"Le
Interviste
Impossibili sono un esperimento unico nella storia della radio Rai:
dialoghi fantasiosi e coinvolgenti con grandi personaggi del passato,
ricchi anche di riferimenti storici, ideati e realizzati da
intellettuali prestigiosi e letti da attori famosi. Furono trasmesse
sul primo e sul secondo canale radiofonico negli anni 1973, 1974 e 1975
con grande successo.
Sono tutte conservate nell'audioteca, da cui abbiamo tratto alcuni
brani come, ad esempio, un passaggio del colloquio fra Umberto Eco e
Muzio Scevola (la voce di Scevola è di Enzo Tarascio, la regia
di Marco Parodi), l'inizio dell'intervista fra Maria Bellonci e
Lucrezia Borgia (la voce è di Anna Maria Guarnieri, la regia di
Vittorio Sermonti, uno degli ideatori del programma), un passo del
dialogo fra Nelo Risi e Giosuè Carducci (la voce è del
grande Romolo Valli, la regia dello stesso Risi), il delizioso duetto
fra Umberto Eco e la Beatrice di Dante (con la voce di Isabella Del
Bianco). 50 interviste impossibili sono state riproposte nel 1998 in un
programma di RadioRai e Teche. È stato trasmesso anche un testo
inedito di Leonardo Sciascia, ritrovato nelle teche radiofoniche, che
intervista Maria Sofia ultima Regina di Napoli. Le voci sono quelle di
Adriana Asti e Andrea Camilleri, con la regia di Mario Martone."
D. Signora ...
Mi consente di chiamarla semplicemente signora, vero?
R. Dopo Edoardo, Faruk e Costantino; dopo le tante Marie,
Margherite
e Anne di cui si rallegreranno, tra tanta tristezza, le cronache:
proibirei persino al mio lacchè di chiamarmi maestà.
D. Ho indovinato
che lei non volesse più sentirsi regina: ma
credevo per il fatto che ormai da quasi trent'anni l'Italia è
una repubblica.
R. Ha sbagliato, invece: mi sento ancora regina, e la repubblica mi è indifferente ... Vede: io sono stata educata a un significato della parola repubblica come sinonimo di disordine, che è poi lo stesso significato che alla parola davano, e forse lo danno ancora, le popolazioni dell'Italia meridionale. In questo senso, l'Italia è stata sempre una repubblica: anche sotto la monarchia.
D. Allude a
quella dei Savoia?
R. Ma no, anche alla nostra: la monarchia dei Borboni di
Napoli non
era meno repubblica di quella dei Savoia. Anzi, a dirla francamente, lo
era di più.
D. Immagino che
con questo paradosso, dell'Italia sempre repubblica
perché sempre nel disordine, lei si spieghi perché
appunto dopo la proclamazione della repubblica, dopo che l'Italia -
almeno formalmente, secondo il suo punto di vista - è passata
dalla monarchia alla repubblica, sia venuta fuori una certa nostalgia e
rivalutazione dei Borboni di Napoli.
R. Esattamente. Repubblica per repubblica, cioè disordine per
disordine, meglio quello antico che il nuovo: si era talmente assestato
da somigliare all'ordine. E poi era così pittoresco, così
festoso, così splendido. Tutto era spettacolo: anche la forca,
anche la carestia ...
D. A proposito
di forca: lei avrà letto "La fine di un regno"
di Raffaele de Cesare ...
R. Ho letto tutti i libri che riguardano la dinastia dei
Borboni di
Napoli, e specialmente, con più attenzione, quelli che ne
raccontano la fine.
D. Ricorderà
dunque, del de Cesare, la descrizione
dell'ultima giornata napoletana sua e di suo marito ...
R. Ricordo: ma della mia seppe ben poco. Tutto sommato,
tirando a
immaginare, ci andò vicino quel vostro insopportabile D'Annunzio.
D.
Insopportabile anche per lei?
R. Soprattutto per me. Lei non immagina quanto siano
insopportabili,
per le regine, gli scrittori che amano le regine, l'eterno femminino
reale, e così via ...
D. Ma il poeta
dell'eterno femminino reale lei sa che fu caro a una
regina.
R. Lei dice: una regina, un poeta. Ma lui era poeta quanto lei
una
regina.
D. Né lui poeta
né lei una regina, dunque ...
R. Proprio così: di nome, di insegne. La regalità e la
poesia vanno oltre, sono ugualmente ineffabili ... Ma lei mi domandava
del de Cesare.
