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Ringraziamo la Redazione della rivista AGORA' per averci autorizzato a pubblicare questo articolo a firma di Fernando Mainenti.

Sul sito della rivista https://www.editorialeagora.it potete scaricare questo ed altri interessanti articoli inerenti la storia del Sud e della Sicilia in particolare, in formato PDF.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Webm@ster - 7 agosto 2006
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Agorà è presente nelle edicole delle provincie di Catania, Siracusa e Ragusa.



Fatti e misfatti dell'unità d'Italia



L'eccidio
di
Bronte
del 1860



Ad opera ddi Nino Bixio



di Fernando Mainenti



foto di Paraskevi Bar ola

La verità può recare danno solo per un breve momento, ma, per una fatale legge di attrazione, essa suscita nuove verità, le quali sono utili, più utili, sempre più utili. Viceversa, l'errore può essere utile, ma la sua utilità è effimera e ingannatrice, e, per la stessa legge di attrazione, crea nuovi errori che sono nocivi, più nocivi sempre più nocivi... 

Queste parole di Goethe potrebbero essere scolpite su un monumento che celebri, visivamente, la realtà del cosiddetto Risorgimento in Sicilia e le stragi commesse da quei criminali di guerra piemontesi che ci ritroviamo eroi nei libri di scuola. Nino Bixio in testa!

Sulle pendici nord-occidentali dell'Etna, a 794 metri, sorge la cittadina di Bronte. Antico casale medievale raccolse nel 1520, per decreto di Carlo V, gli abitanti dei numerosi borghi limitrofi, per cui si formò l'attuale paese che fu a lungo feudo dell'abate di Maniace, il borgo più importante dell'epoca. 

Successivamente la

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In alto: Bronte, Piano S. Vito.
Monumento alle vittime.

cittadina fu infeudata dall'Ospedale Grande di Palermo ed ebbe un'amministrazione militare regia; nel 1799 Ferdinando IV la concesse in feudo all'ammiraglio inglese Orazio Nelson, in ricompensa dei servigi resigli dopo l'abbandono di Napoli e il rifugio in terra di Sicilia. Era stato infatti Nelson ad accogliere sulla sua nave ammiraglia Vanguard la famiglia reale esule e a trasportarla a Palermo durante una tempesta di mare senza precedenti.

Dopo l'infelice esito della rivoluzione del 1848-49 si formarono a Bronte due partiti: i Comunisti e i Ducali, che tennero diviso il paese per molto tempo. Con il termine "Comunisti" venivano indicati in Bronte i sostenitori dei diritti del Comune, contrapposti ai "Ducali" che invece sostenevano gli interessi della ducea di Nelson. Al di sotto di queste due fazioni di cappelli marcivano nella miseria le masse contadine e bracciantili; quei contadini con la schiena piegata in due dall'annoso lavoro di zappa, che


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pagavano le decime e i balzelli ai feudatari, che si inginocchiavano davanti ai padroni e ai campieri implorando un credito o una mercè. Le condizioni dei braccianti di campagna di Bronte, nel 1860, erano spaventose al punto tale da spingere il sociologo francese La Bruyère a scrivere queste parole: «Si vedono certi animali selvaggi, maschi e femmine, in giro perle campagne, neri, lividi, nudi, e bruciati dal sole, curvi sul terreno che rimuovono e scavano con una straordinaria ostinazione. La loro voce, però, è quasi del tutto articolata e quando si drizzano, mostrano un viso umano: ché in effetti sono degli uomini, e a notte sopraggiunta si ritirano nelle loro tane, dove vivono di pane nero, di acqua e di radici».

I periodi di occupazione dei braccianti agricoli, a quel tempo, erano quelli della semina, della prima e della seconda zappa, ed infine della mietitura: in tutto meno di cento giorni all'anno. Il salario era miserevole, e veniva anticipato dai padroni, all'inizio dell'inverno, in grano e legumi, che poi veniva scontato col lavoro per tutta l'annata; questa era una spietata forma di usura e di sfruttamento esercitata dai padroni, che riducevano i contadini al rango di servi della gleba di medievale memoria. Nei periodi di magra, i braccianti si arrangiavano raccogliendo nei boschi galle di quercia e fichi

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In alto: Bronte, Casino dei Civili, oggi circolo di cultura "Cimbali". In basso: Bronte, Casino dei Civili, interno.


