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Ringraziamo la Redazione della rivista AGORA' per averci autorizzato a pubblicare questo articolo - a firma di Fernando Mainenti - su un eroe volutamente dimenticato dalla storiografia patria: il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco.

Sul sito della rivista https://www.editorialeagora.it potete scaricare questo ed altri interessanti articoli inerenti la storia del Sud e della Sicilia in particolare, in formato PDF.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Webm@ster - 7 agosto 2006
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Agorà è presente nelle edicole delle provincie di Catania, Siracusa e Ragusa.

L'altra storia


Un fiero avversario di Garibaldi in Sicilia

Il colonnello 

Ferdinando 

Beneventano 

del Bosco

 

di Fernando Mainenti


foto di Orazio Valenti



Il termine "Risorgimento" nasce alla fine del Settecento e stava ad indicare quel periodo della cultura e dell'arte che nel XVI secolo prese il nome di Rinascimento.

Dobbiamo a Vittorio Alfieri (1749 - 1803) un ampliamento del concetto, in quanto, il poeta interpretò il termine "Risorgimento" quale possibile e sperata rinascita della nazione Italia nel suo complesso: politico, storico, sociale e culturale. Con Alfieri irrompe nel pensiero dei primi anni dell'Ottocento, una forte tensione spirituale che si traduce in un irriducibile amore per la libertà dell'uomo sempre in lotta per la propria affermazione, al di fuori di ogni possibile compromesso. E lo stesso Alfieri dimostrò di essere il primo intellettuale veramente libero abbandonando il Piemonte che gli aveva dato i natali, poiché non sopportava più quella monarchia sabauda, reazionaria, conservatrice ed oppressiva, che reggeva lo Stato, preferendo vivere il resto della sua vita nella più colta e liberale Toscana.

Nei primi anni dell'Ottocento avvenne la fusione tra Risorgimento letterario e Risorgimento politico: un tema costante della cultura italiana nei primi decenni del secolo. Nacque spontaneo il confronto fra il glorioso passato dell'età classica, delle libertà comunali, del trionfo artistico del Cinquecento posti in relazione con la misera età presente, fatta di compromessi, di politica illiberale, di un frazionamento del Paese senza precedenti. Fiorì spontaneo, quindi, il pensiero della

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In alto: Il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco 

in una incisione dell'epoca.



rinascita di un passato glorioso in un'epoca nuova. In un secondo tempo venne a costruirsi il mito del Risorgimento politico, in quanto tutte le forze liberali dell'Italia ottocentesca si impadronirono del pensiero tendente ad indicare l'insieme dei processi politici, sociali e culturali messi in relazione all'indipendenza del Paese dalla subordinazione straniera, quella austriaca in particolare. Nei primi anni postunitari divampò la retorica del Risorgimento: le agiografie dei protagonisti Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, non si contarono. Sorsero monumenti, lapidi, si celebrarono discorsi, bandiere, medaglieri, corone d'alloro. Al nome dei protagonisti della rivoluzione vennero dedicati teatri, vie, piazze, ospedali, scuole; i fatti e i fenomeni risorgimentali furono deformati, travisati, dagli storici piemontesi che inventarono una retorica riconciliazione nazionale in seno alla quale scomparivano i contrasti, le differenze, e le diverse posizioni; furono falsamente documentate monumentali menzogne (come l'incontro di Teano), nascosti i crimini e gli errori gravissimi commessi dopo l'Unità d'Italia.

La conquista e la susseguente colonizzazione del libero Regno delle Due Sicilie venne celebrata con plebisciti - truffa di annessione, con finte elezioni manipolate da mafia e camorra, che si misero immediatamente al servizio degli aggressori piemontesi.

Per il Meridione, l'annessione del 1860 fu, nella   storia   d'Italia,   un   disastro   senza


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precedenti. Il Sud conobbe gli orrori di una repressione militare e poliziesca tragica. I suoi abitanti furono massacrati dai liberatori piemontesi; una percentuale enorme di cittadini fu costretta all'emigrazione in terre straniere; le industrie fiorenti creati dai Borbone furono smantellate e tramite un perverso sistema bancario tutte le risorse finanziarie del Sud furono confiscate dal Nord e servirono, in buona parte, al raddoppio della ferrovia del triangolo industriale Torino - Genova - Milano. In realtà l'Unità d'Italia fu un'annessione forzata. Da quel lontano 1860, gli storici partigiani si sono affannati a cancellare le tracce tragiche che i criminali di guerra piemontesi, i nazisti degli anni postunitari, lasciarono sul corpo dolorante del Meridione.

Per circa un secolo, i testi scolastici ci hanno propinato una storia del Risorgimento fatta di imprese eroiche, di bandiere, di trionfi militari, di medaglie al valore; hanno santificato e posto all'onore degli altari un Garibaldi, un Vittorio Emanuele, re Galantuomo e Padre della Patria (che non si peritò di spogliare il palazzo reale di Napoli rubando anche i beni personali dello sconfitto Francesco II), un Cavour tessitore con i suoi occhiali a stanghetta, tutto teso ad ordire la rete di corruzione che minò alle fondamenta il Regno delle Due Sicilie. Tutti santi, eroi e navigatori nell'Italia postunitaria, i Padri della Patria; e invece furono briganti ed assassini, politici corrotti, criminali di guerra, magistrati partigiani.