D. Si, ecco: de
Cesare descrive l'ultimo omaggio dei ministri a
Francesco II, registra le frasi che il re rivolge a ciascuno e si ferma
su quella che rivolge a Liborio Romano, ministro dell'interno ...
R. Ah, don Liborio ...
D. Don Liborio
... Vedo che il ricordo di Don Liborio la diverte.
R. Moltissimo. E malignamente ... Si, mi ricordo della frase
che il
de Cesare riporta, me ne ricordo anche perché mio marito,
tornando da quell'ultima cerimonia, me la riferì: "Don
Libò, guardat' u cuollo".
D. Questa frase,
piuttosto ambigua, il de Cesare ebbe il dubbio
volesse intendere "se torno faccio la festa", cioè ti faccio
afforcare; mentre don Liborio la interpretò come affettuosa
raccomandazione a guardarsi da Garibaldi e dal nuovo corso delle cose.
R. Ha ragione il de Cesare: Francesco II si proponeva,
tornando, di
farlo impiccare ... Poveretto, ci credeva davvero che avrebbe
riguadagnato il suo regno ... Ma in quanto a fare impiccare don
Liborio, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. L'avrebbe fatto di nuovo
ministro, anzi: Don Liborio era così divertente ... Più
che divertente: irresistibile ... In Italia i traditori, i ladri di
passo e i ladri di tavolino, gli assassini persino, sono tutti
divertenti, tutti irresistibili ... Passa una repubblica, ne viene
un'altra: e sono sempre al loro posto. "Ruba, ma è così
divertente". "Ha fatto ammazzare il tale, ma è così
simpatico". "So quello che è, forse mi tradisce: ma è
irresistibile". La conversazione degli italiani abbienti e potenti
è tutta intessuta di frasi simili. E alle frasi corrispondono
personaggi, fatti.
D. Lei esagera.
R. Le assicuro che no. Io forse conosco l'Italia meglio di lei.
D. L'Italia del
sud, se mai, e quand'era regno di Napoli.
R. Non c'è altra Italia che quella del sud: e mi meraviglio
che proprio lei non lo sappia. E non solo nella nozione in cui il
napoletano e il siciliano cancellano il piemontese e il lombardo al
punto che non ne resterebbe traccia se Stendhal non si fosse dichiarato
milanese e la contessa di Castiglione non fosse finita nell'alcova di
Napoleone III; ma in concreto, effettivamente ... Io mi sono fatta
questa immagine dell'Italia: un piccolo e innocuo serpente d'acqua che
nelle convulsioni del 1860 è diventato un nodo. Tenta di
sciogliersi, e il risultato è che si dà dei morsi senza
riuscirvi. Quel nodo è il sud. Scioglietelo e avrete l'Italia.
Ma credo che nessuno lo scioglierà mai.
D. E prima delle
convulsioni del 1860?
R. Un piccolo e innocuo serpente d'acqua. Se le aggrada posso
anche
dire: un'anguilla. E non solo per il suo sgusciare, per il suo
sfuggire, per i suoi letarghi; ma anche per i corsi e ritorni
misteriosi della sua civiltà, dei suoi inutili splendori ... Ma
stavamo parlando di don Liborio ...
D. Mi pare di
capire che lei, tornando a regnare, avrebbe fatto di
tutto perché suo marito lo facesse impiccare.
R. Ma no, don Liborio divertiva anche me ... O forse si,
l'avrei
fatto impiccare ... E' un problema che non mi sono mai posta, quello di
ciò che bisognava fare se fossimo tornati a Napoli, se fossimo
tornati a regnare. E per il semplice fatto che non ho mai creduto che
si potesse tornare ... Ricordo nitidamente l'episodio che mi diede la
certezza che non saremmo tornati e la coscienza, anche, che non valeva
la pena tornare. E' stato il giorno precedente alla nostra partenza da
Napoli per Gaeta: eravamo usciti dalla reggia in una carrozza scoperta,
per la passeggiata, come ogni giorno: per ostentare che tutto fosse
immutato, che l'avanzare di Garibaldi non ci preoccupava ... Ma lei
questo episodio lo avrà letto nel de Cesare.
D. Sì, e l'ho
trascritto nei miei appunti ... Eccolo ... L'ho
trascritto perché volevo chiederle quali fossero stati i suoi
sentimenti: realmente, al di là delle apparenze ...
