggenti del guar­diano supremo scorgono da lontano le imboscate prepara­te e le annunciano ai suoi compagni. Di qui l'odio impla­cabile, l'invidia incurabile, lo zelo appassionato degli uomini perversi che vorrebbero deprimere la Chiesa romana e la Santa Sede apostolica, e distruggerla se que­sto fosse possibile...".

Vediamo ora come il conte Cavour e la rivoluzione hanno fatto nelle provincie italiane sottomesse al loro giogo la Chiesa libera nello Stato libero. Noi ci limiteremo qui al semplice assunto di storico; senza discorso e senza frasi, citeremo i fatti, le date, le parole; diremo ciò che la politica rivoluzionaria del Piemonte ha fatto da 14 anni in qua contro la Chiesa, contro Roma, contro la giustizia ed il diritto, contro tutti i sentimenti di cui si onora un cuore cristiano, e se poi i fatti che allegheremo saranno capaci di provare all'evidenza la trama nascosta d'un profondo ed iniquo disegno, allora saremo in grado di concludere col Messaggio del Principe Luigi Napoleone nel 1849, che tutti gli atti d'aggressione commessi contro Pio IX non sono il movimento di un popolo, ma sibbene l'opera d'una congiura.

E diciamo da principio che l'opera della libertà piemon­tese fu il cominciamento della schiavitù e della persecuzio­ne religiosa in Piemonte, come se fosse stato necessario di preludiare con vessazioni d'ogni sorta, e colla spogliazione del clero all'invasione ed all'usurpazione delle provincie pontifìcie. Frattanto allorquando Carlo Alberto diede la sua costituzione, l'Episcopato del regno sardo accolse con sod­disfazione la concessione delle riforme e lo Statuto costitu­zionale. Questo è anche affermato dal signor Chiala, uno dei più grandi ammiratori del conte Cavour. Mazzini mede­simo scriveva nel 1859: "II Clero non è niente nemico delle istituzioni liberali... Non attaccate il Clero, promettetegli la libertà e lo vedrete unirsi a voi". Ecco come si sono ricom­pensate queste simpatie del Clero per la monarchia costitu­zionale.

Nell'ottobre del 1847, quando la libertà della stampa era proclamata in Piemonte, gli scritti dei Vescovi veniva­no sottomessi ad una censura preventiva.

Era appena passato un anno ed usciva una legge nell'ottobre 1848 per sorvegliare le scuole e tutti gli istituti della gioventù, e consiglieri laici avevano attribuzioni sulla sorve­glianza dell'insegnamento religioso, sui catechismi, e sulla scelta dei direttori spirituali. In conseguenza di questa legge il 23 ottobre il signor Buoncompagni ministro della pubbli­ca istruzione, e poi governatore dell'Italia centrale, nomi­nava dei direttori di spirito all'insaputa dei Vescovi, ed ai loro lagni rispondeva con queste insolenti parole: "Se ho contro di me l'Episcopato, avrò per me altre approvazioni".

Nel dicembre del 1848 si proibì che la tesi per l'esame pubblico nell'Università di Torino fosse per l'avvenire sog­getta ai Vescovi.

Si andava così solleciti su questa via che nel maggio del 1851 si tentava di fondare una teologia di Stato, preten­dendo di sottomettere le scuole diocesane di teologia all'i­spezione d'un delegato del Governo, ed obbligare i pro­fessori di teologia nei seminari ad uniformarsi al pro­gramma dell'Università di Torino. Ora da questa Università di Torino, il cui insegnamento si voleva rende­re obbligatorio ai vescovi, un professore di diritto canoni­co sosteneva, fra gli altri errori, l'onnipotenza dello Stato sulla Chiesa, l'impossibilità di mostrare che il matrimonio è un sacramento, e la mancanza di diritto nella Chiesa per stabilire impedimenti dirimenti al matrimonio. Il medesi­mo professore accusava la Chiesa cattolica, e particolar­mente la Santa Sede, d'esser la causa dello scisma d'Oriente, poi come per preludiare sullo spogliamento della sovranità pontificia, tentava provare l'incompatibi­lità del poter temporale collo spirituale. Il Santo Padre, guardiano dei diritti e della fede della Chiesa, dovette condannare questo professore con un decreto del 22 ago­sto 1851; ma questa condanna ed i reclami dei vescovi non ebbero per conseguenza che di far passare il professore colpevole dalla cattedra di diritto canonico alla cattedra di diritto romano.

E siccome le dottrine proibite seguitavano ad essere insegnate all'Università, i vescovi ne avvertirono il loro clero; ma il ministero rispose alle loro rimostranze con una circolare del mese d'ottobre dell'anno stesso, nella quale si diceva che nessuno poteva esser messo al possesso dei benefizii che dopo aver frequentata l'Università.

La rivoluzione piemontese preparava così gli spiriti ad imprese più gravi ed a leggi più ardite ancora. Il 20 aprile 1850 una legge, la famosa legge Siccardi, aboliva tutte le immunità ecclesiastiche e riduceva le feste legali. A questa notizia fu grande la gioia nella città e nei fogli rivoluzionarii. Si gridò Viva Siccardi! Abbasso i preti! Il 12 giugno 1862 com­parve il progetto di legge sul matrimonio civile presentato dal signor Buoncompagni. La Camera dei deputati votò que­sta legge il 5 luglio seguente. Il 22 maggio 1852 si decreta­va la soppressione degli Ordini religiosi, l'incameramento dei loro beni, e nel medesimo tempo la violazione d'ogni concordato, tre cose che erano proibite dalla legge del 25 agosto 1848. Lassemblea costituente aveva già preceduto in Francia nella medesima maniera: tanto è vero che la libertà degli empii e dei rivoluzionarii non sarà mai la libertà della coscienza e della Chiesa. Ma quello che v'ha qui di dispre­gevole per l'onore della politica piemontese si è che si face­vano simili atti contro la Chiesa senza dichiarare una guerra aperta alla religione, senza romperla colla Santa Sede, anzi mentre duravano le trattative con Roma1.

Ecco come i vescovi della Savoia e del Piemonte s'espri­mevano a questo riguardo nel loro indirizzo al re Vittorio Emmanuele: "Rompere i concordati fatti colla Santa Sede, dicevano essi, non tenere alcun conto dei trattati più solen­ni segnati con lei da predecessori augusti di Sua Maestà, e particolarmente dal suo piissimo padre di gloriosa memoria nel 1841 (articolo 8 del Concordato del 27 marzo), turbare la coscienza ed affliggere in tal modo tutti quelli che vogliono vivere e morire nel grembo della santa Chiesa cattolica!... E qual momento scelgono essi per questa violazione, per que­sto dispregio formale della Chiesa, per questa rottura for­male colla Santa Sede, per questo principio di scisma? Quando il Padre della Cristianità, il Papa Pio IX è esule da Roma, e beve in terra straniera il calice dell'amarezza!... Forse, aggiungono con coraggio i vescovi della Savoia, se si trattasse di trattati conclusi con una grande Potenza si agi­rebbe con più riserva... Le alte Potenze hanno mezzi di farsi rispettare, ma Pio IX non ha armata. Pio IX è un esule".

Il 24 marzo 1853 una legge toglieva ai vescovi e limita­va ad un decreto reale il diritto di fissare il numero dei giovani chierici esenti dalla coscrizione. Un altro decreto del 23 maggio 1853 non meno dannoso in seguito, obbli­gava alla coscrizione i fratelli della Dottrina cristiana, di questi premurosi istitutori dei figli del popolo. - Nove anni più tardi, nell'agosto 1862, il Governo piemontese chiudeva le scuole dei Fratelli della Dottrina cristiana a Parma e Piacenza e li rimandava col pretesto che davano un'istruzione dannosa alla gioventù. - II 10 marzo 1854 i beni del gran seminario di Torino venivano sequestrati, ed invano l'arcivescovo ha dal suo esiglio reclamato più volte contro questa ributtante iniquità. Con un decreto reale del 26 settembre 1860, firmato dal Ministro dei culti e della giustizia Cassinis, si prese possesso a vantaggio dello Stato di tutti i benefìcii vacanti senza eccezione o distinzione.

Ma passiamo rapidamente su questi fatti deplorabili, e su altri ancora, e tocchiamo delle violenze esercitate con­tro i vescovi e gli ecclesiastici del nuovo regno d'Italia.

Il 18 aprile 1850 monsignor Fransoni arcivescovo di Torino indirizzava al suo Clero una circolare per tracciar­gli, secondo le leggi della Chiesa, la linea di condotta che doveva tenere. Questa circolare essendo dispiaciuta all'au­torità, il prelato fu condotto avanti ai tribunali e condan­nato a 500 franchi di multa. Qualche giorno dopo con questa sentenza alla mano, un capitano ed un brigadiere dei carabinieri si presentarono all'arcivescovo ed intimaro­no a monsignor Fransoni l'ordine di seguirlo alla cittadel­la di Torino. E subito questo venerabile arcivescovo, col suo breviario sotto il braccio, venne condotto in prigione dalla forza pubblica come se fosse uno dei più grandi mal­fattori2.

Il 9 agosto 1850 monsignor Fransoni fu di nuovo tolto di carcere dai carabinieri e gettato in quella prigione di Fenestrelle ove viveva ancora immortale la memoria del Cardinale Pacca, e d'altri confessori della fede di cui la Chiesa si glorifica. Il virtuoso arcivescovo è messo alle segrete; viene proibito al suo vicario generale di scrivere, ed egli, l'arcivescovo stesso, non può parlare col suo vica­rio, né col suo domestico che alla presenza d'un carabi­niere che lo guarda a vista. Un elemosiniere delle carce­ri per aver raccomandato ai fedeli di pregare pel virtuo­so prelato, fu tosto destituito senza nessun avviso pre­ventivo. E finalmente il 27 settembre seguente monsi­gnor Fransoni fu condannato all'esigilo, e tutti i beni dell'arcivescovado al sequestro, e non fu neanche permesso ai cattolici d'inviare all'illustre esule una testimonianza della loro simpatia e del loro dolore. Il 18 aprile 1851 alcuni agenti di Polizia a Genova fecero una perquisizio­ne a bordo del battello a vapore il Castore, e vi seque­strarono un calice ed una mitra che la pietà dei fedeli spediva all'esule arcivescovo.

Monsignor Varesini, arcivescovo di Sassari, colpevole come l'arcivescovo di Torino, subì eguai trattamento. "Gli si imputò a delitto, dice S. E. il Cardinal Antonelli, in una nota del 26 giugno 1850 all'incaricato d'affari di S. M. Sarda, d'aver tracciato al suo Clero la condotta che doveva seguire per la sicurezza delle coscienze, relativamente alle leggi anticanoniche, e giudiziariamente gli si intimò di comparire avanti al tribunale di Sassari. Poi si staccò con­tro di lui un ordine d'arreso che doveva eseguirsi dalla forza pubblica".

I vescovi di Saluzzo e di Cuneo avendo scritto nel medesimo senso degli arcivescovi di Torino e di Sassari, ebbero dal governo sardo l'intimazione di ritrattarsi, per­ché altrimenti i tribunali andrebbero al possesso dei beni delle loro mense vescovili3.

Nel 1851 monsignor Marondini arcivescovo di Cagliari in Sardegna, fu arrestato, spogliato de' suoi beni e con­dannato all'esiglio, ov'è tuttora.

In questo tempo le persecuzioni dei rivoluzionarii con­tro il Clero raddoppiavano in mille modi. Le circolari dei ministri e degli intendenti piemontesi ponevano il Clero sotto la sorveglianza della polizia, e non si stava dall'aiz-zargli contro l'odio popolare, facendo credere ch'esso fosse la causa dell'incarimento dei grani, e veniva racco­mandato caldamente ai sindaci d'invigilare sopra di lui4. Il Conte Cavour stesso portò alla tribuna delle Camere odiose denuncie contro il Clero. In tal modo s'arrestò gran numero di preti che poi furono lasciati in libertà dopo parecchi mesi di carcere. L'abbate Gagliardi, quare-simalista a Mondovì, fu tenuto prigione due mesi, e poi dichiarato innocente il 17 marzo 1850. Il predicatore Luigi Piola fu arrestato il 13 settembre e poi messo in libertà dopo quaranta giorni d'ingiusta detenzione. Il prete amministratore della parrocchia di Malanghero fu tenuto in arresto dal mese di maggio fino al mese di set­tembre, e poi fu dichiarato innocente. Poco dopo i 15 curati della vallata di Aosta furono accusati d'aver fomen­tato un ammutinamento in quelle parti; più tardi il pro­cesso dimostrò invece che essi non erano intervenuti che per ammansare il popolo.

Si può leggere nell’Armonia del 20 dicembre 1859 la lunghissima lista di tutti gli ecclesiastici ingiustamente esigliati ed imprigionati per ordine d'un potere empio e rivoluzionario che in quel tempo poi permetteva audacie senza limite, ed insulti senza nome contro il Clero, contro il Papa, e contro la religione, contro quella religione medesima che lo statuto chiama la religione dello Stato.

Fischi sacrileghi interrompevano a Torino i predicatori nelle chiese; parodie della Via Crucis e dello Stabat Mater mettevano in derisione i nostri più augusti misteri; si stampavano le opere complete dei più cattivi autori con immonde stampe; si raffigurava il Papa al ballo ed al tea­tro in compagnia di donne di cattiva vita; si metteva una testa d'asino sotto la tiara e mille altre indegnità. Ed era in quel tempo in cui i giornali rivoluzionarii attaccavano in tal guisa colle più ignobili parole e colle più oscene caricature la morale e la religione; era in quel tempo che si condannava un giornale cattolico la Campana, e che si sospendevano i giornali L’Armonìa, il Corriere delle Alpi, il Cattolico ài Genova ecc. Non è dunque senza ragione che il signor Sauzet nel suo celebre scritto sul matrimonio pub­blicato nel 1853, indirizzava al Piemonte queste severe parole: "Io non so quale spirito fatale domini in Piemonte. L'incisione e la stampa sembrano fare a gara a corrompere il popolo".

Inutilmente il Santo Padre in una lettera del 19 settem­bre 1852 indicava questi scandalosi disordini; il Governo continuò per la sua via, e si guardò bene dal dare al Papa la più piccola soddisfazione; la guerra irreligiosa e l'osti­lità con Roma convenivano troppo alla sua ambiziosa poli­tica. E come se non bastassero gli oltraggi della piazza e del teatro, s'intese Brofferio, più tardi candidato del I governo, approvare l'ammutinamento del popolaccio di Nizza contro il vescovo, e gridare un giorno alla Camera lei deputati: "Proviamo a questi vescovi orgogliosi che anche il popolo ha i suoi fulmini ed i suoi anatemi!".

