Questa volta il Sud, malamente sospinto nel dirupo di un futuro macchiato di radioattività, ha alzato la testa, si è costituito "parte civile" contro un governo incivile, ha violato tutte le regole del fatalismo e della rassegnazione. E ha reagito coralmente a quella ipoteca funebre e alla sua procedura violenta.
Questa volta il Sud ha vinto.
Non solo Scanzano Ionico, non solo la mite e tenace Lucania: ma tutto
il Sud, una comunità e una identità, una storia e un
popolo, che hanno tematizzato se stessi non più come appendice
lamentosa e subalterna di un modello di sviluppo sempre da rincorrere,
non più come un "ritardo" sempre da colmare e sempre
incolmabile, non più come fotocopia sgualcita del nord
industrialista, ma come la possibile trama di un'altra idea di
modernità. Il Sud come "patria" anti-retorica: pacifica,
laboriosa, solidale.
Anzi come "matria", come cittadinanza che germoglia sulla madre-terra:
sui saperi tramandati dalla civiltà contadina, sulle memorie
epiche della lotta di classe, sulla fatica di una bonifica che
tramutò latitudini di malaria e di pellagra in economie
innovative e feconde, su quell'habitat che ospita valori d'uso
irripetibili: come la bellezza paesistica di tanti scorci lucani, il
pregio della costa metapontina, la suggestione commovente dei Sassi di
Matera o la incommensurabile ricchezza archeologica di quel cuore
ancora vivo di "Magna Grecia".
Non parlo delle cartoline illustrate di un Mezzogiorno idilliaco o
avvezzo al folclore: parlo di una storia, contraddittoria e drammatica,
in cui questa parte d'Italia ha cercato di emergere, spesso accettando
il ruolo ancillare di una integrazione passiva al comando economico del
centro-nord, spesso prestandosi come riserva di massa per l'occupazione
salariata o la sotto-occupazione, spesso scambiando la propria fame di
lavoro con colonizzazioni industriali che hanno ferito e devastato
interi territori.
La chimica, la siderurgia, quelle che chiamammo "cattedrali nel
deserto": cosa sono oggi, sono vita produttiva o sono morte
stratificata e multipla? Questa storia è giunta al suo capolinea
e chiede oggi - alle classi dirigenti nazionali ma anche a se stessa -
un severo, aspro rendiconto.
Non vogliamo più essere la carta carbone di qualcun altro. Non
vogliamo più essere area di parcheggio di qualcun altro. Non
vogliamo più essere discarica di qualcun altro.
Non è una secessione, un leghismo all'incontrario, un'insorgenza
di ribellismo di un popolo senza Stato: è una rifondazione del
senso di sé, del bisogno di cura, della voglia di un benessere
che sia innanzitutto un "essere bene".
Non una fuga dalla crescita ma certamente un'abiura dalla mitologia
luciferina della crescita senza vincoli sociali e ambientali.
Mai più a Gela il mare colorato d'inchiostro. Mai più a
Brindisi i polmoni gonfi di metastasi. Mai più uno sviluppo che
distrugge ricchezza e umanità.
Discutiamo pure di come attivare processi di re-industrializzazione, ma
che non siano la cenere e carbone dei mega-impianti dell'Enel.
Investiamo al Sud, ma non investiamo il Sud con i cingolati degli
imprenditori-generali come Carlo Jean. Ecco come vive, con i piedi
piantati nella sua terra (e territorio e ambiente e qualità
urbana), la nuova "questione meridionale". L'abbiamo vista spuntare a
Cosenza, nei giorni in cui si levò un'autentica rivolta del
popolo calabrese a protestare contro gli arresti dei nostri militanti
no-global: un popolo che si sentiva a sua volta carcerato dagli effetti
del liberismo e chiedeva libertà.
L'abbiamo vista crescere attorno alla Puglia murgiana che malsopporta
cave, spietramenti e poligoni di tiro.
L'abbiamo vista a Scanzano, a Metaponto, a Matera, nei blocchi stradali
e ferroviari, in questa straordinaria disobbedienza politica e sociale
di un Sud che ritrova le parole e i gesti per darsi coraggio e
riafferrare il bandolo di diverso futuro possibile.
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