R. Mi legga il suo appunto.
D. " ... il re
uscì dalla reggia in un legno scoperto,
insieme con la regina e due gentiluomini. Non appariva impensierito;
anzi Maria Sofia, quasi ilare, discorreva con vivacità ora con
lui ora con i due gentiluomini ... In una delle prime botteghe sotto la
Foresteria, oggi prefettura, stava allora la farmacia reale Ignone, la
quale sull'insegna aveva i gigli borbonici, ed il cui esercente era
stato un furioso reazionario. Una scala, poggiata all'insegna, impediva
il transito delle vetture. Il re si fermò e vide che alcuni
operai, saliti sulla scala, staccavano dalla tabella i gigli;
additò con la mano a Maria Sofia la prudente operazione del
farmacista, e nessuno dei due se ne mostrò commosso, anzi ne
risero insieme".
R. Verissimo. Ma il re fingeva di divertirsi: stava soffrendo
maledettamente. Io invece finii di soffrire proprio in quel momento:
come se fosse calato il sipario su un dramma lacrimoso e si fosse
rialzato immediatamente su una farsa. Ho riso veramente, forse anche
con una certa volgarità: improvvisamente libera, leggera, senza
responsabilità, senza doveri ... Niente più valeva la
pena, la nostra pena: tutto sarebbe mutato perché nulla mutasse,
con noi o senza di noi, contro di noi o contro i Savoia che stavano per
succedere a noi. Le vere dinastie erano quelle dei farmacisti Ignone,
dei don Liborio: le dinastie a due anime. Dinastie immutabili, dinastie
eterne. In un solo corpo, due anime: una reazionaria e una
progressista, una fascista e una anarchica, una massimalista e una
riformista, una che si confessa e una che bestemmia, una che va alla
messa di mezzogiorno e l'altra che frequenta le riunioni massoniche di
mezzanotte, una fedele e una che tradisce ...
D. Una frase che
ha detto poco fa, mi fa pensare che ha letto "Il
gattopardo".
R. No, non l'ho letto. Parodiando una battuta di Disraeli, le
dirò che quando voglio leggere un romanzo come "Il gattopardo",
non ho che da scriverlo. Naturalmente, ne ho sentito tanto parlare.
Dicono sia un bel libro, scritto molto bene. Io, si capisce, non sarei
stata in grado di scriverlo così bene: nemmeno in francese.
D. Perché non
l'ha letto?
R. Perché non ho mai letto un romanzo. Il romanzo è
una sconvenienza, una volgarità. E ancora di più se
è un aristocratico a scriverlo.
D. Ma prima mi
diceva di D'Annunzio: quel brano che la riguarda si
trova in un romanzo.
R. Quel brano me l'hanno letto una sera, a Parigi, in una casa
di
borghesucci.
D. In casa dei
Verdurin?
R. Non so come si chiamassero. Qualche volta un mio cugino
riusciva
a trascinarmi tra gente inverosimile.
D. Mi sa che per
una serata tra gente, come si dice, inverosimile,
lei è diventata personaggio di uno di quei grandi libri ...
R. Lo so. Ma non l'ho letto questo grande libro. Non lo
leggerò. E non voglio nemmeno parlarne.
D. Ha qualche
ricordo dell'autore?
R. Nessuno. Pare fosse un uomo del tutto insignificante, a
parte il
suo tremendo snobismo ... Eppure, tutti sembravano essere dell'avviso
che io debba rendere conto di tutta la mia vita solo su questo punto:
se ricordo o non ricordo Marcel Proust. Anche in certi luoghi alti, che
lei ancora non conosce, e dove mi aspettavo di dover rispondere
dell'amore e dell'odio, la prima e sola domanda che mi hanno fatto
è stata questa: "si ricorda di Marcel Proust?". No, non mi
ricordo: sono un'anima persa.
D. Interessante:
la letteratura come cosa dell'altro mondo.
R. Sembra di si: almeno per quanto riguarda questo signor
Proust. Mi
pare di aver capito che la sua operazione si sia svolta ai confini di
un segreto, di un mistero; che abbia tentato, non so, di vivere due
volte.
D. Forse quello
che lei ha definito tremendo snobismo è
appunto questo: un voler vivere due volte, uno sdoppiamento
dell'esistenza.
R. Può darsi, ma non me ne importa. A me è bastato
vivere una: troppe regole, troppa fatica ... E in quanto agli
scrittori: mi ricordo benissimo, invece, di Anatole France e di
Alphonse Daudet.
D. Ma non ha
letto libri né dell' uno né dell'altro.
R. Di France, qualche discorso funebre. E di Daudet qualche
articolo
polemico in difesa della monarchia ... No, sto sbagliando: il polemista
monarchico era suo figlio Lèon, quello che ha bollato come
stupido il secolo XIX. E con quanta ragione!
D. Ma di un
libro del padre deve almeno aver sentito parlare ...