Nel mese di ottobre 1852, i Certosini di Colegno ave­vano ceduto provvisoriamente la parte disponibile della [loro casa; ma nel 10 agosto 1854 il signor Rattazzi, allora ministro, li mise improvvisamente alla porta del convento, |e senza la carità d'un buon cristiano, sarebbero rimasti sul selciato della strada. Si espulsero poi successivamente i religiosi della Consolata e di san Domenico, i preti della missione di san Vincenzo de Paoli stabiliti a Casale, i reli­giosi Oblati di Pinerolo, i padri Serviti d'Alessandria, che tanto si prestarono a Genova al tempo del choléra, ed ove quattro d'essi rimasero vittime.

Né anco le donne furono risparmiate. In principio del 1853 un antico e pacifico istituto di beneficenza veniva sciolto con decreto ministeriale: era l'associazione delle Suore di carità dette Dame della Compassione, che s'occupa­vano nelle montagne della Savoia ad istruire le fìglie dei poveri ed a curare gli infermi. Di nottetempo vennero parimente cacciate il 18 agosto 1854, col mezzo dei cara­binieri, le religiose di Santa Croce. "Io ringrazio Dio, scri­veva l'abbadessa, che nessuna delle mie fìglie è morta nella strada". Già qualche anno prima, il 25 agosto 1848, erano state proscritte da tutto il regno sardo le Dame del Sacro Cuore: tutte le loro case furono disciolte, le allieve disperse, ed i loro beni mobili annessi al pubblico tesoro.

Finalmente nel maggio del 1855 si legalizzarono tutte queste iniquità e questi arbitrii, o meglio si sanzionarono con una legge incostituzionale e spogliatrice, sulla sop­pressione delle comunità e delle corporazioni religiose, e sull'incameramento dei loro beni; il progetto fu presenta­to alla Camera dei deputati il 25 novembre 1854. Così la politica piemontese poneva il suggello ad un lungo segui­to d'imprese ingiuste e violenti, negando alla Chiesa il diritto di possedere, diritto che i governi pagani medesi­mi hanno riconosciuto. Trentacinque ordini religiosi cad­dero sotto la proscrizione; 7850 religiosi furono espulsi. Né gli ordini nobili, né gli umili, trovarono grazia presso l'odio dei rivoluzionarii. Il Piemonte possedeva una nobile istituzione, l'accademia di Superga, antica casa di studio ecclesiastico pel regno, fondata dall'intelligente liberalità dei re. La custodia delle tombe della casa reale di Savoia era affidata ai religiosi d'Altacomba (Hautecombe); era un posto sacro, ma neanche questo fu rispettato.

In tal guisa la gioia degli anarchisti era grande, l'Avvenire di Nizza del 10 febbraio 1855 poteva esprimersi in questi spaventevoli termini: "II Piemonte dopo che fa la guerra alla roba nera comincia a guadagnare il mio cuore. Lo schiacciamento dell'infame fatto da Voltaire fu molto incompleto. Occorre terminare la bisogna. E deve essere di gran gioia per noi il vedere teste coronate incaricarsi di questa faccenda. In questo momento il Piemonte da un esempio eccellente". Mazzini aveva dunque ragione di scrivere nel 1846: "II Piemonte entrerà nella via per la prospettiva della corona d'Italia?". Ma proseguiamo rapi­damente questi odiosi dettagli della persecuzione religio­sa dal 1859 e dalle annessioni fin dopo la conquista delle Due Sicilie. I fatti sono tanti che noi non possiamo che prenderli in sorte senza ordine e senza scelta. Però non proveranno meno l'ipocrisia di quelle famose parole: Chiesa libera in libero Stato.

Nel mese di marzo scorso monsignor Giuseppe Tibaldi, vicario di S. E. il cardinal arcivescovo di Napoli, fu condannato a tre mesi di prigionia e 300 ducati di multa per aver insinuato, dice l'accusa, alle allieve dell'Educandato dei Miracoli, celebre convento e collegio di Napoli, di non cantare il Te Deum il 14 marzo, in onore della nascita del re spogliatore. Con un'altra sentenza questo prelato fu condannato a 13 mesi d'esiglio e 1500 franchi di multa, per aver consigliato, dicesi, alle religiose di questo convento di non prestare giuramento al governo di Vittorio Emmanuele.

Nella stessa epoca, pretendendo i giornali della rivolu­zione che 700 o 728 preti avessero segnato a Lecce, nelle Due Sicilie, un indirizzo al Papa per esortarlo a rinunciare al suo poter temporale, l'arcivescovo d'Otranto e tredici preti della sua cattedrale inviarono al Santo Padre una energica protesta contro questo fatto. Denunziati come segnatarii di questo indirizzo, furono tradotti avanti ai tri­bunali e condannati ad una forte multa.

Il Giovedì Santo, appena cominciato l'ufficio divino nella cattedrale di Fano presso Ancona, il vescovo fu circondato da parecchi distaccamenti di carabinieri e di guardie nazio­nali, mentre altri distaccamenti circondavano quel santo luogo. Poco dopo giunse il regio procuratore di Pesaro accompagnato da molti impiegati ed uffiziali di giustizia. Terminato l'uffizio, il capitano dei carabinieri arrestò il vesco­vo nella sacrestia e lo condusse al suo palazzo, ove l'attende­va il procuratore fiscale che gli comunicava l'ordine d'arre­sto e di partire subito per Torino: questo ordine fu imme­diatamente eseguito sotto la scorta dei carabinieri. Quale fu il delitto di questo vescovo condotto in prigione come un ladro?... Si saprà certamente a Torino, ove egli attende anco­ra la sua condanna.

Il 5 aprile scorso si cominciarono a fare delle visite domiciliari presso tutti i curati di Bologna; s'è perquisito l'arcivescovado, si sono fatte visite domiciliari ad arcipreti e curati di campagna, e si finì per metter prigione monsi-gnor Canzi vicario capitolare di Bologna, presso il quale furono trovate delle istruzioni stampate due anni prima e spedite dalla sacra Penitenzìerìa per determinare le facoltà concesse ai confessori per assolvere quelli che sono com­presi nella scomunica maggiore scagliata dal Santo Padre contro gli spogliatori ed i violatori dei dominii della Chiesa. Ora in questa carta si lesse il motto latino deserere: i nostri sapienti italianissimi lo tradussero per disertare. In conseguenza monsignor Canzi fu condannato all'arresto per essere accusato d'aver eccitato i soldati a disertare lalle loro bandiere. Oh stupidità umana! Per arrestare un vescovo senza difesa, si bloccò letteralmente il palazzo vescovile, si perquisirono le parrocchie e le case dei curati, Li cambiò Bologna in un vero campo di armata. Il 26 giu-10 seguente monsignor Canzi fu condannato a tre anni li carcere e 2000 franchi di multa. Si condannò nel medesimo tempo il curato di s. Procolo di Bologna, Don itonio Mazzoni, ad un anno di prigione e 1000 franchi li multa. Frattanto monsignor Canzi fu posto in libertà, ìa siccome non s'era costituito prigioniero, il giudizio ìon si poteva dire terminato: diffatti il 5 passato agosto, senza ch'egli avesse avuto nessun ordine preventivo di scarsi alle carceri, fu arrestato nel suo palazzo dai carabinieri, e condotto prigione, senza che si avesse alcun Sguardo al suo carattere: non si sarebbe fatto di più con in famoso malfattore5.

Il 25 marzo di quest'anno, dice il Pungolo di Napoli, giornale semi-ufficiale, il curato di Portici avendo rifiutato li cantare il Te Deum in onore della nascita del re scomunicato, il tribunale di questa città lo condannò a quattro lesi di prigionia e 100 franchi di multa. La sentenza è stata data da Don Pietro Alamari Nicoletti, ed il curato di Portici si chiama Don Gennaro Formicola.

Monsignor Luigi Velta vescovo di Nardo, nella terra l'Otranto, è stato espulso dalla sua diocesi dai soldati piemontesi il 21 aprile scorso. Egli uscì dalla sua città vescovile accompagnato dal prefetto e dal capo della polizia, e F scortato da un picchetto di carabinieri. Questo prelato era I stato denunciato come colpevole di due gravissimi delitti: i 1° d'aver firmato un Indirizzo in favore del poter temporale; 2° d'aver permesso a 21 seminaristi di portare a Roma il prodotto d'una colletta a vantaggio del Danaro di san Pietro. Questo vescovo era anche accusato d'un altro delitto non meno abbominevole: il Sabbato Santo s'era rifiutato di cantare le preghiere pel re scomunicato, come lo provano due processi verbali del 13 e 20 aprile 1862 del comitato degli operai di Nardo. Questi processi verba­li sono stati pubblicati nel Pungolo di Napoli, e sono segnati dal signor Bonaventura Pignatelli vicepresidente, Gregorio Nocara segretario, e Nicola Inguisci decano. Il giornale non dice se i denunciatori hanno ricevuta la croce dei santi Maurizio e Lazzaro, ma certo questa gente merita bene d'essere compensata.

Nei primi mesi dell'anno 1862, a Mirabella, provincia d'Avellino, il superiore di quel convento di francescani e molti altri monaci sono stati arrestati e condotti, colla catena al collo, in carcere, scortati dai carabinieri: il loro delitto non si conosce.

Il 27 aprile scorso, per ordine giunto da Torino, ed eseguito dal signor Enidrie, prefetto di Foggia, un distac­camento di 300 piemontesi si diresse, verso le quattro pomeridiane, ad Andria, ove mise in istato d'assedio il castello e la famiglia Frascolla. Le porte erano aperte, e gli ufficiali si precipitarono negli appartamenti per cer­carvi Monsignor Frascolla. Ma il prelato con un'amenità che lo caratterizza, si presentò agli sgherri del Piemonte e domandò loro quale poteva essere il motivo di quel­l'invasione   importuna   e   scandalosa.   "Monsignore,   gli rispose un ufficiale, voi siete arrestato e dovete subito venir prigioniero a Foggia". - Passando per Cerignola ed arrivando a Foggia, Monsignore fu fatto l'oggetto delle più commoventi prove di simpatia per parte del popolo. Dopo breve interrogatorio, fu rinchiuso nel suo palazzo vescovile,mentre la polizia ne guardava vigorosamente tutte le uscite. È l'Osservatore Napoletano dello scorso mese di maggio che ci fornisce tutti questi dettagli e ce ne garantisce l'autenticità. Giudicato dal tribunale di Trani il 5 giugno, Monsignor Frascolla fu riposto in libertà, ma alla fine del mese di luglio egli era ancora nelle prigio­ni di Lucera.

Nel mese di novembre 1860, il Marchese Pepoli mini­stro, non sapendo più come fare a riempire il vuoto che si trovava nelle pubbliche casse, ordinò con un decreto l'a­bolizione dell'Ordine di Malta, e confidò ad una commis­sione secolare la liquidazione ed amministrazione dei numerosi beni di quest'Ordine. Nel medesimo tempo questo ministro confiscò con altro decreto i beni che i gesuiti avevano nel territorio della Città di Castello. E poiché parliamo dei Gesuiti diremo qui come furono trat­tati negli stati annessi e conquistati. Ma lasciamo la parola al R. P. Beckx superiore generale dell'illustre Compagnia. È un'energica protesta diretta il 24 ottobre 1860 al Governo sardo.

"Dal principio della guerra d'Italia fino ad oggigiorno, dice il R. P. generale, la Compagnia ha perduti tre collegi e case nella Lombardia, sei nel ducato di Modena, dieci­nove nel regno di Napoli, undici nello Stato Pontifìcio, quindici nella Sicilia. Ovunque la Compagnia è stata lette­ralmente spogliata di tutti i suoi beni mobili ed immobili. I suoi membri in numero di 1500 circa cacciati dagli stabi­limenti e dalle città sono stati condotti di paese in paese dalla pubblica forza come malfattori, gettati nelle pubbli­che carceri, maltrattati ed oltraggiati in modo atroce; si è fin loro proibito di cercare un asilo presso qualche pia famiglia, ed in molti luoghi non s'ebbe alcun riguardo né all'età avanzata, né alla malattia, né alla debolezza d'alcuni individui. Tutti questi atti furono compiuti, senza che si potessero accusare quelli che ne furono le vittime, d'al-cun'azione colpevole in faccia alla legge, senz'alcuna forma giudiziaria; infine si è proceduto nel modo più dispotico e selvaggio.

Se questi fatti si fossero compiuti durante un ammuti­namento popolare, da una plebaglia cieca e furiosa, noi forse dovremmo sopportarceli in silenzio; ma siccome si sono voluti legittimare questi atti colla legge sarda, sicco­me i Governi provvisori stabiliti a Modena e nello Stato Pontificio, ed il Dittatore medesimo, si sono appoggiati all'autorità del Governo sardo; siccome infine per dar forza a questi iniqui decreti, e legittimarne l'esecuzione, s'è invocato e s'invoca ancora il nome di Vostra Maestà, non m'è più permesso di restare semplice spettatore di tanta iniquità ed ingiustizia, e nella mia qualità di capo supremo dell'Ordine, io sono rigorosamente obbligato di domandar giustizia e soddisfazione, di protestare dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, onde la rassegnazione, la dol­cezza, la pazienza religiosa non sembri poi una debolezza che potrebbe interpretarsi o come un atto colpevole, o come un abbandono dei nostri diritti.

Io protesto dunque solennemente, e nei modi che credo migliori, contro la soppressione delle nostre case e collegi, contro la proscrizione, l'esiglio, la prigionia, la violenza e gli oltraggi che si sono fatti soffrire ai miei fra­telli in religione... Io protesto in nome del diritto della proprietà calpestato dalla forza brutale. Io protesto in nome dei diritti dell'umanità sì vilmente oltraggiati in tanti vecchi, infermi, deboli, cacciati dal loro pacifico asilo, privati di ogni assistenza, messi su una pubblica via senza alcun mezzo per poter vivere... Io dirigo questa protesta alla coscienza di Vostra Maestà. Io la depongo sulla tomba di Carlo Emmanuele IV, illustre predecessore della Maestà J Vostra, che, quarantacinque anni or sono, discese volontariamente dal trono per venire a morire in mezzo di noi, vestito dell'abito, legato coi voti della Compagnia di Gesù, e professando nel nostro noviziato di Roma quel genere di I vita che Vostra Maestà biasima e perseguita col suo odio calunnioso ed accanito...".