I meridionali furono massacrati: basti pensare agli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, dove i mercenari ungheresi con la coccarda azzurra dei Savoia sul petto, appoggiati dalla truppa piemontese -garibaldina, trucidarono centinaia di popolani fra cui quattro sacerdoti, donne, vecchi e bambini.

Eppure noi italiani abbiamo provato un forte senso di orrore dinanzi alle stragi naziste di Marzabotto, delle Fosse Ardeatine, e quanto altro negli anni drammatici della Seconda Guerra Mondiale. Ma abbiamo preferito accettare la filosofia delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo!

Così il mito dell'invincibile Garibaldi, dello eroe dei Due Mondi, ha attraversato indenne la nostra storia postunitaria, sempre celebrato ed osannato dagli ignoranti, dai mestatori politici e dai

pennivendoli piemontesi. L'aggressione al Regno delle Due Sicilie fu un colpo di Stato programmato e preparato minuziosamente da Cavour in piena combutta con la massoneria inglese. La spedizione dei Mille fu resa possibile grazie alle numerose fedi di credito che Cavour appoggiò al Banco di Napoli per corrompere uomini politici, generali, ammiragli, funzionari dello Stato di Francesco II; furono corrotti lo stesso Ministro di Polizia Liborio Romano e il Principe di Siracusa zio del sovrano. L'Inghilterra mise a disposizione di Garibaldi tre milioni di franchi francesi in piastre d'oro turche, equivalenti a parecchi milioni di dollari di oggi (così gli Inglesi politicamente si defilavano dall'avventura mercenaria dell'eroe, restando nell'ombra).

Gli storici concordano nel ritenere il costo in denaro che il governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele dovette sostenere per finanziare la campagna di aggressione al libero e sovrano Regno delle Due Sicilie, in tre milioni di ducati e di sei altri milioni appoggiati da Cavour al Banco di Napoli prima che Garibaldi toccasse il suolo del continente. Inoltre gli emissari piemontesi avevano già contrattato, per conto del governo sardo, un prestito di 4.800.000 ducati con l'interesse del dodici percento. Così furono reperiti i fondi per la gloriosa, futura annessione. Ma i pennivendoli piemontesi parlarono di una fortuna propizia e senza limiti di Garibaldi, affidando a tale favore del cielo le ragioni della riuscita dell'impresa dei Mille. Fu il potere del denaro e la forza devastante della corruzione, uniti alla complicità dell'Inghilterra e della mafia meridionale, a far crollare il Regno del Sud, non certamente la fede nel tricolore sabaudo né la causa dell'unità del Paese. L'interesse   inglese,   infatti,   non   era   più


In basso: Il Palazzo Beneventano
a Siracusa


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compatibile con la monarchia dei Borbone, che aveva tolto all'economia britannica l'appalto e lo sfruttamento delle zolfare di Sicilia, per cederlo alla Francia più competitiva in fatto di appalti e commesse.

Garibaldi conosceva bene questo retroscena politico - economico, ma doveva assumere il pieno ruolo "dell'eroe" imbattibile, del fulgido condottiero, del duce liberatore. Si limitò a biascicare versi, saturi di una retorica patriottarda ributtante: "Salve, o terra dei Vespri.

Il tuo destino è d'esser grande! Salve, o falange di gagliardi! O Mille guerrieri avventurosi! Invan l'invidia della canaglia vi dilagna. "

Con questo denaro Garibaldi passò "mazzette" a dignitari borbonici, generali ed ammiragli con il preciso scopo di ammorbidire la reazione dell'esercito borbonico (uno dei migliori d'Europa per addestramento, armamento e lealtà).

I più importanti giornali inglesi appoggiarono e propagandarono l'impresa garibaldina: il Daily News, Times, Morning Herald, Morning Post celebrarono a lungo l'eroe che si accingeva a liberare il Sud dalla barbarie borbonica. In appoggio a Garibaldi partirono da Genova la nave inglese Amsterdam con mille uomini, le navi americane Washington e Franklin (su quest'ultima Garibaldi attraversò lo Stretto di Messina sotto la protezione della bandiera americana). Sarebbe lungo elencare tutti gli altri vapori: Genovesi, Francesi, Inglesi che salparono da Genova verso la Sicilia. Con il denaro inglese e piemontese "l'eroe" riuscì a corrompere i due generali che guidavano le truppe borboniche in Sicilia: Landi e Lanza, comandante in capo, commissario straordinario dell'esercito con pieni poteri reali. Quando il generale Lanza assunse il comando dell'esercito il 15 maggio 1860, la forza borbonica in Sicilia contava: 29188 soldati, 906 ufficiali, 614 cavalli, 579 muli, 40 cannoni e 50 navi da guerra attrezzatissime e bene armate. Una forza quindi più che sufficiente per rispedire a mare Garibaldi ed i suoi mille avventurieri.