R. Ma si, un romanzo diventato poi commedia: "I re in esilio".
Pare
che la protagonista, la regina Federica di Illiria, mi somigli ...
Stupidaggini, cose da romanzi.
D. Credo proprio
che le somigli. Se si leggessero in
continuità, il romanzo di Daudet e le pagine di Proust che la
riguardano, non ci sarebbe dubbio che il personaggio è lo
stesso. E non può essere un caso: i due scrittori hanno
conosciuto lei, parlano di lei.
R. Può darsi.
D. La cosa più
interessante, nel romanzo di Daudet, è
l'amore silenzioso, rispettoso fino al sacrificio, del giovane
intellettuale monarchico per la giovane regina. E' possibile, mi
consenta di chiederglielo, che Daudet abbia saputo di un amore simile,
ispirato da lei nei primi anni dell'esilio parigino?
R. Tanti mi hanno amata; e anche meno rispettosamente del
giovane
monarchico di Daudet. Nella storia della fotografia, lei forse non lo
sa, su di me è stato consumato l'ignobile esperimento di uno dei
primi forse, certamente dei più riusciti, fotomontaggi.
L'immagine di me nuda è corsa per l'Europa, ha avuto un mercato
... La regina nuda: immagini gli effetti, in un paese monarchico e
cattolico ... Certo, non ci voleva molto a capire che quel corpo non
era il mio, ma di una di quelle ciociare che scendevano a Roma a fare
le modelle o le balie. Un corpo italiano, un corpo romano: di quelli
che subito si sfasciano ... Ma credo sia piaciuto a tutti credere che
fosse il mio, anche ai più devoti difensori della nostra causa,
anche ai parroci e ai cardinali.
D. E lei che
effetto ne ha avuto?
R. Di indignazione, naturalmente. Ma anche di una certa
soddisfazione: i nostri nemici erano ignobili quanto i nostri amici; e
avevo creduto fossero invece i migliori. Poi, anche, una sensazione di
libertà: poiché quasi tutti credevano che quel corpo nudo
fosse il mio, era il mio. Insomma: ero libera fino alla nudità.
In questa sensazione, in questo sentimento, si insinuava la tentazione
di farmi davvero fotografare nuda: per cancellare con il mio corpo
giovane, esile, leggero quel corpo pieno e sul punto di sformarsi ...
Ma parliamo d'altro: o lei finirà col pubblicare questa
intervista in una rivista per uomini soli o per soli uomini.
D. Parliamo
d'altro, se vuole. E cioè ancora del regno delle
due Sicilie, dell'Italia ... Ecco: c'è un fatto che l'ha colpita
particolarmente, nelle sue brevi vicissitudini di regina, nel suo lungo
esilio di ex regina?
R. Non parlerei d'esilio: Parigi non era l'esilio, per me;
forse
l'esilio sarebbe stato il regnare a Napoli. O, tout court, il regnare
... Comunque: una cosa che mi ha colpita particolarmente ... Ecco: i
fatti di Bronte ... Lei mi pare ne sappia qualcosa.
D. Si, qualcosa
...
R. Noi eravamo assediati a Gaeta, quando ci giunse notizia di
quello
che era accaduto in quel piccolo paese della Sicilia dove il bisnonno
di mio marito aveva insediato come duca l' ammiraglio Nelson. La
notizia era questa: che delle popolazioni a noi fedeli si erano
sollevate contro Garibaldi e Garibaldi aveva mandato lì, a
fucilare, quel suo generale Bixio. La commozione di Francesco II fu
grande, e anche la mia. Per anni il nome di quel paese ebbe nel cuore
del re lo splendore della fedeltà, del martirio. Del resto, lo
dicevano anche gli storici e i memorialisti garibaldini e sabaudi: in
quel paese si era accesa ed era stata subito spenta la reazione
borbonica ... Più tardi, leggemmo la storia di quel paese
scritta da un padre cappuccino: e i fatti, apprendemmo, avevano avuto
tutt'altro senso. Quei contadini avevano sentito che Garibaldi portava
la rivoluzione, e l'avevano fatta. Semplicemente. Ma per aver fatto la
rivoluzione erano stati fucilati dai rivoluzionari. Non le sembra
incredibile?
D. Eh si,
incredibile.
R. Eppure, da altri libri che son venuti dopo quello del padre
cappuccino, non c'è dubbio: le cose sono andate effettivamente
così. E allora?
D. E allora?
R. Niente. Voglio dire: la forca di Francesco II, se fossimo
tornati, sarebbe stata più rivoluzionaria: a prendervi sarebbe
stato don Liborio.
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