Quando Vittorio Emmanuele andò a visitare la sua buona città di Napoli, nello scorso mese di maggio, si cacciarono alla vigilia dall'ospedale degli Incurabili tutti i preti per aver rifiutato il giuramento al re spogliatore e scomunicato: fu ci pare il 28 aprile. Inutilmente essi cer­carono la grazia di continuare il loro santo uffizio sino all'arrivo di chi doveva rimpiazzarli: due infelici dovette­ro morire senza che un prete li assistesse in quegli estre­mi momenti. L'indomani Monsignor Caputo, questo ve­scovo d'Ariano che s'è fatto cacciare dalla sua diocesi dal popolo per la sua cattiva riputazione, mandò all'ospeda­le dei preti unitarii, vale a dire degli scomunicati ed interdetti.

Fu verso il mese di maggio del 1861 che il re di Sardegna s'arrogò il potere di nominare e togliere i vesco­vi nel regno delle Due Sicilie, come si toglie una guardia campestre, un commesso scritturale, ed un domestico di piazza. Mai un potere protestante o scismatico, od anche infedele osò commettere una simile usurpazione, una empietà sì manifesta. Bisogna rimontare fino ai cattivi tempi del medio evo per trovare un esempio di simile tirannia, una così odiosa pretesa, sotto il Governo di qual­che imperatore di Germania. E questa tirannia si chiama a Torino libertà della Chiesa! Trista libertà che ci ricon­duce agli infelici tempi d'Enrico Vili re d'Inghilterra e della regina Elisabetta! Enrico Vili imprigionava, o faceva decapitare i vescovi cattolici o troppo devoti al Papa; ma almeno per pudore loro non parlava di libertà.

Il 17 maggio 1861, monsignor Caccia, vicario capitola­re di Milano, scriveva alla Giunta municipale di quella città per fare le sue scuse se non poteva, per dovere di coscienza, cantare il Te Deum nella solennità del 2 giugno, volgarmente chiamata la festa dello Statuto e dell'unità italiana. Da parte loro i canonici ordinarii del Capitolo della metropolitana informarono parimenti il Municipio che loro era stato formalmente proibito dall'arcivescovo di concorrere a simile festa. Subito gli italianissimi organiz­zano una dimostrazione fatta dal popolaccio contro mon­signor Caccia, che deve abbandonare la sua chiesa metro­politana accompagnato dalle guardie di pubblica sicurez­za. La sera si fa una nuova dimostrazione sotto le finestre del palazzo arcivescovile e se ne rompono gli stemmi gentilizii. La guardia nazionale impedì che il disordine pigliasse più ampie proporzioni. Conviene aggiungere che il Capitolo mancò a' suoi obblighi più sacri ed alle leggi sue fondamentali, protestando l'indomani contro il proprio arcivescovo, il quale ebbe il dolore di vedere il suo Clero disobbedirgli, mentre il popolaccio era ammutinato contro di lui; ed il 2 giugno si celebrò la festa della spo­gliazione della Chiesa, la festa dell'iniquità. I canonici della metropolitana di Milano potrebbero dirci dove hanno veduto che sia permesso, non di pregare con uno scomunicato, ma di far preci pubbliche per lui? Noi li invitiamo a leggere i canoni del Concilio di Trento e la bolla di scomunica del 26 marzo 1860.

L’Italia del 20 giugno 1861 pubblicava una lettera da Caprera indirizzata dal capo delle camicie rosse al Padre Giovanni Pantaleo, monaco scandaloso ed unitario: ecco-ne i brani principali: "Noi siamo della religione di Cristo e non della religione del Papa e dei cardinali, perché sono i nemici dell'Italia... combatteteli dunque a tutto potere... dovete attaccare il mostro che divora il cuore della nostra disgraziata madre...". In altri scritti del suddetto capo delle camicie rosse, il mostro è trattato come peste, cancro, e vampiro sacerdotale. Che degno stile dell'eroe ridicolo di Varese, Marsalla e Aspromonte! Ammettiamo ora che l'amico di Vittorio Emmanuele, che il capo delle camicie rosse s'impadronisca di Roma, si capisce subito ciò che avver­rebbe del mostro, e come la Chiesa sarebbe libera in uno stato governato da tali uomini! In altri tempi questo furi­bondo sarebbe stato cacciato dalle nazioni civilizzate; oggi una stampa, che si dice civilizzata, l'acclama, ne fa un eroe, diremo quasi un semidio. Si direbbe quasi che siamo arrivati a quel momento predetto da Leibnitz, nel quale deve levarsi una razza d'uomini risoluti di mettere il mondo in fuoco per esperimentare le loro utopie.

Con ordine del ministro sardo dei culti, diretto a Mon­signor arcivescovo di Saluzzo il 29 maggio passato, il Governo decise di non accordare passaporti ai prelati che si disponevano a portarsi a Roma per la canonizzazione dei martiri del Giappone. Questa circolare fu mandata a tutti i vescovi del circondario ecclesiastico di Torino. È firmata Barbarossa.

Dietro un ordine emanato dal signor Rafaele Conforti, guardasigilli piemontese6, si sono perseguitati avanti ai tribunali di Napoli i canonici di san Gennaro accusati d'essersi mostrati ostili all'unità italiana ricusando di rice­vere Vittorio Emmanuele nella loro chiesa, il 3 del mese di maggio scorso, facendo poi ribenedire, dopo la partenza del re, il santo luogo come prescrivono i canoni. Noi non conosciamo ancora la sentenza che si pronunciò contro i canonici.

Il 26 aprile ultimo scorso il giudice del mandamento dì Staiti, in Calabria, ha condannato a due anni di prigionia ed a 1500 franchi di multa Don Antonio Minuici arciprete di Stignano per aver ricusato il 20 dello stesso mese, men­tre predicava, dicono ingenuamente i giornali unitarii di Napoli, di benedire in nome del Re Vittorio Emmanuele.

Nel mese di dicembre 1861 il Tribunale di prima istan­za di Pistoia condannò in contumacia Monsignor Antonio Carli vescovo in partibus d'Almira ed illustre missionario, a 50 giorni di prigionia, alla multa ed alle spese per aver fatto manifestazioni sediziose. Queste pretese manifestazioni sediziose, testualmente riportate nei Considerando del giudizio, e stampate sotto il titolo di Avvertimenti ai cattolici, sono così concepite:

- 1°. La Chiesa insegnante alla quale appartengono in virtù dell'istituzione divina, il Sovrano Pontefice come capo, maestro e pastore, e i vesco­vi che gli sono uniti per la comunione, è infallibile nelle sue definizioni in ciò che riguarda la fede ed i costumi: e questo è un dogma.

- 2°. La Chiesa è dunque infallibile, allorché definisce se un atto è giusto od ingiusto, vergo­gnoso od onesto, poiché questo concerne i costumi: que­sto pure è un dogma.

- 3°. La Chiesa ha stabilito che l'u­surpazione dei beni e dei territorii che le appartengono è ingiusta, condannabile e sacrilega: ed in questo la Chiesa è infallibile.

- 4°. La Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo il pieno potere di giudicare gli atti peccaminosi de' suoi figli, e qualunque dicesse il contrario sarebbe eretico.

- 5° La Chiesa appoggiandosi all'autorità che ha ricevuta da Gesù Cristo, ha fulminata la pena della scomunica contro gli usurpatori dei beni ecclesiastici, e bisognerà tenere per eretico chi vorrà dire che in questo la Chiesa ha errato, o passati i limiti del proprio potere (Concilio di Trento, Sess. XXII de Reformat. capo XI).

- 6°. Anche presso i Gallicani più severi il giudizio del Pontefice romano è irreformabile, che è quanto dire infallibile, quando vi sia unito il voto della Chiesa insegnante. Ora nel caso attuale, vale a dire in quanto riguarda alla condanna scagliata contro gli usurpatori del dominio temporale della Santa Sede, tutti i vescovi del mondo hanno aderito esplicita­mente al giudizio ed alla sentenza data dal Capo Supremo".

Ecco queste pretese manifestazioni sediziose con­dannate da un Governo il cui Statuto proclama la religio­ne cattolica apostolica romana la sola religione dello stato, e che di più ha l'insolenza di parlare di libertà alla Chiesa, mentre egli ne  è il più  implacabile persecutore. Monsignor Carli ha subita la sua prigionia a Livorno nelle carceri di San Domenico.

La Gazzetta officiale della Sicilia del 22 giugno 1860 pubblicava un decreto di Garibaldi concepito in questi ter­mini: "Considerando che i Gesuiti ed i Liguorini sono stati, durante il triste periodo dell'occupazione borbonica, i più ardenti fautori del dispotismo; in virtù del potere conferitoci, noi decretiamo che le corporazioni di monaci regolari che esistono in Sicilia sotto il nome di Compagnia o di Casa di Gesù e del Santo Redentore, sono sciolte. Gli individui che le compongono sono espul­si dall'Isola. I loro beni sono riuniti al dominio dello Stato". - Segnati Garibaldi. - Crispi.

Il 24 giugno 1860 si scriveva da Forlì all'Armonia che il R- R Reginaldo Barbiani dell'ordine di san Domenico era stato condannato il 20 dello stesso mese ad un anno di Prigione e 2000 franchi di multa. Il suo delitto era di non aver voluto cantare il Te Deum per la festa dello Statuto7. Lo si era arrestato il 28 maggio precedente.

Il 18 maggio del medesimo anno S. E. il Cardinal Corsi arcivescovo di Pisa fu arrestato e condotto prigioniero a Torino, ed il Monitore toscano di Firenze diceva in questo pro­posito che il paese aveva applaudito a quest'atto energico. Sarebbe stato più giusto dire che tutto il paese aveva disapprovato questo atto di violenza, e lo prova l'indirizzo mandato dal Clero e dai cattolici di Pisa al loro vescovo prigioniero8. L’Opinione del 4 luglio seguente diceva che S. E. non era stato arrestato e condotto a Torino che per evitargli delle dispiacevoli dimostrazioni, e che il Governo non aveva l'intenzione di far­gli un processo. Che sollecitudine per parte del Conte Cavour! Ma non si può proteggere un principe della Chiesa senza metterlo prigione?... Finalmente il 6 luglio il Governo fece mettere in libertà Sua Eminenza, dopo due mesi di detenzione arbitraria. Il medesimo giorno si ponevano pure in libertà quattro padri Gesuiti arrestati il 25 e 26 maggio precedente parte a Genova e parte a Torino; furono ricono­sciuti innocenti. Erano stati accusati di cospirazione, di detenzione d'armi; si erano trovati loro dei tesori, e mille altre prove terribili... Et nascitur ridiculus musi

Nella notte dal 16 al 17 giugno 1860 il governo piemon­tese faceva arrestare a Cento, nelle Romagne, monsignor Antonio Maria Amadei, arciprete di quella città. Una com­pagnia di carabinieri aveva circondata la casa del venerabi­le ecclesiastico come se si trattasse dell'arresto di qualche famoso colpevole. Gli si diede solo il tempo di vestirsi, dipoi un tenente e due carabinieri lo condussero nelle prigioni di san Paolo a Ferrara. Poco prima avevano arrestato un altro prete nella medesima città di Cento.

Il 4 luglio 1860 monsignor Giovanni Benedetto dei conti Folicaldi, vescovo di Faenza, fu condannato a tre anni di pri­gione e 4000 franchi di multa per aver rifiutato di cantare il Te Deum. E siccome egli era ammalato nel momento del delitto, ci si limitò a farlo guardare nel suo palazzo vescovi­le; 16 gendarmi per due mesi furono incaricati della sua custodia.

Il 5 luglio del medesimo anno monsignor Antonio Ranza vescovo di Piacenza, il suo vicario generale don Angelo Testi, ed otto canonici della cattedrale, sono stati condannati in contumacia, il primo a quattordici mesi di prigionia e 1300 franchi di multa, il secondo ad un anno di prigionia ed a 1000 franchi pure di multa, e gli altri otto a sei mesi di car­cere ed a 500 franchi di multa. Gli otto canonici sono: i Molto Reverendi don Francesco Ostacchini, don Francesco Maretti, don Francesco Torre, don Gaetano Tirotti, conte don Girolamo Gemmi, conte don Idelfonso Morandi, don Carlo Rocci, don Agostino Ferrari. Avevano ancora chiamato avan­ti ai tribunali il rettore del seminario don Francesco Botti, ma fu assolto. Il solo delitto dei condannati fu d'essersi rifiu­tati di cantare il Te Deum in onore dello Statuto nazionale e dell'annessione al Piemonte. L’Armonia aggiunge che dal 26 giugno al 7 di luglio solamente, i tribunali avevano pronun­ciato dodici sentenze di condanna contro alcuni ecclesiasti­ci, che rifiutarono di cantare il Te Deum, con 158 mesi di prigione e 14.500 franchi di multa9.

Il 7 luglio 1860, soldati piemontesi arrestarono ad Argenta, piccolo borgo nella provincia di Ferrara, sette preti per aver egualmente rifiutato di cantare il Te Deum: qualche giorno dopo furono condotti nelle carceri di san Paolo a Ferrara col loro arciprete e vicario monsignor Liverani.

L’Unitario di Modena diceva nei primi giorni del luglio 1860, che un processo per simile rifiuto fu fatto a monsi­gnor Vescovo di Carpi ed a dieci altri preti suoi complici.

Il 24 giugno 1860 s'arrestò in Genova don Luigi Ferrari, che riconosciuto innocente fu posto in libertà dopo 15 giorni di prigionia arbitraria, e gli si concessero 24 ore per abbandonare gli stati del Piemonte. Ecco un innocente condannato all'esiglio. In Turchia forse per isbaglio gli avrebbero tagliata la testa, ma nel nuovo regno d'Italia, men­tre si riconosce un innocente, si condanna all'esigilo.

Il 13 luglio seguente, dietro inchiesta del tribunale di Ferrara, s'arrestava monsignor Serafino Ruffini arciprete mitrato della parrocchia di Bagnacavallo, don Vincenzo Errani arciprete di Villanova, ed il padre Zanassi dell'ordi­ne dei Minori conventuali, per l'imputazione ridicola d'a­ver inquietate le coscienze nell'esercizio del loro santo ministero. Qualche giorno innanzi, dice il Corriere mercan­tile del 13 luglio, s'arrestò a Cortona, in Toscana, don Bartolini nel momento che veniva dall'aver celebrata la messa. Era il terzo prete arrestato in meno d'un mese nella piccola città di Cortona.