Venerdì, 11 maggio del 1860, l'eroe dei Due Mondi sbarca a Marsala protetto dalle navi inglesi che impediscono con la forza alle fregate borboniche di intervenire per contrastare l'aggressione. Posto piede sul territorio di Sicilia, Garibaldi lancia il famoso proclama, invitando i Siciliani a impugnare le armi! Ma i Marsalesi restarono indifferenti, si chiusero in casa, le vie e le piazze rimasero deserte, solo qualche curioso mostrò il viso frastornato fuori dalla porta. Lo stesso Garibaldi in un dispaccio inviato a Torino scrive: "Gli abitanti restano indifferenti." Invece i cronisti piemontesi parlarono subito di un entusiasmo plebiscitario, di bandiere sabaude esposte ai balconi, di applausi e grida di entusiasmo, di

viva Garibaldi il liberatore, viva Vittorio Emanuele, viva l'Italia. In realtà i Siciliani ignoravano chi fosse Garibaldi e sconoscevano l'identità del sovrano savoiardo. Deluso dall'indifferenza della popolazione, Garibaldi inviò Giuseppe La Masa a contattare la gente di "rispetto". Furono sentiti gli industriali Ignazio Florio e don Vincenzo Favara di Mazara (banchiere di tutto rispetto), i quali offrirono all'Eroe 100.000 lire d'oro, mentre Stefano Triolo, barone di S. Anna, mise insieme una banda di mafiosi forte di 350 armati. I famosi "picciotti" erano tutti "famigli", servi, mezzadri, fattori, campieri di nobili e borgesi arricchiti, quasi tutti in odore di mafia, i quali accorsero a fianco dei garibaldini più per ordine dei padroni che per un vero sentimento di partecipazione alla rivoluzione.

A Calatafimi, la celebre vittoria dei garibaldini fu resa possibile dal generale Landi che tenne indietro il grosso delle sue truppe, rimaste inattive mentre furono impegnate due sole compagnie di cacciatori che si batterono valorosamente ma dovettero cedere alla preponderante forza nemica. In compenso di questo eroico comportamento, il generale Landi ricevette da Garibaldi delle cartelle del Banco di Napoli per un valore di sedicimila ducati che poi risultarono false; infatti, quando il generale fellone si presentò al Banco per riscuotere il prezzo del suo tradimento, fu accusato di essere un falsario e per sottrarsi al carcere, il miserabile dovette ammettere: "Averle ricevute da Garibaldi in ricompensa dei servigi prestatigli in Sicilia." Il generalissimo Lanza, che doveva difendere Palermo con il grosso delle truppe, dal canto suo aveva già rubato seicentomila ducati dal Banco di Sicilia. In realtà i generali borbonici, corrotti e traditori, vendettero per trenta denari la Sicilia a Garibaldi.

Ma da quell'accozzaglia di traditori si distaccava con fierezza un uomo, che avrebbe potuto ribaltare la situazione guidando le truppe borboniche ad una schiacciante vittoria, annientando e ributtando a mare "l'eroe" insieme ai suoi garibaldini e picciotti.

Un soldato pronto a battersi con grande coraggio e abnegazione, forte del suo spirito di lealtà e sorretto dal giuramento prestato al suo re. Quest'uomo era il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Il coraggio e lo spirito di ardimento del colonnello Bosco fu riconosciuto anche dai memorialisti garibaldini e dallo stesso Cesare Abba, squallido cronista partigiano dell'impresa dei Mille.

L'eroe borbonico che i testi di storia sul Risorgimento in Sicilia hanno ignorato o volutamente emarginato in qualche piccola nota di appendice, era nato a Palermo il 3 marzo del 1813 da Aloisio Beneventano dei baroni del Bosco e da Marianna Roscio. Apparteneva ad una nobile ed antica famiglia siracusana; il