selvatici, capperi, funghi, le sanguisughe da vendere allo speziale, e rane da cucinare in famiglia. Su questi poveracci spesso cadevano contravvenzioni, quasi sempre perevasione al balzello del macinato, multe che i disgraziati non potevano assolutamente pagare, scontate con mesi di carcere duro. Frequenti erano, inoltre, i pignoramenti per usure non pagate, tassazioni arbitrarie, accuse di furto per legna raccolta nei boschi della ducea o in quelli comunali. L'ammenda per una bracciata di rami era pari al valore dell'albero vivo, e non

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In alto: Bronte, Chiesa dell'Annunziata.


della legna; inoltre veniva comminato non meno di un mese di carcere. Negli archivi comunali di Bronte è registrata (febbraio 1850) un'ammenda di 39 ducati: una somma enorme che il contadino non riusciva a guadagnare in tutta la vita.  Venerdì 11 maggio del 1860, Garibaldi, "l'eroe dei Due Mondi", sbarca a Marsala mettendo così in atto il piano piemontese - inglese di usurpazione del libero e sovrano Regno delle Due Sicilie. La miserabile giustificazione agli occhi dell'opinione pubblica era sempre la solita: venire a liberare il Mezzogiorno d'Italia dalla crudele e spietata tirannide borbonica. Sul trono di Napoli siede infatti un truce tiranno: il mite, onesto e cattolicissimo Francesco II, che si trovò per sua mala sorte Re delle Due Sicilie nel momento più drammatico e fatale per la dinastia. Da Salemi, il 14 maggio, Garibaldi, creatosi dittatore in nome di Vittorio Emanuele, un re piemontese del tutto estraneo ai Siciliani, lanciò il suo retorico ed assurdo proclama: Si-ciliani! Io vi ho guidati una schiera di prodi accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde. Noisiamo con voi! noi non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve (il prezzo del tradimento dei generali borbonici era già stato pagato!). All'armi! Chi non impugna un'arma è un codardo e un traditore della patria (ma quale patria?).

Non vale il pretesto della mancanza d'armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque basta, impugnata dalla destra di un valoroso. I municipii provvede-ranno ai bimbi, alle donne, ai vecchi derelitti. All'armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà d'un popolo unito.  I Siciliani rimasero del tutto indifferenti a  questo farneticante proclama dell'eroe, men  tre in Bronte, i borgesi, i galantuomini, i  feudatari si diedero subito da fare; nacque un  comitato di liberazione presieduto dal barone  Giuseppe Meli. Aderirono al comitato alcuni  brontesi che si erano autodefiniti liberali, per  potere continuare a gestire il potere anche nel  caso di un passaggio di autorità, che essi rite  nevano essere imminente: il cavalier Gennaro  Baratta, il barone Giuseppe Guzzardi, Giusep  pe Radice, i fratelli Nicolò e Placido Lombardo  (Nicolò fu poi una delle vittime della ferocia di  Nino Bixio), il dottor Luigi Saitta, l'avvocato Nun  zio Cesare, Franco Thovez, governatore della  ducea Nelson, Rosario Leotta, segretario della  ducea, l'avvocato Giuseppe Liuzzo.  La plebe, però, non vedeva in Garibaldi il presunto liberatore dalla tirannide borbonica: vedeva nel mercenario avventuriero il liberatore dalla più dura oppressione: la miseria, la fame. La fame è cattiva consigliera e già a Bronte si era verificato l'episodio di un bracciante, un tale Carmelo Giordano, che uscendo da una taverna aveva pronunciato alcune minacciose parole : Se gira la palla, le bocce e i cappellucci devono andare per aria. Era chiara l'allusione al cambiamento di politica ed alle teste dei borgesi che dovevano saltare quanto prima.  II 27 maggio, Garibaldi, favorito dall'alto tra  dimento del generalissimo Lanza, entrava in Pa  lermo e chiamava alle armi tutta la Sicilia (chia  mata rimasta inattesa): Siciliani, il Generale  Garibaldi, dittatore in Sicilia a nome diS.M. Vit  torio Emanuele re d'Italia (mentre ancora il sa  voiardo usurpatore era in atto re di Piemonte e  Sardegna)... chiama alle armi tutti i Comuni  dell'Isola perché corrano al compimento della  vittoria. La notizia accrebbe la tensione in  Bronte e il 29 giugno il comitato inviava il se  guente messaggio a Garibaldi: Non ultimo fra i  paesi di Sicilia nostra ed a nessuno secondo per  ardentissima carità dell'italico natio suolo, ri  spondeva il popolo brontino ildì 16 maggio al  generoso appello rigenerante, stringendosi fer  vido di gioia al sospirato nazionale vessillo...  Italia unita è la brama, che punge i figli tutti di  questa classica terra (anche i braccianti pezzari  e morti di fame).. Italia libera e una nella sua