Il 19 aprile precedente venivano espulsi per ordine superiore i monaci benedettini dal loro monastero di san Giovanni nel ducato di Parma. Il 10 maggio un decreto del signor Terenzio Mamiani, ministro della pubblica istruzione, ordinava la chiusura del seminario di Piacenza per vendetta contro il vescovo di quella città. In quel tempo monsignor Baluffi cardinale e vescovo d'Imola veniva custodito militarmente nel suo palazzo già da cin­quanta giorni, per non aver voluto andare a Torino a can­tare il Te Deum, e l'arcivescovo di Ferrara era perseguitato in mille maniere.

Nel mese d'aprile scorso il curato di Russi fu condan­nato a 18 mesi di carcere e 1500 franchi di multa per aver rifiutati i sacramenti al sindaco della sua comune.

Verso la metà del mese di luglio 1860 s'arrestava mon­signor Vincenzo Moretti vescovo di Comacchio, il suo vicario era anche imprigionato, ed i seminaristi messi sulla pubblica via: il delitto è quasi sempre lo stesso: per non aver cantato il Te Deum in onore del potere sacrilego e spogliatore.

Diciamo ancora due parole del Te Deum del 1862! L'arcivescovo di Saluzzo e quello di Mondovì furono chia­mati avanti ai tribunali per aver proibito al loro clero ogni sorta di cerimonie religiose per la festa dello Statuto.

Verso la fine del mese di maggio dello stesso anno i religiosi osservanti di Teramo nelle Due Sicilie furono espulsi dal loro convento. Si voleva anche espellere dal loro convento le religiose di Aversa, ma la supcriora si rifiutò di cedere le chiavi al fisco, e non si trovò in tutta la città un solo operaio che volesse atterrarne le porte. In quell'epoca le prigioni di Rossano erano piene di frati e di preti.

Verso la fine del 1860 monsignor Alessandro Angeloni, arcivescovo d'Urbino, fu condannato ad un mese di pri­gionia per aver difesi i diritti della Chiesa. La sua corag­giosa condotta fu lodata dal Papa in un concistoro tenuto il 1° dicembre del medesimo anno. Nello scorso mese di giugno questo prelato era scopo di nuove persecuzioni. L'odio della rivoluzione piemontese è come la vita nel rospo, non si estingue che coll'intera dissoluzione del corpo.

Il 25 del passato maggio a Ruvo nella Basilicata il dele­gato della questura piemontese fece arrestare i due cano­nici Pietro e Paolo Chicco, don Domenico Cassuco e don Pietro Caputo domenicani, don Raffaele Pellegrini prete, e Domenico Tosca. Le cause di questi arresti non sono conosciute. Mentre i prigionieri venivano condotti verso Barletta, i rivoluzionarii di Corato riunitisi sul loro pas­saggio li colmarono d'ingiurie e di minaccie: furono anche battuti in un modo odioso, e don Pellegrini, uno di loro, ne ricevette una ferita grave.

Il 18 giugno successivo il venerabile vescovo d'Orvieto fu arrestato e messo in carcere malgrado il cattivo stato di sua salute, per aver fatto pubblicare l'ordine che regola la solennità della processione del Corpus Domini.

Il generale La Marmora, nello scorso mese di giugno, s'impadronì a viva forza del convento di santa Brigida a Napoli, e di suo moto proprio ha stabilito nella chiesa un prete garibaldino, violando odiosamente i diritti dell'am­ministrazione diocesana. - Nel medesimo mese le Agostiniane di Salerno sono state egualmente espulse dal loro convento; però s'era presa la precauzione di scioglie­re la guardia nazionale che s'era già opposta a questa bru­tale esecuzione. - In quest'epoca il deputato Musolino diceva in Parlamento a Torino: "Noi daremo la libertà alla Chiesa come si da ai Valdesi od ai Turchi, ma l'indipen­denza mai! L'indipendenza del Clero! Questa è una eresia politica, ed il Papa non la può pretendere". L'ultimo motto dunque della rivoluzione è sempre tirannia e schia­vitù!

Il 24 luglio 1862 il tribunale di Bologna condannò il T. R. Carlo Bignardi cappellano di san Giovanni di Persiceto, a 6 mesi di carcere e 500 franchi di multa, per non aver voluto amministrare i sacramenti al delegato di pubblica sicurezza morto recetemente in quella città.

Don Rocco Sabbatini curato d'Abbata-Mozzo, dice L’Unione del 12 agosto 1862, fu condannato dai tribunali di Teramo a 17 anni di lavori forzati per aver volontaria­mente dato asilo a bande armate, e per avere con pubblici discorsi eccitati gli spiriti contro il Governo italiano. Un assassino, in favore del quale si cercherebbero le circostanze più attenuanti, non sarebbe stato condannato a pena più forte. Ma sotto il regno del re galantuomo un prete è considerato molto meno d'un ladro o d'un assassi­no. Felice civilizzazione che fiorisce ora in tutta l'Italia!

Un decreto dell'Uomo dalla camicia rossa, in data di Napoli 22 settembre 1860, ordina che tutti i beni dell'arci­vescovo di quella città siano considerati come beni nazio­nali. Questa è una trista reminiscenza del 1789.

Ecco intanto una lista, ben incompleta, di alcuni fra i vescovi italiani che sono stati espulsi dalle loro diocesi ed obbligati a fuggire le persecuzioni. Monsignori i vescovi di Salerno, di Noia, d'Aversa, d'Acerra, d'Ischia, di Bovino, di Lacedonia, di Castellamare, di Sorrento, di Reggio, d'Aquila, di Sora, d'Amalfi, d'Acerenza e Matera, di Bari, di Taranto, di Rossano, d'Isernia, di Calvi e Teano, di Sessa, di Caserta, di Capaccio Vallo, di Anglona e Tursi, di Sant'Angelo de' Lombardi, di Muro, di Cereto, di Sant'Angelo de' Goti, di Ruvo e di Bitonto, d'Oria, di Andria, d'Ugento e di Cajazzo, di Monopoli, di Melfi e di Rapolla, di Foggia hanno dovuto fuggire dalle loro sedi episcopali. Un decreto del signor Farini dell'8 gennaio 1861 ha messi tutti i loro beni sotto sequestro, cosa che equivale ad una confisca. Molti vescovi toscani sono minacciati ed inquietati. S. E. il cardinale Riario Sforza arcivescovo di Napoli e Capo brigante, per parlare il linguaggio dell'Opinione del 7 agosto 1860, è stato due volte espulso dalla sua diocesi, così monsignor Felice Cantimorri vescovo di Parma10. L’arcivescovo d'Avellino è pure da molto tempo in esiglio; egli fu arrestato a Napoli il 21 febbraio 1861. S. E. il cardinale de Angelis arcivescovo di Fermo, arre­stato il 28 settembre 1860 e condotto a Torino, è in prigione da due anni, senza processo, né condanna, ma non senza calunnie. Monsignor l'arcivescovo di Torino è morto in esi­glio. Questa lista di proscrizione è stata pubblicata dal gior­nale il Piemonte di Torino, nel passato mese di maggio, e nell'Armonia del 18 gennaio 1860. Il gran delitto dei colpe­voli è di non aver cantato: come si dovrebbe dire, volendo parlare il gergo di questo felice regno d'Italia.

L’Adriatico di Ravenna del 21 giugno 1860 annunciava l'arresto di due arcipreti di Gatteo e di Longiano don Pietro Pedrelli e don Cristoforo Andreucci per non aver voluto can­tare il Te Deum. Il 20 luglio 1860 si arrestava per la medesi­ma causa don Savore, curato di Casale, nella diocesi di Lodi. Qualche giorno dopo lo si condannò a sei mesi di carcere e 300 franchi di multa per aver turbato l'ordine pubblico.

Nei primi giorni di novembre del medesimo anno, monsignor Pietro Cilento arcivescovo di Rossano, nella Calabria citeriore, fu assalito nel suo palazzo da 200 uomi­ni con alla testa un commissario di polizia per aver difesi i diritti temporali della Santa Sede in una circolare del 17 ottobre precedente, pubblicata nellVlrmoma del 28 novem­bre. Fu condotto a Cosenza ove fu tenuto in carcere senza che potesse comunicare con alcun diocesano.

Nello stesso mese di novembre fu arrestato ancora l'arcivescovo d'Urbino per aver pubblicato nella sua diocesi la Bolla di scomunica maggiore contro gli invasori dei beni della Chiesa: fu condotto a Pesaro nel convento di sant'Agostino e vi fu guardato dai soldati.

Dopo la conquista delle Due Sicilie fatta dalle bande garibaldine pei tradimenti dei generali napoletani, si fece in tutto il regno una odiosa persecuzione a tutti i preti ed i vescovi rimasti fedeli al loro re ed alla patria. Citeremo qui qualche fatto solamente. In Sicilia il padre de Cesare, abbate del celebre convento di Monte Vergine, fu assalito da Garibaldi che gli tirò molti colpi di fucile e lo ferì nella testa: è quasi un miracolo che non sia morto. Monsignor Papardo, coadiutore dell'Arcivescovo di Messina, avendo rifiutato di sottomettersi alle esigenze di Garibaldi, fu giu­dicato da un consiglio di guerra e condannato al bando. Negli Abruzzi molti preti furono consegnati ai consigli di guerra che ne fucilarono alcuni, ed altri fecero custodire in carcere. - Monsignor Filippi vescovo d'Aquila fu obbli­gato a sottrarsi colla fuga alle continue persecuzioni degli unitarii. - Monsignor d'Avanzo vescovo di Castellaneta fu minacciato nella sua città vescovile da rivoluzionarii stra­nieri; ma siccome gli abitanti gli erano tutti affezionati, i garibaldini non osarono molestarlo, ed attesero una occa­sione favorevole che non tardò a presentarsi. Un giorno che il prelato s'era posto in viaggio per andare a visitare due altre città della sua diocesi, Calvi e Teano, alcuni gari­baldini si nascosero a 16 miglia da Castellaneta, vicino ad un villaggio chiamato Gioja, e gli tirarono quattro colpi di fucile a quindici passi di distanza. Due palle gli traversaro­no il corpo a mezzo del petto, un'altra gli venne nella direzione del cuore, la quarta fallì ed egli deve la sua salu­te alla croce vescovile che portava nel petto. Ferito grave­mente il vescovo si recò fino al villaggio di Gioja per avervi un qualche soccorso, ma i briganti anche lì vennero ad assalirlo, ed egli fu costretto di rifugiarsi ad Avella presso l'arciprete di quella città.

Qui chiudiamo le nostre citazioni. Noi potremmo riem­pirne molti volumi, ma non è il numero che faccia le ini­quità; ci basta d'aver citato qualche fatto ed attendiamo i prossimi avvenimenti che ci prepara la rivoluzione. Il Re d'Italia a Roma portando una mano sacrilega sul Pontefice supremo, e salendo in Campidoglio, ci mostrerà in un modo anche più evidente l'odiosa ipocrisia di quelle paro­le Chiesa libera in libero stato. Ma abbiamo fiducia, la Chiesa è la lotta poiché è la Croce, e la Croce è la libertà. Si può ben soggiogarla per un poco, ma schiacciarla non mai: Dio non si schiaccia! !



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CAPITOLO OTTAVO
Quegli assassini dei fratelli d'Italia sono un nuvolo di cavallette voraci


Se si dovesse credere alle parole dei rivoluzionarii, ed ai loro giornali,  tutti gli antichi governi  d'Italia erano detestabili per le loro tirannie, deplorabili per la mala amministrazione,  esecrabili  in  ogni  modo,  e  contrarii fino alla civilizzazione ed al progresso dei lumi. Volendo ascoltare la rivoluzione, essa è la sola che possa dare la pace, la felicità, la civilizzazione e la libertà, e che fuori di lei non c'è che barbarie, schiavitù, miserie e tenebre. Ma la rivoluzione non ha dunque mai versato il san­gue dei popoli per parlare in tal maniera? Essa dunque non ha rapito, imprigionato, esigliato, aggravato di favo­lose imposte, e suscitate guerre fratricide?... Non è dessa cheda 75 anni riempie le nazioni di disordine, innonda l'Italia meridionale di sangue e di rovine?... Non è dessa che sotto pretesto di libertà rovescia in Europa i sovrani legittimi, ora colla violenza, ora col tradimento, e che mette al loro posto, spesso intriganti e sempre oppresso­ri?... Non è dessa che confiscava poco fa in Francia i beni  dei  preti  e  degli  emigrati,  e  che confìsca nella Penisola i beni della Chiesa ed i troni dei Re?... Non è dessa che aggrava la Francia e l'Italia di debiti e d'im­poste d'ogni genere?... Non è dessa che ha fatte quelle odiose liste di proscrizione che fecero fremere tutto il mondo?... Non è dessa in fine che da quasi un secolo arma i popoli contro i popoli, e che per dominare da per tutto getta ovunque col suo giogo, i suoi intriganti ed i suoi regicidi, i suoi patiboli e le sue fucilazioni, la deso­lazione e la morte?...

E chi dunque potrebbe aver commessi tanti delitti, se non fosse lo spirito fatale del disordine che dopo Voltaire non ha cessato di soffiare sull'Europa l'odio a Dio ed ai Re?... Ieri lo spirito del disordine faceva in Francia strazio e rovina, oggi in Italia sparge sangue ed oppressione. Ieri i re gli facevano la guerra, oggi proclamano il suo diritto e la sua sovranità. Ieri si chiamava Robespierre o Marat, oggi si chiama Mazzini, Napoleone, Vittorio Emmanuele, Garibaldi; e questi nomi diversi che servono a distinguere i suoi diversi attributi, e le sue diverse fasi politiche, non ne formano realmente che un solo, il quale è scritto nella storia con lettere di sangue! Questo nome formidabile è la Rivoluzione!!!

Vediamo dunque ciò che la rivoluzione, che si chiama anche piemontesismo e mazzinianismo, abbia fatto in Italia dopo le conquiste e le annessioni. Noi non possiamo che indicare sommariamente i fatti, giacché gli avveni­menti si precipitano. La rivoluzione italiana è già sulla strada di Roma, e noi ci occuperemo d'avvilire anche un'ultima volta questo Governo di fucilatori prima che salga sul Campidoglio dove Mazzini lo crocifiggerà sulla croce del cattivo ladrone. Cominciamo dalle imposte: le cifre sono officiali.