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padre era un alto funzionario della Corte di Napoli, regnando Ferdinando I re delle Due Sicilie. Il piccolo Ferdinando, di appena otto anni, nel 1821 entrò a far parte della Corte Napoletana in qualità di paggio del sovrano. Nel 1825, il re lo fece entrare nel prestigioso collegio militare della Nunziatella, dal quale uscivano i migliori quadri ufficiali dell'esercito borbonico. Nella scuola militare Ferdinando Beneventano del Bosco si distinse subito per le grandi capacità militari e per il carattere particolarmente orgoglioso; uscì dalla Nunziatella con il grado di 2° tenente e fu assegnato al 2° reggimento granatieri della Guardia Reale. Undici anni dopo era 1° tenente al 2° reggimento Regina, ma nel 1845 la sua natura orgogliosa e collerica che non sopportava ingiustizie ed iniquità, lo portò a un duello all'arma bianca con un alfiere dello stesso reggimento, un tale Francesco Vassallo, che fu gravemente ferito; questo episodio gli costò la cancellazione dai ruoli militari. Ma tre anni dopo il re, riconoscendo le sue buone ragioni, lo perdonò e lo riammise in servizio, con il grado di capitano al comando di una compagnia del 3° Principe. Fu assegnato alla brigata comandata dal generale Nunziante ed inviato in Calabria per combattere i rivoltosi in quella regione. La sua natura orgogliosa ed estroversa lo portò spesso ad un conflitto con i suoi superiori, con il generale Nunziante in particolare, poiché aveva l'abitudine di relazionare direttamente con i membri della Corte Napoletana, scavalcando le regole militari e pronunciando giudizi poco lusinghieri nei confronti del generale Nunziante, che in realtà era un pessimo ufficiale. Di rimando il Nunziante non lo citò nella sua relazione sugli ufficiali che si erano distinti particolarmente nella missione in Calabria. Nel settembre del 1849 fu inviato a Messina con la sua compagnia e con grande valore guidò i suoi soldati all'assalto alla baionetta contro una batteria nemica che venne eliminata; durante questa azione un proiettile lo ferì al braccio: nonostante ciò Bosco continuò imperterrito a combattere, incurante della ferita e del sangue che perdeva abbondantemente. Nell'aprile del 1850, alla presa di Catania, al comando di tre compagnie, espugnò un caposaldo nemico molto importante, destando l'ammirazione del generale Filangieri, che lo propose per la promozione a maggiore e per le decorazioni di San Giorgio e San Ferdinando. Non ebbe la promozione per l'ostilità dell'alta burocrazia militare, alla quale egli non risparmiava critiche feroci; ma il re dovette concedergli le decorazioni che gli spettavano di diritto. Nel 1859, essendo Presidente del Consiglio il generale Filangieri, gli arrivò la promozione a maggiore, patrocinata e sostenuta dallo stesso Filangieri, che non aveva dimenticato l'eroico



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In alto: Lapide commerativa del soggiorno del re Ferdinando III di Sicilia al Palazzo Beneventano.


comportamento del suo ufficiale durante la campagna di Catania. Preposto al comando del 9° battaglione cacciatori, l'anno dopo fu promosso tenente colonnello, esattamente 10 giorni prima dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Detestato dai suoi superiori felloni ed intriganti, Ferdinando Beneventano del Bosco fu sempre amato dai suoi soldati, che lo seguivano con cieca fiducia e vedevano in lui il comandante più devoto e leale alla dinastia ed alla causa nazionale. Ritroviamo in Sicilia il colonnello Bosco al comando del 9° cacciatori, agli ordini del generale svizzero Von Mechel, nel momento più critico per l'impresa garibaldina, quando dopo la battaglia di Calatafimi, che battaglia non fu, in quanto le truppe borboniche del generale Landi si ritirarono senza combattere, e dopo la rotta di Parco, Garibaldi si ritrovò alla Piana dei Greci abbandonato dalle squadre siciliane, con i suoi volontari già stremati e dispersi dagli attacchi a sorpresa delle truppe reali e con una colonna militare alle spalle che si batteva valorosamente.

Quella colonna era il 9° cacciatori, comandato da Ferdinando Beneventano del Bosco.

La mattina del 25 maggio "l'eroe" si ritrovò al trivio della Ficuzza con una strada che allora scendeva a Palermo passando per Marineo e Misilmeri. Prima di iniziare la discesa verso Palermo, Garibaldi, completamente sfiduciato, confidò ai suoi più stretti collaboratori: Turr, Sirtori, Orsini e Crispi, che non se la sentiva di marciare su Palermo, in quelle precarie condizioni, preferendo rifugiarsi sui monti in attesa di un sollevamento generale dell'isola, a favore della rivoluzione, o nel caso negativo, avere il tempo e il modo di abbandonare la Sicilia, rimettersi in mare e raggiungere il continente.

Questo proposito venne fortemente osteggiato da Turr, mentre pare che Crispi fosse a favore della tesi di Garibaldi (Storia della 15° divisione Turr di Carlo Pecorini Manzoni). Si


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decise allora di prendere la via per Palermo poiché in caso di insuccesso i garibaldini avrebbero trovato rifugio sulle navi inglesi e sarde alla fonda nel porto di Palermo. Per ingannare la truppa borbonica che lo perseguitava, Garibaldi ordinò ad Orsini (Vincenzo Orsini, ufficiale di artiglieria dell'esercito borbonico, disertore nel 1848) di proseguire per i monti con qualche pezzo di artiglieria, un piccolo distaccamento di volontari e pochi residui di mafiosi siciliani che, in gran numero, si erano dispersi dopo la rotta di Parco. Quando la colonna di Von Mechel giunse al trivio della Ficuzza, il generale borbonico seppe che Garibaldi era disceso per Palermo e che Orsini con i suoi cannoni aveva preso la via dei monti. Mechel dispose che il generale Colonna, con la sua brigata, si attendesse alle porte di Palermo per aspettare Garibaldi, mentre lui avrebbe inseguito Orsini sui monti per catturargli i cannoni e disperdere le residue bande di mafiosi che avrebbero potuto rappresentare un pericolo se lasciati alle spalle. Con il suo grande intuito militare intervenne il colonnello Beneventano del Bosco, che fece rilevare l'opportunità di abbandonare Orsini al suo destino, preferendo la soluzione di attaccare Garibaldi alle spalle. Se il parere di Bosco fosse stato ascoltato da Von Mechel, i garibaldini avrebbero trovato la brigata di Colonna di fronte e quella di Mechel alle spalle e sarebbero stati stritolati.