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possanza potria resistere ai colpi del tiranno straniero...Voi porgendo la benefica vostra mano (quella stessa che ammazzò le innocenti vittime di Bronte) un trono ci additate più luminoso; un albero vitale da cui qualunque ramo suggerà vita, più bello germoglio, più rigoglioso... Garibaldi sarà sempre immortale come la istorica rimembranza, e l'uom del palagio e quello della gleba (i braccianti derelitti) lo benedirà come il siculo liberatore, come il foriero di un'era più luminosa... Viva Italia unita! Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Bronte, 29 giugno 1860. Il presidente del comitato, Giuseppe Meli.

Questo indirizzo gravido di ributtante e falsa retorica patriottarda fu redatto dal sacerdote Vincenzo Leanza in uno stile gonfio, magniloquente e bolso, da vecchio avvocato di provincia rimbecillito.

Si accesero, quindi, gli entusiasmi della plebe: i contadini impazienti aspettavano che fosse tolta la tassa sul macinato, fatta la divisione delle terre demaniali (già ordinata dallo stesso Francesco II) e ribadita da Garibaldi con il decreto del 2 giugno. I decurioni del Comune, però, non si erano affatto curati di porre mano alle terre demaniali per non ledere gli interessi di parecchi borgesi che si erano già appropriati delle terre vulcaniche del Comune. È chiaro come in questo clima rovente che aveva dato adito ad intrighi e abusi, lo spirito dei contadini, sofferenti ed oppressi da secoli, spingeva la plebe a vendette e riparazioni. Scrive Machiavelli: Ogni rivoluzione o rivolta politica in fondo non è che rivoluzione sociale ed economica; e simuta volentieri padrone e si fanno le rivoluzioni credendo migliorare. (Machiavelli - Discorso sulla prima deca di Tito Livio, libro III, cap. XXIII).

Profetiche parole, indirizzate nel tempo ad una plebe che aveva in odio gli uomini del Comune e della ducea e che non aveva più alcuna fede nei tribunali e nell'esercizio della giustizia. Soffocati da una feroce, atavica miseria, alcuni credettero pertanto fare giustizia da sé, approfittando dell'anarchia che ogni cambiamento violento di regime porta naturalmente con sé. Nel giugno e luglio del 1860 scoppiarono feroci rivolte in molti Comuni dell'Isola: Ni-cosia, Regalbuto, Cesarò, Randazzo, Maletto, Biancavilla, Centuripe, Alcara Li Fusi, Mistretta, Cerami; la plebe, suggestionata da una falsa promessa di libertà, andava gridando ovunque: Abbassu licappeddi; e l'agognata libertà si trasformò in vendetta per i tanti soprusi patiti.

Erano ritornati in libertà dalle carceri alcuni delinquenti brontesi condannati per furti ed omicidi. Costoro, arroganti per la riconquistata