Ecco un quadro istruttivo di qualcuna delle numerose imposte che aggravano oggi il regno di Napoli, confronta­te colle imposte che si pagavano sotto l'odioso, sotto il deplorabile governo dei Borboni.

Le cifre parlano tanto eloquentemente come i fatti stessi.

 

Sotto i Borboni Sotto i Piemontesi

 

Diritti sugli atti civili

e sui contratti

Franchi

 27.037.50

18.000.000

 

Diritti sugli

atti giudiziali

Franchi

799.000

2.800.000

 

Diritti di

successione

Franchi

Niente

6.000.000

 

Sigillo

 

Franchi

2.863.000

10.800.000

 

Atti

amministrativi

Franchi

Niente

834.600

 

TOTALE

 

Franchi

6.365.750

38.434.600

Daremo ancora un quadro comparativo sulla felicità dell'Italia rigenerata e annessa. Le cifre che presentiamo sono officiali, ma non riguardano che cinque imposte solamente.

jj

Sotto i Governi Legittimi Sotto il Piemonte
9.116.000 Lombardia 12.517.050
2.800.000 Toscana 7.946.000
1.176.000 Parma 2.248.650
945.000 Modena 2.676.600
1.828.961 Romagne 4.655.850
2.320.700 Marche ed Umbria 6.358.100
6.335.750 DueSicilie 39.721.600
Fr.24.522.411 Fr.76.123.850

 

II numerario della banca di Napoli, che il 27 agosto 1860 ascendeva a 19.316.295 ducati, il 27 settembre del medesimo anno non era che di 10.930.811 ducati. Il 28 gennaio 1861 discendeva a 7.900.115 ducati, ed il 2 aprile seguente non era più che di 6,983.724 ducati (Segretariato generale delle finanze napoletane, p. 16, Napoli 1861). Non v'è città in Italia in cui i piemontesi abbiano tanto rubato quanto a Napoli, ed in cui i pubblici tesori siano stati tanto spudoratamente vuotati: fino i conventi sono stati messi a ruba da questo nuvolo di cavallette voraci giunte dal regno subalpino.

Ecco quanto basta per le imposte e le finanze; passiamo ora agli arresti, e citiamo un rapporto ufficiale sulle prigio­ni nel regno delle Due Sicilie: è del 27 febbraio 1862. Fu pubblicato da tutti i giornali anti-piemontesi d'Europa, e la sua autenticità non è stata né negata, né posta in dubbio

A quest'epoca v'erano nelle prigioni e nei forti di Napoli 12.000 detenuti politici, ed in mezzo a questi, 4.000 donne la maggior parte che davano ancora il latte ai loro teneri figli. Nelle 16 provincie del regno i detenuti politici sommavano a 47.700. Durante i soli tre primi mesi di quest'anno, la polizia di Napoli, puramente, ha fatte 1511 visite domiciliari. Ed il Piemonte osa dire che è stato chiamato dai voti delle popolazioni italiane! Dopo la guerra del 1859 si può fare ammontare certamente in tutta l'Italia a 500.000 il numero dei detenuti politici. Mai non si prese tanto giuoco della libertà dei popoli, se non forse ai tempi di Robespierre! Mai un re Cristiano non ha cosi strascinata la sua corona ed il suo scettro nel sangue e nella polvere.

Che se noi volessimo parlare del come si tenessero nelle carceri quei miseri detenuti, ognuno si ritrarrebbe con orro­re alla vista d'un quadro così odioso e ributtante. Gli assassi­ni sono più fortunati, perché possono passeggiare dall'una estremità all'altra dell'Italia senza essere molestati dalla poli­zia piemontese che però li conosce tutti, diceva il 12 novembre 1861 L’Opinione giornale ministeriale di Torino.

Nello scorso mese di giugno, dicevano i giornali di Napoli, le prigioni di Campobasso, Avellino, Salerno, Santa Maria e Capua, rigurgitavano talmente di prigionie­ri, che il tifo vi faceva un'orrenda strage.

Quanto al numero degli spatriati ed esigliati italiani, è talmente grande, che se ne incontrano migliaia in quasi tutte le grandi città d'Europa, ma principalmente in Francia, in Inghilterra, in Austria ed a Roma.

Ma il Piemonte non contento di reprimere lo slancio nazionale nel regno delle Due Sicilie cogli imprigiona­menti arbitrarii e gli esilii, ha voluto ancora consolidare la sua unità con un terrore terribile. Dopo il rapporto ufficiale del 27 febbraio, che noi abbiamo citato più sopra, dice, e lo conferma una lettera del Barone Antonio Valerio letta nel Parlamento inglese, che 15.665 persone, uomini, donne e fanciulli sono state fucilate nel 1861 come bri­ganti, o come persone amiche dei medesimi. Sono state mitragliate le popolazioni insorte di dieci città. Diecinove città o paesi sono stati saccheggiati e poi incendiati come per lasciare alla posterità un infame ricordo dell'odioso brigantaggio dei Cialdini, dei Pinelli, dei Fantoni, dei Virgilii e dei Fumel, carnefici vestiti da soldati, e figure­ranno nella storia come un monumento del passaggio della Rivoluzione in Italia e come un'infamia per gli ese­cutori.

Ecco il nome d'alcune delle città messe a ferro ed a fuoco nelle Due Sicilie dalla soldatesca piemontese diven­tata feroce come i suoi capi. - Popolazioni massacrate ad Ariano, a Frasso, a Paludi, a Monte Mileto, a Terrecuso, a Paopisi, a Sant'Antimo, ad Isernia. Il Giornale ufficiale di Napoli annunciava, il 6 dicembre 1861, l'ingresso delle truppe piemontesi a Trivigno, e diceva che s'erano fucilati quaranta insorgenti legittimisti. Questi pretesi insorgenti non erano che poveri disgraziati che il timore aveva fatti fuggire e che rientravano alle loro case sulla parola del sindaco della città. Gli Ungheresi, questi carnefici di Monte Falcione, furono incaricati di questa orribile esecu­zione. - Città incendiate e distrutte: San Marco in Lamis Castelluccio incendiato per ordine d'un certo Benzoni capitano al 42° di linea; Ponte Landolfo, città di 5000 abi­tanti, e Casalduni di 4000 anime, arse tutte e due per ordine di Cialdini; Crotonei, Gioja, Viesti, Spinelli, Rignano, Vico di Palma incendiate per ordine di Pinelli. Piedimonte, Barile, Campo di Chiaro, Guardia-Regia, Monte Falcione, Auletta ove le coorti piemontesi ebre di sangue penetravano nelle città condotte da un capo che armato d'un revolver faceva fuoco su tutti quelli che gli indicavano per reazionarii. A Ponte Landolfo e Casalduni quasi tutti gli abitanti perirono nelle fiamme!!! E la terra non s'è aperta per inghiottire tali mostri?... E non solo i Piemontesi hanno bruciate le città, ma ben anche le case di campagna e le capanne che potevano supporre servis­sero d'asilo ai rivoltosi. Era proibito, sotto pena di morte, ai paesani d'uscir di casa dopo il tramonto del sole. I sac­cheggi, le violazioni ed i sacrilegi hanno preceduto ovun-que i massacri e le distruzioni; e le popolazioni piene di disastri e di terrore assistevano a questi orribili spettacoli senza opporsi né fuggire. E centinaia, e migliaia di intiere famiglie si vedevano intanto ridotte ad errare nei campi senza pane e senza tetto.

Quanto alle fucilazioni vi sono dei casi così orrendi che la posterità rifiuterà di crederli, e che la storia non rac­conterà che esitando, e solo perché appoggiata a docu­menti irrefragabili. Faremo solamente due o tre citazioni: un giorno gli annali diranno i particolari di questa odiosa conquista.

L’Osservatore romano del mese d'aprile passato contiene una lettera di Napoli del 9 del medesimo mese: noi ne tradurremo fedelmente i passi principali. "Il Governo pie­montese che si vede presto costretto a dover abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro ed a fuoco. Mi si comunicano cinque lettere dalla Capitanata, dalla Basilicata e dalla Terra di Bari. La descrizione ch'es­se fanno della situazione di quelle infelici provincie fa veramente male al cuore. Esse ci offrono il doloroso qua­dro delle esecuzioni capitali fatte dal consiglio di guerra in virtù dei proclami di Fantoni e di Fumel: raccolti incen­diati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I Piemontesi adoperarono tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, finalmente arrivarono alle fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fan­ciulli. Ascoltate questo racconto. A Trani il comandante piemontese fece affìggere il proclama feroce di Fantoni, e dopo fatto venire il capitano della guardia nazionale gli disse in tono di minaccia: M'occorrono tre briganti da far fucilare. - Dove li prenderò io? rispose il capitano. -Questo non mi riguarda, riprese il comandante: bisogna che io dia un esempio onde il proclama che ho comunica­to al pubblico non sia preso per una vana minaccia. Il capitano ricusò e partì, ma poi trovò alcuni italianissimi che per entrare nella grazia del comandante gli presenta­rono tre poveri paesani cui fu trovato in dosso un poco di pane, e che per questo vennero accusati come conniventi ai briganti. Che siano fucilati, gridò il comandante! E que­sti tre infelici furono fucilati. Bisognava un esempio per ispaventare le popolazioni, ecco come fu dato!".

Nel medesimo mese di aprile passato, il maggior Fumel, questo feroce proconsole piemontese, fece arrestare nove persone a Sarracena, comune del distretto dì Castrovillari; dopo averli fatti legare coi due piedi in terra, ordinò ai suoi soldati di tirare. I cadaveri di quelle infelici vittime della barbarie piemontese restarono privi di sepoltura per sette giorni ed esposti come oggetto d'or­rore e di spavento. Questa esecuzione è raccontata con molti dettagli nel Difensore del 10 aprile ed in tutti i gior­nali di Napoli.

L’Osservatore napoletano, parlando delle sanguinose ese­cuzioni di Policastro, pubblicò un Memorandum datato da questa città il 20 aprile 1862, in cui è detto che Vincenzo Minelli dell'età di 40 anni, vignaiuolo di Policastro, viveva esclusivamente occupato di lavori di campagna in mezzo a numerosa famiglia composta di sua moglie e dodici figli, quasi tutti in giovane età: fu accusato come connivente con altri abitanti sospetti di Borbonismo e di Papismo. Dietro questa denunzia verbale e nel corto spazio di due ore, Minelli fu arrestato e fucilato con altre tre persone indicate dai denunciatori. Questo successe il 3 aprile, e l'esecuzione ebbe luogo sulla rocca di san Francesco. Ecco il nome dei tre disgraziati compagni del Minelli. Domenico Scandale soprannominato Nicolo Matteo, mulattiere, di 33 anni; Domenico la Rosa soprannominato Grampillo, calzolaio, di 22 anni, e Francesco Critozzo, mercante, di 60 anni. Quest'atrocità ispirò un tale orrore in tutta la città che le persone oneste s'affrettarono di lasciare i loro focolari abbandonando quanto possedevano in balia delle truppe. Tutte le preghiere, tutte le istanze fatte per ottenere una sospensione di 24 ore onde dimo­strare l'innocenza degli accusati furono inutili: furono pure inutili le lagrime dei parenti, delle mogli, delle madri e dei figli di quei disgraziati. Il sacrifìzio fu consu­mato. Questa carnificina fu eseguita per ordine di certo capitano Bigotti del 17° di linea, che non contento d'arro­garsi un potere che il re stesso non ha sotto un governo costituzionale, volle ancora assistere a questo doloroso spettacolo. E siccome le scariche dei soldati non riusciva­no ad uccidere le vittime, egli ebbe il tristo coraggio di compiere l'uffizio di carnefice; lo si vide avanzare verso il Minelli colla sciabola alla mano, e spaccargli il cranio con un sol colpo. Dopo questo fatto glorioso, il Bigotti deside­roso di regolare la sua condotta con quella del triumviro Antonio, si stabilì a Policastro con una certa Maria, figlia di Santo, detta la Polisone, donna tanto crudele quanto scostumata, che aveva spinto la rabbia fino a far tagliare le lingue dei supplicanti. Ovunque gli insorti sono caduti nelle mani dei Piemontesi sono stati fucilati immediata­mente. In molti luoghi si sono veduti dei sacrifizii umani di quaranta e fin cinquanta prigionieri fucilati tutti in una volta. A Monte Cilfone, per esempio, su ottanta prigionie­ri quarantasette vennero immediatamente uccisi; a Monte Falcione cinquanta uomini rifugiati in una chiesa furono massacrati nella medesima dagli Ungheresi. Sembra che i soldati piemontesi uccidano per solo piacere di uccidere! Un pastore che dormiva nei campi presso Pozzuoli, è sor­preso da un ufficiale che comandava un distaccamento di truppe e che lo fa fucilare immediatamente. Un'altra volta alcune donne erano occupate a levare le erbe cattive da un campo seminato: arrivano dei soldati che scambiando queste donne per briganti fanno loro fuoco sopra ed ucci­dono così tutte quelle disgraziate. L'ufficiale che comanda­va quelle truppe non ricevette il più leggiero rimprovero. Questo successe nel maggio scorso a Vico, villaggio di Terra di Lavoro nel territorio di Tricola vicino a Santa Maria. Tutti questi fatti sono autentici: i giornali e gli opu­scoli che parlano del brigantaggio piemontese nelle Due Sicilie li hanno già pubblicati. Si sono anche detti nello stesso Parlamento di Torino, e nessuno li ha potuti mette­re in dubbio.

Citeremo intanto qualche ordine del giorno, qualche decreto e qualche proclama militare pubblicato dai feroci proconsoli di re Vittorio Emmanuele per estinguere il pre­teso brigantaggio nel regno delle Due Sicilie. Eccone alcuni dei più notevoli; essi hanno una tale impronta di ferocia che si crederebbero estratti dai sanguinosi annali del 1793.

Dispaccio telegrafico indirizzato da Cialdini al governa­tore di Molise. - "Fate pubblicare che io fucilo tutti i conta­dini armati che trovo. Ho già cominciato oggi". Decreto di P. Virgilii governatore di Ferrara in data del 2 novembre 1860. - "Tutti i comuni delle provincie, nei quali si sono manifestati e si manifesteranno dei movimenti reazionarii, sono dichiarati in istato d'assedio. In ogni comune si pro­cederà ad un disarmo generale rigoroso... I cittadini che non deporranno tutte le armi di qualunque natura siano, saranno subito puniti colle leggi militari da un consiglio di guerra. Gli attruppamenti saranno dispersi colla forza. I reazionarii presi colle armi alla mano saranno fucilati... quelli che spargeranno notizie allarmanti saranno conside­rati come reazionarii e puniti militarmente".