Garibaldi avrebbe subito una disfatta tale da compromettere definitivamente l'impresa. L'opinione di Bosco, in quel frangente, fu condivisa da un altro coraggioso ufficiale, il capitano di Stato Maggiore Luvarà. Purtroppo, Von Mechel da svizzero testardo fu irremovibile, per cui la tanto temeraria azione di Garibaldi su Palermo è stata sempre osannata dagli storici piemontesi che hanno favoleggiato sull'ardimento ed il coraggio dell'eroe. Delle perplessità e del timore di Garibaldi tace anche Cesare Abba, il cronista più devoto all'eroe. Se Von Mechel avesse affidato la truppa al colonnello Beneventano del Bosco, come suggerito da più parti, la fortuna del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata assicurata e la dinastia salva.

Si dice che la storia non si fa né con i "se" né con i "ma"; pur tuttavia una considerazione è necessaria: Garibaldi non fu quel condottiero leggendario ed invincibile che la storia ci ha tramandato! La presa di Palermo fu favorita a dismisura anche dalla inesplicabile condotta del generale Lanza, Luogotenente del Regno, che già trescava con la borghesia liberale palermitana alla quale aveva promesso segretamente il suo appoggio. Lanza spiccava, infatti, come una meteora, nella rosa dei generali borbonici inetti, infingardi e traditori. La truppa che difendeva Palermo era divisa nelle piazze dei Quattroventi, Castellammare,

Finanze e Palazzo Reale, senza contare i battaglioni di Monreale e le brigate di Von Mechel e Colonna.

Una forza più che sufficiente a battere non solo le orde garibaldine, ma capace di sconfiggere ed annullare un esercito regolare bene armato. La sera del 26 maggio, Lanza fu avvisato dell'arrivo di Garibaldi da Porta Termini ed invece di spingere i battaglioni accampati attorno al palazzo reale, contro il nemico, li tenne fermi ed oziosi nella piazza, ordinando al generale Colonna appena giunto a Villabate, punto strategico per difendere la città dalla parte Sud, di lasciare quella posizione e ritirarsi nella piazza di Palazzo Reale. Il piano del generalissimo Lanza, atto a favorire Garibaldi e la rivoluzione, si rivelò chiarissimo! Fare bombardare Palermo dal forte di Castellammare, comandato da un altro ignobile traditore: il colonnello Briganti (nel nome e nella sostanza). Bombardare una ricca e popolosa città come Palermo, culla di grande civiltà, splendida capitale di un regno fra i più antichi d'Europa, non serviva assolutamente a nulla a scopo militare, quando si avevano i mezzi per impedire la rivolta popolare e per contrastare efficacemente Garibaldi ed i suoi; quindi il disegno del maresciallo poteva sembrare l'iniziativa di un pazzo e di uno scellerato; ma Lanza non era né pazzo né scellerato, anzi era un uomo molto previdente e provveduto; infatti, appena giunto a Palermo con il delicato compito di contrastare l'invasione garibaldina, si era preoccupato non di organizzare le truppe in maniera efficiente, ma di incassare a titolo personale seicentomila ducati dal Banco di Sicilia; somma di cui si persero le tracce nella piega drammatica di quegli avvenimenti.

Il bombardamento di Palermo, nei disegni scellerati del Lanza, aveva lo scopo di far odiare dai Siciliani il mite e onesto Francesco II, portando acqua, dunque, alla causa piemontese.

Quando l'ultimo sovrano delle Due Sicilie seppe del disumano comportamento del suo Luogotenente Generale ebbe a patirne molto, fu profondamente addolorato per le sofferenze ingiustamente provocate al popolo di Palermo; in quel frangente avrebbe dovuto, come gli consigliava la moglie Maria Sofia, fare arrestare il Lanza e processarlo dinanzi ad una corte marziale con una sentenza di morte per alto tradimento. Ma re Franceschiello, come ironicamente lo definivano i Piemontesi, era un uomo di una dirittura morale senza pari, sorretto da una pietà cristiana assolutamente inimmaginabile in quei tristi tempi.