impensata libertà, si davano a percorrere le vie del paese e le campagne con coccarde tricolori al petto, spingendo la plebe alla sommossa, con il pretesto della mancata divisione delle terre demaniali. Il Decurionato Comunale, invece di placare gli animi, ordinò l'arresto dei dimostranti; il capitano Franco Thovez, con la sua compagnia con a capo il notaio Cannata e Giovannino Spedalieri, direttore delle carceri, arrestò i sobillatori più audaci: Arcangelo Attinà, Francesco Gorgone, Nunzio Cesarotano, Nunzio Ciraldo. Uno solo dei decurioni protestò per quegli arresti che egli ritenne arbitrari: l'avvocato Nicolò Lombardo (una delle vittime del nazista Bixio). Ma gli arrestati, profittando della traduzione alle carceri di Catania, riuscirono a fuggire rifugiandosi nei fitti boschi dell'Etna. La mattina del 28 luglio, un povero innocuo demente, Nunzio Ciraldo Fraiunco, con la testa cinta di uno straccio tricolore, suonando un tamburo di latta, andava sproloquiando per le vie di Bronte: Cappeddi, vardativi, ègghiunta l’ura du giudiziu univirsali, populu, tutti 'nta chiazza, continuando così sino al Casino dei nobili, profferendo ulteriori sciocchezze e frasi senza senso. I galantuomini del Casino si fecero delle grasse risate e, veri dementi quali erano, si limitarono a sputare addosso al matto che fu cacciato via a pedate, fra gli sberleffi della folla. La sera del 29 luglio una torma di monelli, con torce accese, diede luogo ad una macabra messinscena: portando a spalla una cassa da morto di rozzo legno, andavano cantando miserere e deprofundis sotto le case dei "cappelli", aggiungendo lamenti e strilli di dolore come per la morte di un parente. La situazione pertanto precipitava drammaticamente, mentre le autorità, sempre divise da interessi contrapposti, non erano in grado di percepire il comune pericolo. La sera del primo agosto la folla in tumulto occupò i posti di Salice, S. Antonino, Scialandro, Catena, Camposanto, dietro S. Vito. Verso le cinque del mattino si udirono tocchi di campane a morto, urla, fischi e qualche colpo di fucile. La folla gridava: Dobbiamo dividerci i beni del Comune; questi cappelli ci hanno succhiato il sangue nostro: ce lo devono restituire. Vicino al Casino dei civili, i dimostranti incalzavano: Vulemu iterri!. Apparve il notaio Cannata, armato di doppietta, che minacciò di tirare a bruciapelo sulla folla; questo gesto provocatorio aizzò vieppiù la massa vociante e partirono fischi e qualche pietra.

La mattina seguente cadde la prima vittima, la guardia municipale Carmelo Curchiurella, ucciso vicino al carcere perché andava prendendo i nomi di quelli che avevano occupato i passi che portavano fuori dal


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In alto Bronte, Piano S. Vito, luogo dell'eccidio perpetrato dal Bixio.

 

paese. A sera, alle 23, si intesero campane a martello dalla chiesa dell'Annunziata; la rabbia accumulata in silenzio, in tante generazioni di pezzenti, esplose con una violenza senza precedenti. Al grido di Viva l'Italia e morte ai sorci una massa di facinorosi avanzava dal piano di S. Vito verso il centro del paese. Dalle caverne dell'Etna erano calati anche i carbonai, che da secoli erano stati costretti a pagare prezzi da usura ai proprietari dei boschi per rifornirsi di legna per la loro attività. I carbonai erano i più minacciosi: armati di accette, andavano assestando violenti colpi alle abitazioni sino a scardinarne gli usci con scuri e pali. Le case vengono invase da una folla minacciosa, fra cui donne e ragazzi; si rapina tutto quello che si può: vino, farina, grano, olio; si rubano i materassi di lana: bottino pregiato per della gente che aveva sempre dormito nei sacchi imbottiti di paglia. Quello che non si può rapinare viene dato alle fiamme, fra il tripudio violento degli animi. Da ogni parte del paese si alzano fiamme e fumo. La mattina del 3 agosto una folla enorme con armi e bandiere si recò alla casa dell'avvocato Nicolò Lombardo, che dall'inizio della sommossa si era sempre adoperato a calmare gli animi per evitare atti inconsulti e drammatici.

L'avvocato Lombardo era in fama di liberale e di uomo giusto e saggio, sempre disposto ad adoperarsi per migliorare le condizioni incredibilmente dure della plebe. Accolto dagli applausi della folla, fra gli evviva del popolo, Nicolò Lombardo fu acclamato a viva voce Presidente del Municipio (questo fatto gli costerà la vita a causa della cieca e feroce vendetta del boia Nino Bixio). Il Lombardo, coadiuvato dal dottor Saitta, invano si adoperò per frenare gli animi, cercando di evitare il peggio: la folla inferocita non ascoltò né i consigli né le preghiere. Alle tre del pomeriggio venne ucciso il notaio Cannata, i campieri del quale avevano per anni massacrato di botte i braccianti sorpresi al pascolo o a raccogliere legna nelle sue terre. Poi fu la volta del figlio Antonino, ucciso per odio al padre, con due fucilate in pieno petto. Al Casino dei civili, un carbonaio robusto e tutto nero di fuliggine andava arringando la folla inferocita, dicendo: Si 'nta na tana ci sunu sei lupi e si ni ammazzanu sulu cincu, chiddu ca resta vivu, fa ppi sei!. La folla ubriaca assentiva gridando: Viva l'Italia, viva Garibaldi!.