Ordine del giorno di Pinelli in data d'Ascoli 3 febbraio 1861. "Soldati... Siate inesorabili come il destino. Con tali nemici la pietà è un delitto. Noi schiaccieremo questo prete Vampiro, non Vicario di Cristo, ma di Satana; lo faremo scomparire. Purificheremo col ferro e col fuoco le contrade infettate dalla sua bava immonda".

Proclama del cavalier Galateri comandante militare della provincia di Teramo. - "Io vengo per difendere l’umanità, la proprietà, e sterminare il brigantaggio. Buono coi buoni, sarò inesorabile e terribile coi briganti... Chiunque darà asilo ad un brigante sarà fucilato senza riguardo all'età, al sesso od alla condizione: la stessa sorte toccherà alle spie. Chiunque conoscendo i passi od i nascondigli dei briganti, non li denunzierà, o non pre­sterà aiuto alla forza pubblica essendone richiesto, avrà saccheggiata ed incendiata la casa. Quelli che pubbliche­ranno notizie false od allarmanti saranno severamente puniti: come la punizione seguirà il fallo, così la ricom­pensa seguirà le buone azioni. Io sono uomo di parola". Questo proclama è controfirmato da un certo Polacchi sin­daco di Teramo.

Ordinanza del tenente colonnello Fantoni comandante un distaccamento dell'8° reggimento di linea di guarni­gione a Lucera (Capitanata) 9 febbraio 1862. - "Visti gli ordini trasmessi dal Prefetto della provincia aventi per iscopo di giungere con tutti i mezzi creduti efficaci alla pronta distruzione del brigantaggio, ordino: 1°. D'ora in avanti nessuno potrà più penetrare, neanche a piedi, nelle foreste di Dragonaro, di Sant'Agata, di Selva Nera, di Gargano, di Santa Maria, di Pietra, di Motta, di Volturara, di Volturino, di San Marco-la-Catola, di Celenza, di Carlentino, di Bicari, di Vestrucella, e di Caserotte. 2°. Ciascun proprietario, affittaiuolo o castaido sarà obbligato subito dopo la pubblicazione del presente avviso di far ritirare dalle dette foreste tutti i lavoranti, i pastori e quel­li tutti che potessero trovarvisi, come pure tutte le man­drie; i suddetti saranno egualmente obbligati di atterrare tutte le capanne che vi sono state costrutte. 3°. D'ora innanzi nessuno potrà trasportare nelle contrade vicine alcun comestibile per l'uso dei contadini, e questi non potranno tenere presso di sé che la quantità di viveri necessarii pel mantenimento d'una sola giornata, per ciascuna persona della famiglia. 4°. I contravventori al pre­sente ordine (esecutorio due giorni dopo la sua pubblica­zione) saranno trattati come briganti, e come tali fucilati senza nessuna eccezione di luoghi, di tempi e di persone. Pubblicando il presente ordine, il sottoscritto invita i pro­prietarii a darne subito cognizione alle persone sue dipendenti, affinchè queste possano evitare i rigori di cui sono minacciate, avvertendole nello stesso tempo che il Governo sarà inesorabile nella loro applicazione".

Avviso del maggior Fumel in data di Ciro 12 febbraio 1862. - "II sottoscritto incaricato dalla distruzione del bri­gantaggio dichiara che tutti quelli che daranno asilo ai briganti, prowederanno alla loro sussistenza, loro preste­ranno aiuto e soccorso, li vedranno, o conosceranno sola­mente il loro rifugio senza avvertirne immediatamente l'autorità civile e militare saranno fucilati senza dilazione. Per la custodia delle mandrie i pastori sono invitati a formare parecchi centri con una forza armata sufficiente perché in caso d'attacco la scusa di forza maggiore non sarà ammes­sa. Nello spazio di tre giorni tutte le capanne devono esse­re scoperte e le loro finestre murate. Passato questo tempo, saranno incendiate, e gli animali che non saranno custoditi da una forza sufficiente saranno distrutti. È for-malmente proibito il portare pane o viveri di qualunque natura fuori del proprio comune. I contravventori a que­st'ordine saranno considerati come complici dei briganti. Provvisoriamente, per la circostanza, i sindaci sono auto­rizzati ad accordare il permesso di portar le armi ai conta­dini sotto la responsabilità dei proprietarii che ne avranno fatta la domanda. L'esercizio della caccia è provvisoria­mente proibito, e non si potrà far fuoco che per avvertire l'autorità militare della presenza o della fuga dei briganti". "Ogni guardia nazionale è responsabile del territorio del proprio comune. Qualche proprietario di Longo-Becco ha promesso una ricompensa di 600 ducati per la distruzione della banda di Palma.

Il sottoscritto non intende vedere in questa circostanza, che due partiti: / briganti ed i contro briganti; dichiara anche che gli indifferenti saranno posti nella prima categoria, e che contro di essi saranno prese le misure più energiche, per­ché quando l'interesse generale domanda il loro concorso è un delitto il ricusarlo".

Avviso del medesimo maggior Fumel in data di Celico 1° marzo 1862.

"Il sottoscritto incaricato della distruzione del brigan­taggio promette una somma di 100 franchi per ogni bri­gante che gli sarà condotto morto o vivo. Un premio egua­le sarà accordato a qualunque brigante ucciderà uno de' suoi compagni, di più avrà salva la vita. I soldati sbandati che non si presenteranno nello spazio di quattro giorni saran­no considerati come briganti". - Questo Fumel è una spe­cie d'awenturiero mandato dal Piemonte nelle Calabrie per organizzarvi la guardia nazionale, che poi non ha organizzata. Egli s'è vendicato della sua sconfitta abban­donando il paese che attraversava al saccheggio, al fuoco, alle fucilazioni, ed alla rovina.

Avviso del maggior Martini, in data di Monte Sant'Angelo 16 settembre. - "Tutti i proprietarii, castaidi, pastori, campagnuoli, abbandoneranno le loro proprietà, i loro bestiami, le loro campagne, le loro industrie, tutto in fine, e si ritireranno in 24 ore nei paesi ove hanno domicilio. Quelli che non si conformeranno all'ordine presente saranno arrestati e condotti in prigione".

Ecco come i Piemontesi intendono la rigenerazione dell'Italia; ecco con quali mezzi si mantengono da due anni nel regno delle Due Sicilie. Ma se un giorno il popolo napoletano esaltato dalla sua miseria, o stanco d'un giogo che gli è odioso, arma il suo braccio contro i suoi oppressori, non si vede fin da questo momento che quel giorno sarà terribile, e che la guerra della rivoluzione sarà una spaventosa guerra di sterminio! Le reazioni d'un popolo sono sempre terribili quando hanno per iscopo l'indipendenza nazionale e la libertà. Si ricordino i Piemontesi del giorno nel quale il valoroso popolo spa-gnuolo domandò alla rivoluzione la libertà della sua patria! Ebbene si versò allora tanto sangue che la storia freme d'orrore innanzi a tali racconti! Il giogo dei Mori subalpini potrebbe finire nel regno delle Due Sicilie come finì nella Spagna quello dei Mori d'Africa!!!

Noi vorremmo parlare del voto popolare che ha segui­to le conquiste e le annessioni piemontesi; ma siamo obbligati di abbreviare il nostro racconto. Tutta l'Europa sa con quali artifizii, con quali mezzi frodolenti ed ignobi­li, e con quale terrore hanno preparati questi appelli deri­sorii alla volontà popolare. A Napoli, per esempio, hanno fatto scorrere nell'urna maggior quantità di bollettini affermativi, che non fossero in tutto gli elettori, e da per tutto hanno forzati i voti colla minaccia. I misteri dell'ur­na piemontese sono da molto tempo noti a tutti: lascia­moli dunque nel loro fango italianissimo, e passiamo al riconoscimento del Regno d'Italia, onta diplomatica unita a tante altre vergogne.



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CAPITOLO NONO
Smascherare il Piemonte


II riconoscimento del regno d'Italia non è solamente uno scandalo per l'Europa ed un'onta per la diplomazia, ma è di più un consacrare il diritto di rivolta: cercheremo provarlo.

Primieramente il riconoscimento del regno d'Italia è uno scandalo ed un'onta. E di fatti non è una vergogna vedere dei re sanzionare una rivoluzione che prima aveva­no caricata d'anatemi e di disprezzi? E non è anche un'on­ta il riconoscere un'opera concepita coll'intrigo, ordita coll'astuzia e consumata colla violenza e coi tradimenti? Ma chi d'or innanzi rispetterà i diritti mentre i Re non li rispettano! E se mai il popolo od un conquistatore toglierà ai Re riconoscitori lo scettro e la corona, in virtù di qual autorità difenderanno essi i loro diritti?...

Il riconoscimento del regno d'Italia è uno scandalo per l'Europa! Questo è il grido di tutti gli uomini onesti. Ed è inoltre un'onta per la diplomazia! Cosa si direbbe d'un tri­bunale che in vece di punire il ladro, lo spergiuro e l'assas­sino, riconoscesse con giudizio solenne il fatto compiuto, accogliesse con simpatie il colpevole e gli rendesse gli onori che solo si devono agli uomini onesti? Sarebbe forse più colpevole il rubare una moneta d'argento che un regno, o l'assassinare un uomo più che il massacrarne delle migliaia?... La coscienza rifugge da tali idee, e la penna non ha espressioni abbastanza energiche per isvergognare tali attentati!

Il riconoscimento del regno d'Italia è un'iniquità. Sovrani deboli ed inoffensivi, in pace con tutte le Potenze d'Europa, sono stati odiosamente attaccati nei loro diritti e nei loro poteri! Sono stati oltraggiati con una perseve­ranza infernale nel loro onore come uomini e come sovra­ni; con tradimenti si è sordamente minato il loro trono, si è insultato e calunniato il loro Governo, si sono invasi i loro stati senza dichiarazione di guerra, si sono date delle battaglie, si sono bombardati nel loro ultimo asilo, infine circondati dalle mine fatte da' loro nemici, sono stati costretti ad andare a vivere poveri ma gloriosi nell'esiglio! Un prete ed una donna sono stati attaccati e spogliati in eguai modo! E tutto questo fu fatto per creare un regno d'Italia, e sanguinose bande d'assassini hanno prestato il loro concorso a quest'opere d'iniquità! Tutto questo dice la storia, non è né più né meno dell'orribile fatto compiu­to solennemente riconosciuto dall'Europa.

Noi abbiamo dunque ragione di dire: il riconoscimento del regno d'Italia è una profonda iniquità! E se noi volessi­mo essere severi nel nostro giudizio potremmo dire che v'è fino una complicità di delitto.

Il riconoscimento del regno d'Italia è una consecrazione imprudente del diritto di rivolta. E diffatti la rivoluzione italiana non è essa nel suo principio, ne' suoi mezzi e nel suo scopo una tenebrosa opera d'odio e di disordine, nella quale le mene de' traditori si uniscono nella rivolta a quel­le degli stranieri tanto per proclamare la repubblica quan­to per acclamare il regno di Piemonte? Ma se gli Italiani hanno il diritto di porre in disordine la loro patria e di detronizzare i loro legittimi sovrani a profìtto della casa di Savoia, se loro è permesso di disfare colle armi quanto hanno fatto i secoli ed i trattati, ov'è il diritto dei re? Ov'è l'ordine e la giustizia, queste due basi fondamentali di tutta la società?... Si guardino bene i sovrani! Se il diritto della rivolta, questo diritto che quasi tutti in Francia ed in Italia hanno riconosciuto, è vero, il loro diritto non è più che una menzogna dalla quale i popoli devono cercare d'affrancarsi, come s'affranca da una servitù o da un giogo: questa è la logica fatale dei riconoscimenti.

È vero che il Principe Gortschakoff dice in una sua cir­colare del 6/18 agosto scorso, ove cerca di spiegare il rico­noscimento, che non intende né di sollevare né di risolvere la questione di diritto. Ma non è un sollevare e risolvere la que­stione, non è un consecrare il diritto della rivolta "il, giudi­car utile di mantenere e di fortificare Torino sul terreno dell'ordi­ne sociale, non rifiutando il suo appoggio morale al Governo ed alla maggioranza illuminata d'un paese pel quale si dichiara avere molta benevolenza e simpatia1?" E poiché si vuoi ricono­scere "che non è solamente una questione di diritto che si combatte oggidì, ma sibbene il principio monarchico e l'ordine sociale che lottano contro l'anarchia rivoluziona­ria" diteci chi fece quest'anarchia rivoluzionaria? Non è il Piemonte, che per soddisfare la sua ambizione, e quella de' suoi compiici, ha distrutto il principio monarchico e l'ordine sociale in Italia? E con qual mezzo? Con tutto quello che hanno di più vile e di più odioso gli intrighi, i delitti, i tradimenti e gli assassinii.

Il riconoscimento del regno d'Italia, diciamolo dunque altamente, non è solamente una consecrazione impruden­te del diritto di rivolta, non è solamente una iniquità diplomatica: è uno scandalo ed una vergogna per l'Europa: essa ne riceverà tosto o tardi la sua punizione.

Ma per dare più forza al nostro giudizio, diremo qui come si giudicavano or sono appena due anni, a Berlino ed a Pietroburgo la politica rivoluzionaria del Piemonte, i suoi intrighi, le sue conquiste, le annessioni e le sue guerre per­fide ed ingiuste. Ecco una nota diretta da Coblenza il 13 otto­bre 1860 dal Barone Schleinitz ministro degli affari esteri al Conte Brassier di Saint-Simon ministro del re di Prussia pres­so la Corte di Torino. È una protesta nobile ed energica con­tro l'invasione compiuta dalle truppe piemontesi sugli stati pontifici e sul regno di Napoli, contro quel medesimo regno d'Italia che il Gabinetto di Berlino poi riconobbe.

"Signor conte, il Governo di S. M. il Re di Sardegna comunicandoci col mezzo del suo ministro a Berlino il Memorandum del 12 settembre sembra volerci invitare ad esprimere l'impressione che gli ultimi suoi atti hanno pro­dotto nel Gabinetto di S. A. il Principe Reggente.