La sera del 26 maggio, Lanza preparò la facile entrata di Garibaldi per la mattina del 27. Invece di rinforzare Porta Termini, varco obbligato per penetrare in città, il generale traditore richiamò la metà della truppa che si


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era attestata in quel luogo; lasciò al comando del generale Bartolo Marra 260 reclute del 2° cacciatori e 59 soldati del 9° di linea - 319 soldati in tutto, su una forza che contava, in quel momento, 24000 uomini. Dopo questo mirabile ordine se ne andò tranquillamente a dormire a Palazzo Reale. Quando gli annunziarono che i garibaldini erano penetrati in città, si alzò sonnolento dal letto in cui aveva dormito saporitamente e su insistenza della truppa e degli ufficiali che reclamavano a gran voce un intervento immediato, si limitò ad inviare un solo battaglione, il 1° di linea al comando del valoroso Gioacchino Auriemma, con soli quattro cannoni comandati da un altro traditore, il capitano Ludovico De Sauget, che si limitò a tirare alcune cannonate laddove non si trovavano i garibaldini (il De Sauget poi disertò e passò al nemico)! Il generale Bartolo Marra, che aveva il comando di quei pochi avamposti, chiese a Lanza rinforzi urgenti per fronteggiare il nemico; rinforzi che non giunsero mai poiché il generale Landi, l'eroe di Calatafimi, con in tasca ancora i trenta denari del suo tradimento, si attestò con i suoi uomini ai Quattro Cantoni, ma non appena scorti i garibaldini, ordinò alla truppa la ritirata senza sparare un colpo. Quando la via di Porta Termini fu sgombra di ogni pericolo, l'eroe dei Due Mondi, montato sulla cavalla Marsala, entrò trionfalmente da quella Porta. Il 29 maggio la brigata comandata da Von Mechel di cui faceva parte il 9° cacciatori del colonnello Bosco, si era affacciata da Castellammare in direzione di Palermo. Il Lanza, avendo intuito che la presenza in città di Von Mechel e soprattutto del colonnello Bosco avrebbe potuto guastare i suoi disegni di sporco traditore, si affrettò a chiedere un armistizio a Garibaldi.

L'eroe finse di farsi pregare, ma alla fine non aspettando altro che una boccata di respiro, si degnò di accettare la tregua, che fu fissata per la stessa sera del 29. La mattina del 30, Mechel, che non sapeva nulla della tregua, attaccò il nemico al ponte delle Teste e penetrò con le sue truppe sulla strada per Porta Termini, ingombra di barricate, innalzate in fretta e furia dalle camicie rosse, che avevano spogliato i palazzi nobiliari di mobili pregiati, materassi e suppellettili varie. Le barricate furono distrutte a cannonate e i garibaldini si ritirarono in precipitosa e poco onorevole fuga, riducendosi in disordine alla piazza della Fieravecchia.

Nel momento in cui la vittoria arrideva alle armi borboniche, arrivò al galoppo il capitano Domenico Nicoletti, addetto al comando generale, che gridò ai soldati: "Per ordine di S.E. il Luogotenente del Re, il generale Lanza, rimanete qui, poiché la rivoluzione è battuta e sottomessa; evitiamo gli orrori di una città presa d'assalto: in breve entrerete nel resto di Palermo, ma per ora rimanete qui. Signori uffiziali, impedite ai soldati che si avanzino più oltre. " (G. Buttà - Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta - pag. 56).

Subito dopo Nicoletti, smontato da cavallo, parlò con Mechel: "Ho detto ai soldati che la rivoluzione è sottomessa, ma a voi debbo comunicare gli ordini di S.E.: il Luogotenente del Re ha conchiuso un armistizio con Garibaldi, sarebbe slealtà militare continuare le ostilità. Date quindi ordine alla truppa, che si trova alla Flora, di cessare il fuoco e di ritirarsi. " (G. Buttà, ibidem).

In alto: Palazzo Beneventano, 

la Sala delle mappe.


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Il coraggioso e leale generale Mechel rimase allibito a quella notizia; si vedeva sfuggire di mano una vittoria ormai certa. In quel frangente si rivelò anche la natura collerica e orgogliosa di Ferdinando Beneventano del Bosco, che cominciò ad eruttare fuoco e fiamme contro il Lanza, il Briganti, e tutti gli altri traditori della causa borbonica. Dovette intervenire d'autorità Von Mechel per rabbonirlo, ma inutilmente. Anche Guglielmo Rustow, cronista garibaldino, ebbe a definire la condotta del Lanza "una colossale stupidità". Evidentemente il Rustow non aveva capito o finto di non capire che si trattava di alto tradimento.

Garibaldi, nel frattempo, bivaccava tranquillamente nelle stanze di Palazzo Pretorio. E fu così che 24mila uomini, bene armati e bene addestrati, perdettero la città di Palermo.

Cesare Abba, descrivendo questo episodio, ebbe a dire: "Laggiù in fondo alla via, in mezzo a quelle facce torve di stranieri, si vedeva il colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s'egli avesse potuto giungere mezz'ora prima! Entrava difilato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre. Chi sa che fortuna sfuggiva di mano a questo Siciliano, giovane, ardito, e ricco di ingegno?" (Cesare Abba - Da Quarto al Volturno - pag. 69).