In un orto vicino al Collegio Capizzi venne ucciso Nunzio Lupo e nel quartiere S. Vito fu freddato il cassiere comunale Francesco Aidala; poi fu la volta di Vito Margaglio e dell'impiegato


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del Catasto Vincenzo Lo Turco. La maggior parte dei civili, travestiti da contadini o da donne, riuscì a fuggire aiutata dai loro massari e campieri; molti si rifugiarono in Adernò, alcuni riuscirono a raggiungere Catania. Allo Scialandro, antico luogo di supplizio sotto il mero e misto impero, furono trucidati altri disgraziati: ormai il terrore era indescrivibile. Inutilmente, l'avvocato Lombardo tentò, ancora una volta, di ammansire la folla infuriata: andava girando da un gruppo all'altro di quei violenti, pregando, scongiurando che smettessero il massacro.

Dopo la battaglia della piazza di Milazzo, eroicamente difesa dal colonnello borbonico Ferdinando Beneventano del Bosco, l'eroe dei Due Mondi si trovava a Messina per preparare

10 sbarco dei suoi uomini nel Continente, mentre il grosso delle sue truppe bivaccava a Giardini per potere attraversare lo Stretto fuori dal tiro delle fregate borboniche. A Messina, Garibaldi fu raggiunto da un dispaccio del console inglese di Palermo, che prevedendo minacce e aggressioni nella ducea Nelson, lo pregava di inviare delle truppe per sedare la rivolta; anche il console inglese di Catania tempestò il dittatore di telegrammi perché ponesse fine alla rivolta dei Brontesi.

In basso: Bronte, Collegio Capizzi.

La duchessa stava in Inghilterra e sul castello sventolava la bandiera inglese, mentre a Bronte, ad amministrare il feudo, stavano i fratelli Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ambientati da anni nel territorio di Bronte. L'appello degli Inglesi a difesa della ducea fu immediatamente recepito da Garibaldi, memore dell'aiuto in denaro e in politica che l'Inghilterra aveva offerto alla sua impresa di predone (l'Inghilterra mise infatti a disposizione di Garibaldi tre milioni di franchi francesi in piastre d'oro turche). L'eroico dittatore telegrafò quindi a Bixio, che si trovava a Giardini con la prima brigata della 15° divisione Turr, ordinandogli la repressione della rivolta di Bronte con particolare rigore: che Bixio, fedele agli ordini, applicò con spietata ferocia. Fu quindi l'interesse britannico a scatenare la repressione (una vera e propria rappresaglia di stile nazista) dei moti di Bronte e non certamente la pietà e l'orrore per i civili uccisi dai rivoltosi. A Garibaldi poco importava della vita e degli averi dei Siciliani: bisognava tutelare e difendere gli amici Inglesi da un eventuale, forsennato attacco della plebe brontese.

Bixio scrisse alla moglie: Un tumulto di nuovo genere scoppia a settanta miglia da Messina (Bronte). Si bruciano case, si

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In alto: Bronte, la sede del Municipio nel 1860. Oggi l'edificio è stato ristrutturato ed è sede della biblioteca comunale.


assassinano.il generale mi spedisce sul luogo.Missionemaledetta dove l'uomo della mia natura non dovrebbe mai essere destinato (Nino Bixio, Lettera alla moglie, Giardini, agosto 1860). E invece la natura di feroce assassino Bixio l'aveva e come!

Dopo due giorni di faticosa marcia, la mattina del 6 agosto, "l'eroe" Nino Bixio giunge a Bronte con due battaglioni di camicie rosse accolto dal colonnello Poulet e dal Rettore del Collegio Capizzi, monsignor Palermo, che gli mise a disposizione il proprio appartamento. I nemici politici dell'avvocato Nicolò Lombardo colsero dunque l'occasione di macchinare la rovina del loro onesto e leale avversario, indicandolo a Bixio quale caporione della rivolta: la reazione di Bixio fu inconsulta e immediata - il sicario di Garibaldi non si preoccupò minimamente di accertare o meno la colpevolezza dell'accusato, ma sotto l'effetto dell'ira più violenta ordinò al Poulet di arrestare il Lombardo ed i principali colpevoli della tragica sommossa. Alcuni amici del Lombardo ed un ufficiale della compagnia del colonnello Poulet lo avvertirono del pericolo e gli consigliarono la fuga per sottrarsi alla rappresaglia di Bixio.