Vostra Eccellenza saprà ben apprezzare i motivi che ci condussero a ritardare fino ad oggi questa spiegazione. Da una parte si sa bene che noi vogliamo mantenere i buoni rapporti che esistono col Gabinetto di Torino, ma d'altra parte le regole della nostra fondamentale politica ci sono troppo presenti per farci capire la divergenza dei principii che seguiamo noi e quelli della politica di Vittorio Emmanuele. Ma in vista del progresso sempre più rapido degli avvenimenti, noi non possiamo prolungare più a lungo questo silenzio che potrebbe dar luogo a spia­cevoli mal intese. È dunque d'ordine di S. A. R. il Principe Reggente, che per prevenire erronee apprezziazioni, vi espongo senza riserva il modo con cui furono da noi veduti gli ultimi atti del Governo Sardo, ed i principii svi­luppati nel surriferito Memorandum.

Tutti gli argomenti di questo fatto tendono al principio del diritto assoluto delle nazionalità. Noi siamo certa­mente molto lontani dal negare l'alto valore dell'idea nazionale. Questa anzi è in Prussia e in tutta la Germania l'idea più efficace e più possente della forza nazionale. Ma il nostro Governo quantunque attribuisca al principio di nazionalità la massima importanza, non può trovarvi la giustificazione d'una politica che rinuncierebbe al rispetto dovuto al principio del diritto. Al contrario ben lungi dal riguardare come incompatibili questi due principii, pensa che è unicamente nella via legale delle riforme, e rispettando i diritti esistenti, che è permesso ad un Governo regolare di realizzare i voti legittimi delle nazioni.

Dopo il Memorandum sardo tutto dovrebbe cedere alle esigenze delle aspirazioni nazionali, ogni volta che l'opi­nione pubblica si fosse pronunciata in favore di queste aspirazioni, e le autorità esistenti non avrebbero che ad abdicare il loro potere avanti ad una simile manifestazione.

Or bene, una massima così diametralmente opposta alle regole più elementari del diritto delle genti mai non saprebbe trovare la sua applicazione senza i più gravi pericoli per il riposo dell'Italia, per l'equilibrio politico e la pace dell'Europa; sostenendola, si abbandona la via delle rifor­me per gettarsi in quella delle rivoluzioni.

Però, appoggiandosi al diritto assoluto della naziona­lità italiana, senza avere da allegare nessun'altra ragione, il Governo di S. M. il re di Sardegna ha domandato alla Santa Sede il rinvio delle sue truppe non italiane, e senza neanche aspettare il rifiuto di questa ha invasi gli stati pontificii di cui occupa anche al presente la maggior parte. Sotto questo stesso pretesto le insurrezioni che scoppiarono in seguito di questa invasione sono state sostenute; l'armata che il Sovrano Pontefice aveva formata per mantenere l'ordine pub­blico è stata attaccata e dispersa. E lungi dal fermarsi in que­sta via che egli segue col disprezzo del diritto internazionale, il Governo sardo da l'ordine alla sua armata di passare sopra diversi punti le frontiere del regno di Napoli collo scopo dichiarato di venire in soccorso dell'insurrezione ed occupare militarmente il paese.

Nel medesimo tempo le Camere piemontesi sono occu­pate di un nuovo progetto di legge tendente ad effettuare nuove annessioni in virtù del suffragio universale, e ad invi­tare così le popolazioni italiane a dichiarare formalmente il decadimento dei loro principi. E in questo modo che il Governo sardo, invocando i principii del non intervento in favore dell'Italia, non retrocede avanti alle infrazioni del principio medesimo nei rap­porti cogli altri Stati italiani. Chiamati a pronunciare il nostro parere su tali atti e principii, non possiamo che deplorarli profondamente e sinceramente, e crediamo compiere al nostro stretto dovere esprimendo nel modo più esplicito e più for­male la nostra disapprovazione e per questi principii, e per l'ap­plicazione che si credette bene di farne".

Vediamo intanto se il principe Gortschakoff è meno energico od esplicito nella sua Nota del 28 settembre (10 ottobre) 1860 al principe Gagarin, incaricato d'affari della Corte di Pietroburgo a Torino.

"Mio principe, dopo che i preliminari di Villafranca hanno messo un termine alla guerra d'Italia, una serie d'atti contrarii al diritto è stata compiuta nella Penisola e vi ha creato una situazione anormale di cui ora vediamo svilupparsi le conse­guenze. Dopo che questa situazione ha cominciato a svi­lupparsi, il Governo imperiale ha creduto che fosse suo dovere di chiamare l'attenzione del Governo sardo sulla responsabilità che pigliava sopra di sé correndo per una pericolo­sa carriera.

Noi gli abbiamo diretta una rimostranza amichevole nel momento in cui la rivoluzione di Sicilia cominciò a ricevere dal Piemonte un appoggio morale e materiale che gli permise poi di prendere le proporzioni che prese effettivamente in seguito. A nostro parere la questione esce dalle complicazioni locali. Essa tocca direttamente i principii ammessi come base delle relazioni internazionali, e tende a sfa­sciare le basi sulle quali si fonda l'autorità dei Governi stabiliti.

Noi abbiamo raccolti con profondo rammarico i motivi allegati dal Conte Cavour, che gli hanno impedito d'op­porre ostacoli più efficaci a queste mene, ed abbiamo preso atto de' suoi discorsi in questo proposito. Il Governo imperiale crede con questa attitudine d'aver dato una prova sincera del suo desiderio di voler stare in buoni rapporti colla Corte di Torino; ma crede ancora averlo abbastanza chia­ramente avvertito delle risoluzioni che Sua Maestà sarà costretto di prendere, qualora il Governo sardo si lasci stra­scinare da queste influenze, che pel sentimento del suo onore nazionale fino ad ora ha ripudiate.

Io  ho il dispiacere di dire che questa risoluzione non è stato possibile di più aggiornarla.

11       Governo sardo ha ordinato alle sue truppe, in mezzo allo stato della più perfetta pace, senza dichiarazione di guerra, e senza provocazione, di passare la frontiera romana, ed ha patteggiato apertamente colla rivoluzione
stabilita a Napoli. Egli ha sanzionato questi atti colla pre­senza delle truppe piemontesi e di altri funzionarii sardi che erano al servizio di S. M. Vittorio Emmanuele. In fine il Governo sardo compì questa serie di violazioni del diritto, annunziando all'Europa la sua intenzione di annettere al Piemonte territorii che appartengono a sovrani che ancora si trovano ne' loro Stati, e che difendono la loro
autorità contro i violenti attacchi della rivoluzione.

Con questi atti il Piemonte non ci permette più di con­siderarci come estranei ai movimenti che hanno messo in disordine tutta la Penisola. Egli prende sopra di sé la loro responsabilità, e si mette in opposizione coi diritti delle nazioni. La necessità ch'egli allega di combattere l'anarchia non lo giustifica, poiché egli si mette appunto sulla via della rivoluzione, ma non per arrestarne i progressi, bensì per raccoglierne i frutti. Tali pretesti non sono ammissibi­li. Qui non si tratta d'un interesse puramente italiano, ma d'un interesse generale comune a tutti i Governi. Si tratta di quelle leggi eterne, senza le quali non si può aver né pace, né sicurezza in Europa.

S. M. non trova possibile che la sua Legazione resti in un luogo ove può assistere ad atti che la sua coscienza e le sue convinzioni riprovano.

S. M. I. è costretta a mettere un termine alle funzioni che voi disimpegnate presso la Corte di Sardegna. E dun­que volontà del nostro augusto Monarca che, ricevendo queste istruzioni, domandiate i vostri passaporti, e che abbandoniate immediatamente Torino con tutto il perso­nale della Legazione...".

Che cosa si dovrà pensare della politica versatile di queste due Corti e di quella di Parigi ancora, che non fu meno esplicita e meno energica, e la cui Legazione lasciò pure Torino per ordine del proprio Governo?... Quanto si deve credere si è che in quelle tre Corti v'è come un parti­to politico che fa i suoi giuochi. L'Italia ne è come il tap­peto verde; nessuno però conosce ancora il pensiero dei giuocatori, ma è certo che un pensiero c'è. In caso noi non dobbiamo mai perdere di vista queste frasi d'un dispaccio di Thouvenel ambasciatore delle Tuilleries pres­so la Corte di Russia del 17 ottobre 1860: "Un giorno l'Italia, stanca delle rivolte e dei disordini che la sua imprudenza avrà provocati, accetterà dalle mani dell'Europa come un benefi­zio quello che altra volta le parve una violenza". Quale è que­sto benefizio che ora pare una violenza? Certo non è l'u­nità italiana, né meno ancora la ristorazione dei sovrani detronizzati. E l'altra frase dello stesso ministro tolta da un dispaccio del 28 settembre del medesimo anno: La sag­gezza consiglia alle Potenze di non mischiarsi attivamente negli affari d'Italia, se non quando la Penisola, stanca delle sue agita­zioni, conoscerà il bisogno di ricorrere all'Europa. Con una sola parola si possono dunque spiegare i riconoscimenti del Nord: questa parola è una commedia! Però questa comme­dia potrebbe volgersi in tragedia, e gli intrighi giovare al pugnale di Mazzini... Non si pigliano mai impunemente a giuoco la giustizia, il diritto e l'onore.

Il nostro compito è finito. Abbiamo voluto smascherare il Piemonte. Per un francese era un diritto, per un cattoli­co un dovere. Ma c'è un uomo ancora di cui noi vorrem­mo smascherare i progetti, prima che la sua ambizione metta in fuoco l'Europa: questo noi lo faremo, se pure gli avvenimenti, precipitandosi, non preverranno la nostra penna; imperocché se tace quegli che deve parlare, allora, come dice il grande Apostolo,  grideranno le pietre!

31 agosto 1862

Fine.

 

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[1] Noi non abbiamo il pensiero di nominare ad uno ad uno tutti quelli che colle rivoluzioni si sono straordinariamente e misteriosamene arricchiti dal 1789 in poi: una semplice nota non basterebbe; occorrerebbe a tal uopo per noi un immenso volume in - folio. Noi non parleremo dunque che di alcuni italianissimi più conosciuti per essere grandi patrioti.

E dapprima il signor Farini, un ex dottore in medicina a Bologna ed a Torino, aveva una modestissima fortuna nel 1859. Vittorio Emmanuele, nominandolo ministro segretario di Stato dell'Interno, Conte e gran Cordone de' santi Maurizio e Lazzaro, gli accordava una pensione di 30.000 lire come ricompensa nazionale per gli eminenti servigi che questo grande cittadino aveva resi alla sua patria. S. E. Farini ricevette di più il famoso Collare dell'Annunciata che non si da che ai principi del sangue ed ai grandi personaggi. Una cosa assai particola­re poi si è questa, che quegli che lo riceve deve giurare sui santi Vangeli di difendere sempre la Santa Sede. Inoltre il signor Conte Farini era Governatore di Modena allorché il palazzo di S. A. R. il Duca Francesco V fu presso che messo al saccheggio: e la voce pubblica assicura, dietro anche testimonianze che n°n ammettono dubbio, che le lingerie, i vini, la cassa..., del Duca e molte altre cose sono passate nelle mani di S. E. Farini per essere probabilmente più tardi restituite al loro legittimo proprietario. Le lingerie di S. A. R. erano marcate colle cifre F. V. sormontate dalla corona ducale. La medesima voce pubblica assevera che certe cucitrici, i cui nomi sono noti a Modena, furono incaricate di cancellare le dette cifre, non lasciandovi che il solo F. iniziale di molte cose e di molti nomi in cielo, in terra, nell'inferno e nella Corte di giustìzia. Si aggiunge ancora che le signore Contesse Farini madre e figlia abbiano rimon­tato il loro guardaroba colla biancheria di S. A. R. l'infanta Maria Beatrice sorel­la del Duca di Modena. Una dismise d'un'Altezza Reale in bella tela fina solletica si fortemente lo spirito e l'epidermide, che a resistere occorre un coraggio più che italianissimo. La guardaroba del duca non conveniva alla corpulenza di Farini: fu Riccardi suo segretario e più tardi suo genero che se l'appropriò. Il vino non ha che una semplice etichetta, il denaro non ne ha: ciò nullameno il Sig. Farini il cui antico disinteresse è conosciutissimo, in certe gazzette fece pubbli­care che S. A. R. il Duca di Modena aveva preso tutto con sé, anche il vino, e che del suo palazzo non aveva lasciate che le quattro mura: probabilmente non avrà trovato un intraprenditore per levarle. Su questo proposito si devono vedere dei curiosi dettagli in un opuscolo intitolato: La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, di J. A. antico agente segreto del Conte Cavour. - Brusselles, 1861, pag. 7 e seguenti. — Quanto a noi siamo in grado di poter assicurare che S. A. R. il duca dì Modena non ha preso con sé che il vasellame, qualche docu­mento di famiglia, e le più preziose medaglie d'una collezione che apparteneva a S. A. R. appunto e non allo stato. Noi possiamo in pari tempo soggiungere che il Duca non ha preso con sé che la sua spada ed il suo onore, e che tutto il resto è passato nelle mani del dittatore modenese. Ecco dunque il signor Farini ex dottore, ministro, eccellenza, conte, decorato d'una quantità d'ordini, milio­nario, spergiuro e...!!!

Il sig. Bertani segretario di Garibaldi era, prima della spedizione in Sicilia del 1860, un semplice ufficiale sanitario a Genova che faceva le visite a un franco e cinquanta centesimi l'una. Oggi è colonnello dello stato maggiore, e la sua sostanza, secondo le proporzioni più moderate, non si può valutare minore di 14 milioni!! Non si conosce l'origine che di 4 milioni: ed ancora questa non affatto pura: sono la regalia che il signor Bertani esigeva dai banchieri Adami e Comp. di Livorno per aver loro fatta ottenere la concessione della strada ferrata che essi domandavano.

Basta qua per questi due uomini. Che se noi vogliamo parlare dei signori Conforti, Scialoja, Cadorna, Imbriani, Toffano, ed altri che comparvero a Napoli dopo l'arrivo di Garibaldi; del Barone Nicotera e dei 30.000 franchi che gli furono dati dal Barone Ricasoli per prezzo del silenzio che gli fu imposto riguardo all'affare delle bande garibaldine di Pontedera; del sig. Cipriani, que­sto fallito d'America, e del suo misterioso deficit di 30.000 franchi durante il tempo ch'egli era governatore delle Romagne per conto di Vittorio Emanuele; del sig. Riccardi e delle estorsioni da lui commesse a Modena; del conte Cantelli a Parma, e degli 80.000 franchi truffati; del sig. Buoncompagni a Firenze, e delle casse pubbliche vuotate come per incanto; se volessimo parlare di tutti questi italianissimi, e di altri molti ancora, si vedrebbe che le rivoluzioni, così fatali ai popoli, sono in generale utilissime agl'intriganti.