Il valore ed il coraggio di Bosco si rivelarono in seguito, appieno, nella difesa della piazza di Milazzo. Dopo i fatti drammatici di Palermo, Garibaldi puntò verso Messina e attestò le sue truppe dalla parte di Barcellona per sferrare il suo attacco alla piazzaforte di Messina, punto strategico importante per potere attraversare

lo Stretto e penetrare nel Continente. Ma a difesa di Messina stava la piazza di Milazzo con il suo forte ben munito; il generale Clary, comandante della piazza di Messina, ricevette l'ordine di difendere Milazzo con tutti i mezzi, per tagliare la strada verso lo Stretto ai garibaldini; per la difesa di Milazzo scelse l'uomo giusto, il più amato dai soldati, il più devoto e leale servitore dello Stato: il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco. Ma le forze assegnate al prode ufficiale siracusano erano poche ed insufficienti e scarso anche l'armamento. Bosco disponeva di due battaglioni: il 1° e il 9°, composti di 800 uomini ciascuno, di quattro compagnie dell'8°, di una batteria con otto obici da dodici centimetri, uno squadrone di cacciatori a cavallo e un distaccamento di 40 pionieri; in tutto poco meno di duemilaseicento uomini. In Messina erano di stanza 24000 uomini in attesa di ordini. Bosco chiese al generale Clary di poter contare almeno sulla metà di quella truppa per poter sferrare un attacco a sorpresa contro il nemico attestato a Barcellona.

Egli sapeva, infatti, che nella piazza di Barcellona erano notevoli forze rivoluzionarie, fra cui quattromila soldati piemontesi, vestiti alla garibaldina.

Ma Clary fece sapere a Bosco che la sua funzione era quella di difendere Milazzo e non di attaccare. Così il colonnello Bosco fu costretto alla semplice difesa, in modo che potesse essere battuto da Garibaldi, con il preciso scopo di offuscare il prestigio che il leale ufficiale si era acquistato nell'esercito ed agli occhi stessi del re. Era un personaggio scomodo per una banda criminale di traditori e doveva essere emarginato!

La mattina del 20 luglio avanzarono verso Milazzo i battaglioni piemontesi con la camicia rossa e numerose bande di mafiosi e avventurieri siciliani. Nel porto era ormeggiata la fregata napoletana Veloce, il cui comandante Amilcare Anguissola, di nobile famiglia borbonica, aveva disertato consegnando a Palermo la nave a Garibaldi, dalla quale sbarcavano di continuo uomini e munizioni nel porto di Milazzo. Alcuni battaglioni garibaldini erano comandati dal generale Medici, il quale seguendo il costume di Garibaldi tentò di sottrarsi alla battaglia, invitando il colonnello Bosco ad un incontro per definire un eventuale patteggiamento di resa; ma Bosco rispose all'emissario del Medici che "i soldati del Re non patteggiano con i nemici ma li combattono". Dopo questa fiera risposta, Bosco divise l'artiglieria in quattro sezioni, si lasciò alle spalle una piccola riserva di protezione al comando del tenente colonnello Marra ed uscì fuori Milazzo alla testa di non più di mille uomini. Malgrado l'esiguità delle sue forze contro la preponderanza garibaldina, Bosco si lanciò all'attacco con le sue truppe. Montato sopra il suo cavallo preferitò Alì, roteando la sciabola, si gettò contro le schiere nemiche incitando a gran voce i soldati, che lo seguirono con un coraggio ed un entusiasmo senza pari; mentre l'artiglieria apriva il fuoco di fianco, seminando morte nelle file dei garibaldini. L'attacco di Bosco fu così impetuoso e forte da rompere l'ala centrale del nemico, che fu gettata indietro rovinosamente.

Il generale Medici, sorpreso e sgomento dall'impeto dei Napoletani, fu costretto a chiamare in soccorso la riserva di Cosenz, ufficiale borbonico disertore del 1848, che assaltò con i battaglioni piemontesi i suoi connazionali ed antichi compagni d'armi. Accanto a Bosco si batteva con coraggio anche il capitano Giuliano, che colpito da una palla al petto, cadde ucciso; si disse dai cronisti piemontesi che era stato ucciso dallo stesso Garibaldi, mentre in realtà "l'eroe" seguiva la battaglia da bordo della fregata Veloce, più comoda e sicura in quel terribile frangente.

I soldati di Bosco tennero testa ad un nemico dieci volte più numeroso, per otto ore


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senza alcuna interruzione; quando il colonnello si accorse che sopraggiungevano truppe fresche, pronte ad aggirarlo alle spalle, fece stringere la linea di battaglia e sempre combattendo riuscì a condurre i suoi soldati nel forte di Milazzo. Garibaldi, che aveva seguito la battaglia a bordo della Veloce, vedendo la ritirata, ordinò molto eroicamente, che i cannoni della fregata aprissero il fuoco sui regi che si ritiravano, ma dal forte partirono più colpi di cannoni a palla, che obbligarono la nave ad allontanarsi dal porto.