Ma il Lombardo, forte della sua coscienza pulita, consapevole di avere tentato con tutti i mezzi di placare gli animi esagitati, si recò al Collegio Capizzi e chiese di conferire con Bixio. Monsignor Palermo, non appena lo scorse, lo implorò di fuggire, avendo già intuito che il Lombardo andava incontro ad una morte certa. Ma nemmeno questo consiglio rimosse don Nicolò dal suo proposito di presentarsi al generale. Bixio lo accolse con occhi di fuoco, bollente d'ira e lo apostrofò con violenza: Ah! Siete voi il presidente della canaglia!. Non gli diede il tempo di scolparsi, di manifestare le sue buone ragioni; gli impedì ogni, seppur vana, difesa! Con un ruggito che nulla aveva più di umano, ordinò l'arresto immediato dell'avvocato e lo fece rinchiudere nella stanza di disciplina del Collegio, sorvegliata a vista da un picchetto armato di garibaldini.

La stessa mattina, Nino Bixio emise due decreti: All'ufficiale di guardia - 6 agosto in Bronte - L'ufficiale di guardia metterà due sentinelle alla porta del quartiere ed una seco una tromba. La consegna speciale è di avvisarmi ad ogni rumore che sorta dal naturale. Alle 10 mandare una pattuglia di otto uomini con un sergente a percorrere il paese, impedire la circolazione, non lasciarsi avvicinare da alcuno del paese. Se viene trovato qualcheduno, arrestarlo, e se resiste fucilarlo sul luogo; arrestare chi non volesse ritirarsi. Fucilare chi armato opponesse resistenza.

Il generale G. N. Bixio in virtù delle facoltà ricevute dal Dittatore, decreta: il paese di Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato di assedio. Nel termine di tre ore da cominciare dalle ore 13 e mezzo gli abitanti consegneranno le armi da fuoco e da taglio, pena la fucilazione per i retentori. Il Municipio è sciolto per organizzarsi pure ai termini di legge (ma quale legge?). La guardia nazionale è sciolta pure per organizzarsi pure ai termini di legge (ibidem). Gli autori dei delitti commessi saranno consegnati all'autorità militare per essere giudicati dalla commissione speciale. È imposta al paese una tassa di guerra di onze dieci all'ora (circa 127 lire) da cominciare alle ore 22 del giorno 4, giorno edora della mobilitazione delle forze in Pistorina e di aver termine al momento della regolare organizzazione del paese. Il presente decreto sarà affisso e bandizzato dal pubblico banditore. Bronte, 6 agosto 1860. Il maggior generale G. N. Bixio.

In questo contesto i veri autori dei delitti - i carbonai - fecero in tempo a rifugiarsi nelle


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grotte dei boschi dell'Etna, luoghi inaccessibili ed inviolabili, che essi conoscevano bene per avervi condotto, da anni, la loro attività.

In seguito a vaghe, incontrollate denunzie popolari vennero arrestati, quali presunti autori dei crimini, altri 4 innocenti: Nunzio Samperi, Nunzio Ciraldo Fraiunco (il demente), Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Spitaleri Nunno.

La mattina del 7 agosto si insediò il tribunale di guerra composto dai signori: maggiore De Felice, presidente; Cormaggi, Cragnotto, Castro, giudici; Guarnaccia, avvocato fiscale; Boscaini, segretario; Boscaini Privitera, cancelliere sostituto; nessun collegio di difesa per gli imputati: l'avvocato Lombardo chiese che si ascoltassero testimoni a sua discolpa: il sac. Gaetano Rizzo, il sac. Gaetano Palermo, il maestro Carmelo Petralia, il cav. Mariano Meli, donna Vittoria Castiglione, il delegato don Nicolò Spedalieri; tutti confermarono che l'avvocato Nicolò Lombardo era stato estraneo ai fatti criminosi, anzi aveva agito attivamente per frenare il tumulto e calmare gli animi. Le testimonianze a favore del Lombardo furono disattese, poiché Bixio voleva un capro espiatorio da sacrificare al Dittatore e così fu!