Un altro personaggio, il Conte Cavour, non ha niente perduto nel dirigere il movimento della rivoluzione italiana. Figlio cadetto d'un ricevitore generale a Lione sotto il primo impero, non aveva nel 1848 che una mediocre fortuna; e frattanto egli è morto milionario nel 1861. È vero che si può dire che il Conte Cavour è stato intermediario pel matrimonio di S. A. R. la Principessa Clotilde con S. A. R. il Principe Rosso, e che per questo titolo egli ha ricevuto, a proposito dun affare di riso, un'enorme sensaleria.

Ma fra le altre cose egli ha messo le mani ancora in due o tre misteriosi affari che pure gli hanno recato considerevoli benefizii. E infatti a che servirebbe fare le rivoluzioni se non fossero utili a nessuno?... Povero popolo, tu sei pelato, bat­tuto, ed ancora per di più paghi lo scotto!

[2] Questa memoria in data del 12 maggio 1848 fu rimessa a lord Ponsomby ambasciatore della Corte d'Inghilterra a Vienna, ed inviata nello stesso giorno a lord Palmerston che era allora ministro degli affari esteri. - Vedere la Corrispondenza relativa agli affari d'Italia presentata al Parlamento inglese. - t. II, pag. 444.

[3] Si potrebbe tenere il medesimo linguaggio a questi poveri fanatici della reputa­la. Essi faranno sempre una follia a volersi ostinare, tentando d'imporre alla Erancia o ad altre nazioni essenzialmente monarchiche la loro sanguinosa e ridi­cola Repubblica. Il loro sistema di governo non può essere che il terrore e l'a­narchia, il patibolo in permanenza e la guerra civile nelle strade. Esempio il 1793 e il 1848. Essi potranno ghigliottinare la Francia intera, ma non la faranno mai repubblicana.

[4] Questa combinazione di cose è stata proposta solamente da pochi mesi dietro  parere di non so quale sapiente consigliatore. Ma questa volta è L’Indépendance  belge che pronuncia una simile combinazione. L’Indépendance belge è una grande  politica soprattutto pei fatti compiuti. Alcune cattive lingue pretendono che le  frasi del suo linguaggio diplomatico siano state pagate sul principio dal mini  stro degli affari esteri del Gabinetto delle Tuileries e in seguito dal Gabinetto di  Torino. Ed ecco perché forse si chiama Indépendance. Le medesime cattive lin  gue aggiungono che dopo il riconoscimento del Regno d'Italia per parte della  Russia, questo giornale abbia dovuto modificare la sua politica riguardo alla  Polonia. L'invito a ciò fare sarebbe partito da Torino i primi giorni dello scorso  mese di luglio. Per tutte queste ragioni non è quindi a stupirsi che L’Indépendance  belge abbia appoggiato il consiglio d'una confederazione danubiana presieduta  dall'Austria. Poveri lettori dei giornali italianissimi, come siete beffati, mentre  intanto si pigliano i vostri scudi!...

[5] La République frangaise et l'Italie per Giulio Bastide - pag. 95, 96; 1858.

1 Dispaccio del 17 gennaio 1849 ai rappresentanti della Corte di Vienna presso le Corti di Pietroburgo e di Berlino.

2 Nel mese di agosto del 1848 passando Carlo Alberto a Milano dopo aver concluso l'armistizio coll'Austria, il popolaccio mazziniano si scagliò contro di lui dichiarandolo traditore; e senza il coraggioso intervento dello storico Cantu, che fece scudo al re col suo corpo, egli sarebbe perito in mezzo alle bande di quegli assassini. Nel 1849 i repubblicani lombardi fecero fuoco anche sulla vinta armata piemontese.

3 Manifesto del'Gabinetto austriaco in data del 18 marzo 1849.

1 II filibustiere in casacca rossa gridava anche poco fa nel teatro di Palermo: "Viva il popolo dei vespri siciliani!... l'Italia spera che li rinnoverà se ve ne sarà dì bisogno!,, Avviso ai Francesi di Roma. Queste selvagge minaccie non serviran­no certo che a far ridere di pietà quei figli della Francia, che hanno vinto a corpo a corpo le prime armate del mondo; se la politica non li tradisce, basterà un semplice scudiscio per mettere in riga i massacratoli ed i loro eroi. I cavalieri del pugnale sono coraggiosi nell'ombra, o per assassinare i re a tradimento, del resto sarebbero ridicoli se non fossero odiosi.

Noi non siamo sorpresi di questo brutale appello al massacro. Garibaldi di Palermo non è quello stesso Garibaldi che nel 1849 aveva preparata l'imboscata di Porta Portese a Roma? Il sollevatore dei popoli di Sicilia ha egli mai cessato un momento d'insultare quei soldati medesimi a fianco de' quali ebbe l'onore di combattere nel 1859? I giornali democratici francesi innalzino pure questo set­tario; l'onestà pubblica lo disapproverà sempre. Si eriga pure e presto a Garibaldi il monumento di Calafatimi, ma vi si scriva sopra: All'eroe dei vespri romani, i traditori, i vili ed i massacratoli riconoscenti!!!

2 Indépendance belge non ha inventato ultimamente che il signor Luigi Veuillot aveva ricevuto dal Santo Padre il Cappello da Cardinale? E l’Indépendance della orazione non sosteneva che il re Carlo X diceva Messa? Questo prova due cose, l’astio dei rivoluzionari e la sciocchezza dei popoli che credono, come Parola del Vangelo, tutto quello che dicono certi giornali.

1 La battaglia di Waterloo si combattè il 19 giugno, e l'atto del Congresso di Vienna che restituiva le Legazioni alla Santa Sede è del 9 del medesimo mese.

2 Vedere la sua lettera a lord Castlereagh rappresentante d'Inghilterra al Congresso di Vienna in data del 13 dicembre 1814.

3 Congresso di Vienna in data 9 giugno 1815, articolo 104

4 Memorie di Guizot, tom. 2, pag. 446

5 Vedere la Presse di Parigi dell'8 marzo 1860, 1'' lndèpendance belge e il Journal des Débats di quell'epoca. - Eccone curioso estratto della Presse. "La città è in costernazione... quando il potere trema diventa terribile... il Re è assediato di supplicanti; ma è inesorabile... In questi tre giorni si sarà arrestata certo la metà di Napoli, questo non è favola ma rigorosa verità". Questa metà di Napoli si riduce a 10 persone nominate e litografate dal corrispondente della Presse. Sir Gladstone non aveva parlato che di 30.000 persone. Il Morning-Post meno esagerato li riduceva a 5.000, ed effettivamente non erano che una mezza dozzina. In tutto non vi furono a Napoli in quest'epoca che 27 arresti; tredici essendo poi stati messi in libertà, gli arrestati nell'8 marzo 1860 non rimasero che Quattordici. Noi sfidiamo a provarci il contrario.

A quell'epoca noi eravamo a Napoli e vedemmo da vicino le odiose trame tenta­te per rovesciare il trono di Francesco II, ed abbiamo la pretesa ancora di cono­scere quanto successe allora in quella città meglio di tutti i trombettieri del Piemontesismo. Due personaggi però ne sapevano più di noi intorno alla situa­zione di Napoli in allora, il barone Brénier, ed il Marchese di Villamarina, mini­stri di Francia e di Sardegna presso il Re delle Due Sicilie. Non parleremo in ultimo di quell'infame Liborio Romano che sa meglio d'ogni altro d'onde venis­sero, e come fossero sincere le corrispondenze che di là venivano spedite alle gazzette italianissime di Torino, Parigi, Bruxelles, Londra e Ginevra.

1 Sedutadel 2 aprile 1856

1 Si sa che fu una inglese, miss White, amica fanatica di Mazzini, quella che preparò a Genova la trista insurrezione del 29 giugno 1859, di cui si tentò il contraccolpo a Livorno, e che i cospiratori del Cagliari andarono a portare nel Regno di Napoli.  Governo piemontese fece un processo ai cospiratori; ma Mazzini alzò la voce per difenderli. VItalia e Popolo pubblicò una lettera scritta dal capo della rivoluzione ai magistrati della Corte d'appello a Genova, lettera umiliante pel ministero che la perseguitò vanamente: essa fu accettata. Mazzini accusava il Gabinetto di Torino d'avere una polìtica tortuosa e macchiavellica, e chiamava i ministri cospiratori e provocatori di rivolte, ed arrivava a dire: "II Governo piemontese ora è nemico, ora manipolatore dell'elemento rivoluzionario. Cospiratore diventare capo del movimento. Persecutore all'incontro  quando un tentativo fal­lito gli può far perdere la sua influenza sul partito od il favore dei Governi asso­
luti che anche ieri copriva d'insulti e di minaccie.

Si agita in Italia questa cospirazione monarchico-piemontese senza altro scopo che quello già indicato di appropriarsi ogni progetto della rivoluzione in caso di riuscita, ed intanto essa inganna ed intriga co' suoi viaggiatori ed i suoi agenti. I comitati monarchico-piemontesi esistono a Roma, a Bologna, a Firenze ed in ogni volta che teme che il partito italiano gli sfugga di mano, cospiratore finché
bisogni per cavar profitto d'una qualche illusione, per agitare gli spiriti, e per poter dire il giorno dopo, se le speranze si realizzavano, io ero dei vostri! E molte città del Lombardo-Veneto, e vi sono dei centri secondarii in altre città. Vi potrei nominare gli uomini, e parecchi deputati ancora che sono gli intermedia­rii fra i poveri deputati e gli uomini del governo. Questi intriganti spargono ovunque belle speranze per far nascere come prima del 1848 grande fiducia nella Casa di Savoja...

L'agitazione suscitata dagli uomini del Governo non è per noi che una piaga; questa toglie ad essi, e toglie a voi, giudici, se siete probi, il diritto di accusare e di punire... giacché non si fa che mettere in opera le reiterate insinuazioni del vostro Governo... da dieci anni". Cosa strana! I cospiratori del 29 giugno furo­no condannati, ma Mazzini era assolto. E qualche mese dopo, il 14 gennaio 1858, una rivelazione terribile si faceva a Parigi. La lettera ed il testamento d'Orsini, pubblicati dal Siede il 28 febbraio seguente arrecavano strane rivela­zioni. Capisca chi può! ^ L'abbozzo ne fu trovato nelle carte di Manin. -Vedere Mamn e l'Italia, 1859

2 nnnnnnnnnn

3 Era l'onorevole Delegato di Pesaro.

4 Ma che cosa s'è fatto a Roma sotto il Governo della Repubblica? Ascoltiamo il Conte di Montalembert nel suo Pio IX e lord Palmerston. "Prima, durante e dopo l'assedio di Roma, fu il pugnale l'anima ed il simbolo della pretesa libertà e nazionalità romana. La Repubblica romana nacque dal colpo di stile che uccise Rossi, da quello stile chiamato democratico e benedetto, e che fu condotto in trionfo per Roma disonorata. Durante questa Repubblica, l'assassinio fu l'espediente ordinario della setta per contenere le popolazioni col terrore. Preti, cittadini ed ufficiali furono le vittime di quell'espediente. Neanche un assassino fu arrestato né punito sotto la Repubblica; neanche il miserabile Zambianchi colonnello delle guardie di Finanza, che fece uccidere tanti innocenti nel suo quartiere di San Calisto, e che emulo di Carrier fece fucilare il curato della Minerva sotto i suoi occhi al termine d'una cena alla quale aveva obbligato quel venerabile prete d'intervenire. Dopo la presa di Roma, il giuramento di pugnalare quanti avessero mostrato gioia, o adesione all'armata francese fu rigorosamente osser­vato. Non è probabile che lord Palmerston voglia negare l'integrità dei consigli di guerra della Francia. Gli ordini del giorno dei generali Rostolan e Baraguay d'Hilliers sono là con molti documenti, per provare quanto vigore e vigilanza si sia dovuto adoperare perché i soldati francesi non cadessero sotto il ferro degli assassini". Ecco il regime che il primo Ministro d'Inghilterra, lord Palmerston, osava preferire al Governo pontificio. Ed è in favore del capo militare di questa Repubblica che lord Ellenborough scriveva a lord Brougham: "Io sono pronto come pari d'Inghilterra a mandare di qui delle armi a Garibaldi". È dunque ben implacabile l'odio dell'anglicanismo contro il Papa!

1 La storia di queste negoziazioni è esposta dalla Santa Sede in una memoria autentica pubblicata in seguito all'allocuzione pontificia del 22 gennaio 1855.

2 Vedere l'Ami de la religioni, tomo 148, pagina 76, 77 e 332.

3 Vedere la Gazzetta del popolo di quest'epoca, e l'Ami de la rehgion, tomo 149, pagina 247.

4 Vedere la circolare confidenziale dell'intendente d'Aosta ai sindaci della sua provincia; un'altra circolare del 21 ottobre 1853, nella quale il Conte Cavour esigeva con minacele la statistica dei conventi; l'altra nota del 27 ottobre anno medesimo che ordinava ai sindaci d'esercitare una sorveglianza continua sui curati, di osservare i loro discorsi e di far arrestare immediatamene i ministri del culto che dal pulpito parlassero dell'incarimento dei cereali.

5 Si possono vedere particolari più dettagliati nell'Eco di Bologna 7 agosto 1862.

6 E quello stesso Conforti deputato di Napoli che è stato compromesso in un affare di malversazione per la somma di 70 o 72000 ducati prelevati indebitamente sul pubblico Tesoro.

7 Vedere L’Armonìa del 1 luglio 1860, pag. 2, col. 3, ed il numero pure dell'8 luglio, pag. 1, col. 2, e quello pure del 19, pag. 4, col. 1 e 2, e l'altro finalmente del 20, pag. 4, col. 1 e 2.

8 Vedere L’Armonia del 3 luglio 1860, pag. 1, colonna 3.

9 Vedere XArmonìa dell'8 e 14 luglio 1860. Noi raccomandiamo la lettura degli strani Considerando che precedono la sentenza. Si troveranno nell'Armonia del 14 luglio, pagina seconda, colonna prima, seconda e terza.

10 Nel momento in cui scriviamo veniamo a sapere dai giornali che questo prelato fu condannato il 14 d'agosto a 200 franchi di multa.








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