Le perdite napole-tane furono di tre ufficiali, 38 soldati, e 83 feriti; mentre i garibaldini perdettero millecinquecento uomini; Agostino Bertani, in un proclama ai volontari, enfatizzò sui mille caduti a Milazzo e Garibaldi stesso confessò al comandante della fregata francese Protis che nella battaglia di Milazzo aveva perduto ottocento fra gli uomini migliori.

Chiuso nel forte, Bosco chiese subito rinforzi al generale Clary, che non giunsero mai, per cui il valoroso colonnello si preparò alla difesa: una difesa disperata poiché mancavano le munizioni, i viveri e anche l'acqua. Il 22 luglio, Garibaldi inviò un messaggio a Bosco, intimandogli di arrendersi con tutta la guarnigione, altrimenti avrebbe fatto passare al fil di spada tutti gli assediati. In questa occasione Garibaldi mostrò il suo vero volto di mercenario senza scrupoli, di avventuriero ben lontano da ogni etica militare, di condottiero degno delle invasioni barbariche medievali. Bosco rispose che avrebbe ceduto la Piazza solo per ordine del re, o avrebbe combattuto fino alla fine, minacciando di far saltare in aria il forte e tutta Milazzo.

La mattina del 23 giunse a Milazzo un telegramma dal seguente tenore: "Il maresciallo Clary al comandante la piazza di Milazzo. Questa mattina arriverà costà, un Ministro Plenipotenziario del Re, con quattro fregate napoletane e tre vapori per trattare la vostra resa". Sul tardi arrivò il colonnello di Stato Maggiore Anzani con tre fregate e stipulò con Garibaldi una breve capitolazione, con la quale si stabiliva che: tutta la truppa uscisse dal forte in assetto di guerra per ricevere gli onori militari e fosse imbarcata sulle fregate per essere trasportata in Continente. Clary mandò l'Anzani perché sapeva che Bosco non avrebbe mai accettato di cedere il forte e la piazza di Milazzo a Garibaldi. L'eroe stesso aveva telegrafato ai suoi amici di Napoli, affinché facessero pressioni sul re, perché mandasse un alto ufficiale napoletano a trattare la resa. Quando la truppa uscì dal forte, Garibaldi dimostrò tutta la sua meschina natura di avventuriero prezzolato; per bassa e miserabile vendetta nei confronti di un uomo che gli aveva tenuto testa con onore e fierezza, confiscò i due cavalli di Bosco, mentre lasciò agli altri ufficiali quelli che avevano.

Ferdinando Beneventano del Bosco, così, uscì dal forte a piedi, alla testa delle sue valorose truppe. Rientrato a Napoli ebbe dalle stesse mani di Francesco II il decreto di promozione a generale di brigata, il 17 agosto del 1860.


A fianco:

Ferdinando Beneventano del Bosco in un dipinto ad olio di quando venne promosso generale.

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Lo ritroveremo all'assedio di Gaeta, con la spada sempre pronta a difendere il suo Re.

 

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Si ringrazia il barone Pietro Beneventano del Bosco, per la cortese collaborazione.

NOTE

Archivio di famiglia del barone Pietro Beneventano del Bosco - Siracusa. 

Rosario ROMEO, Dal piemonte sabaudo all'Italia liberale, Einaudi 1970. 

SCIASCIA, La corda pazza, Einaudi 1970. 

Indro MONTANELLI, Garibaldi, Fabbri Editori 1962. 

G.C. ABBA, Da Quarto al Volturno, Poligrafico dello Stato 1956. 

C. ALIANELLO, La conquista del Sud, Rusconi 1972. 

L. DEL BOCA, Maledetti Savoia, Piemme 1998. 

Antonio CIANO, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò 1996. 

Gianandrea DE ANTONELLIS, Non mi arrendo, Controcorrente 2001. 

Venero GIRGENTI, Un ufficiale garibaldino in Sicilia, Edizione La tecnica della scuola 1970.

Giuseppe BUTTÀ, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani 1975. 

Marcello VERGA, Regno delle Due Sicilie. Tomo VI, Edizione Ricci 1999. 

A. SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino 1997. 

T. WHITAKER, Sicily and England, Londra 1907. 

R VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell'età moderna, Bari 1961. 

G. DI VITA, Finanziamenti della spedizione dei Mille. Atti del Convegno di Torino, Ed. Mola. Foggia 1990.

Denis MACK SMITH, Vittorio Emanuele II, Bari 1994.

Roberto M. SELVAGGI, Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell'esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi. Napoli 1990.


Agorà è presente nelle edicole delle provincie di Catania, Siracusa e Ragusa.

Fernando Mainenti, Beneventano del Bosco,
Agorà XI-XII (a. III-IV, Ott.-Dic. 2002 /Gen.-Mar. 2003)
https://www.editorialeagora.it


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