Il sicario di Garibaldi aveva già imposto al tribunale militare celerità e sentenza di morte per i cinque imputati; il processo fu una mostruosità giuridica senza pari - nessuna difesa, nessun peso dato ai testimoni a discarico. Alle ore 20 del giorno 9 agosto, il tribunale di guerra condannava a morte, mediante fucilazione don Nicolò Lombardo, Nunzio Ciraldo Fraiunco (il matto), Spitaleri Nunzio Nunno, Samperi Nunzio fu Spiridione e Longhitano Nunzio Longi, senza alcuna prova certa della loro colpevolezza. Gli imputati furono condannati a morte, in nome di Vittorio Emanuele II, re d'Italia (fu violato apertamente anche il diritto internazionale, poiché Vittorio Emanuele non era re d'Italia e i condannati erano sudditi di Francesco II, re delle Due Sicilie). Da una lettera inviata da Bixio al maggiore Dezza, che comandava un battaglione di bersaglieri di stanza a Randazzo, appare chiaro come la sentenza di morte fosse stata già decisa: infatti Bixio gli annunziava la condanna degli imputati fin dalla sera del giorno 8, mentre la decisione di morte venne pronunziata alle ore 20 del giorno 9 (in questo senso, gli ufficiali nazisti, quando decretavano sentenze di morte, furono almeno più rispettosi delle procedure). Dopo la sentenza, i parenti del Lombardo si presentarono a Bixio per poter avere la possibilità di un ultimo colloquio con il condannato, ma "l'eroe" li respinse in malo modo, un servitorello del Lombardo, che era andato a portargli delle uova per l'ultima colazione, fu cacciato da Bixio con queste ciniche parole: Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte.

Il povero demente, Nunzio Ciraldo Fraiunco, pianse e si lamentò tutta la notte, baciando uno scapolare della Madonna che portava al collo.

Il 10 agosto del 1860, i condannati furono avviati al piano di S. Vito per l'esecuzione: precedeva l'avvocato Lombardo a passi lenti, fumando un sigaro, la folta barba nera adagiata sul petto; gli altri piangevano e si battevano il viso recitando le preghiere degli agonizzanti; solo il matto, stranamente, sorrideva. Arrivati sul piano di S. Vito, i condannati furono posti a sedere in fila; Bixio a cavallo, con gli occhi spiritati, sembrava il demone terribile della vendetta; un ufficiale lesse la sentenza e fu ordinato il fuoco. Caddero in quattro, riversi l'uno sull'altro. Solo il matto rimase indenne: evidentemente nel cuore del plotone d'esecuzione era passato un brivido di pietà. Il matto si inginocchiò ai piedi di Bixio: Grazia, grazia, la Madonna mi ha fatto la grazia, fatemela voi, grazia, grazia!. Per tutta risposta Bixio ordinò all'ufficiale comandante il plotone di esecuzione di dargli il colpo di grazia, e quello gli sparò in testa. E così fu che anche il povero Nunzio Ciraldo Fraiunco, colpevole solo di aver suonato un tamburo di latta, gridando: Viva la libertà, viva Garibaldi, raggiunse la libertà dalla vita di miserabile mentecatto che aveva condotto fino a quel momento.

A Bixio, criminale di guerra, e a Garibaldi, noi Siciliani sempre pronti per atavico servaggio a piegare i ginocchi e a baciare le mani, abbiamo dedicato monumenti, vie e piazze, celebrazioni e medaglieri, a perenne ricordo della libertà ottenuta dalla barbarie borbonica.

In realtà i briganti furono loro, quegli assassini dei fratelli d'Italia (Angelo Manna).




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BIBLIOGRAFIA



BENEDETTO RADICE, Memorie storiche di Bronte, edizione Banca popolare di Bronte 1984

LEONARDO SCIASCIA, La corda pazza, Einaudi 1970 Giornale costituzionale di Napoli del 16 giugno 1860 Giornale di Sicilia del 4 luglio 1860

NICOLÒ MACHIAVELLI, Discorso sopra la prima deca di Tito Livio 

GIUSEPPE CESARE ABBA, Vita di Nino Bixio

GIUSEPPE BUTTÀ, Da Roma a Gaeta, memorie della rivoluzione del 1860-61, Bompiani 1975

GIUSEPPE BUTTÀ, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani 1975 Giornale della Provincia di Catania del 17 agosto 1860 

ARISTIDE BUFFA, Tre Italie, Editrice Esa 1961 Archivio di Stato di Catania Diario del console inglese Dikinson - Archivio Provinciale di Catania


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Fernando Mainenti, La regina in esilio,
Agorà XIII-XV (a. IV, Apr.-Dic. 2003)
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