Martedì scorso il nostro quotidiano ha pubblicato con un certo rilievo (in prima pagina)un commento a quello che era successo il sabato precedente a Caserta. I fatti sono noti e se ne è parlato anche troppo: nella reggia concessa a Ferdinando III, discendente dei Borbone ed erede al trono delle Due Sicilie, per festeggiare le sue nozze d'oro di fronte a ottocento invitati paganti (l'incasso pare sia andato per aiuti ai loro fratelli Kosovari), a un certo punto è stato suonato l'inno borbonico di Giovanni Paisiello.
Quello che ha scandalizzato tanti patrioti non è che il buon
Ferdinando III e il suo seguito si siano alzati per doveroso rispetto
ma che lo abbiano fatto anche il Ministro degli esteri italione Dini (e
gentile consorte) e tutte le altre personalità presenti a vario
titolo: Procuratori, Presidente della provincia, Eccellenze, Eminenze e
altezzosità varie.
Come è possibile - si sono chiesti tutti i buoni patrioti - che
questi abbiano potuto rendere omaggio a un regno "nemico"
dell'unità della Patria? E soprattutto, com'è ammissibile
che vengano concessi tanti onori ai Borbone quando si tengono lontani i
Savoia dal grembo premuroso e tricolore della madrepatria?
Per cominciare, dubito che la più parte dei presenti si sia resa
conto di quello che stava succedendo: quanti conoscevano l'inno di
Paisiello e quanti sapevano che era l'inno del defunto Regno?
Sicuramente lo sapeva Ferdinando III, che è infatti prontamente
scattato sugli attenti, e forse pochi altri nostalgici presenti in
sala. I coniugi Dini l'avranno preso per l'inno del Costarica e si sono
subito inturgiditi, tutti gli altri si sono alzati per imitazione,
perché hanno visto i potenti farlo: non c'è niente -
soprattutto in quelle assolate latitudini - che coinvolga la gente
più dell'imitazione leccapiedistica del potente di turno.
Avrebbero fatto lo stesso in presenza di qualche Don scattato in piedi
al suono di Funiculì Funiculà o del motivetto di Forza
Italia.Ma se poi qualcuno di loro lo avesse anche fatto coscientemente,
che male ci sarebbe stato?
È un inno carico di storia e solo per questo merita tutto il rispetto.
In quanto alla ritrita menata sui Borbone "negazione di Dio"
(c'è cascato anche Sergio Romano in un editoriale sul
Corrierone: ma non si è mai letto Alianello?), e alla ingiusta
disparità di trattamento con i "poveri" Savoia mi sembra poi che
si esageri.
Innanzitutto, i Borbone non hanno mai avuto la fregola di volere
unificare l'Italia (cosa che li pone sulla nostra lista dei "buoni") e
- soprattutto - ai Padani non hanno mai rotto le scatole.
Anche la presenza napoletana durante le "radiose giornate" del 1848
è stata poco più che formale: il corpo di spedizione del
generale Guglielmo Pepe ha fatto qualche marcia nella Bassa
infastidendo più le donne che gli Austriaci e se ne è
tornato a casa appena si è accorto che le cannonate erano vere e
non da parata.
I Savoia invece di guai ne hanno combinati un sacco e li stiamo ancora
pagando tutti. Sono i Savoia che hanno invaso l'Italia, che hanno
distrutto stati antichi per ridurli a provincie prefettizie, sono loro
che hanno intrapreso mortifere guerre, che hanno sfaldato il tessuto
antico di una intera area geografica.
I Borbone invece si facevano napoletanamente i fatti loro (belli o
brutti, ma che riguardavano solo loro e i loro concittadini) e non
dovevano poi neanche essere così tirannici se per quasi dieci
anni i loro sudditi hanno combattuto una sanguinosa guerra di
resistenza contro l'esercito savoiardo, con centinaia di migliaia di
morti, se molti di loro hanno resistito senza speranza per mesi a
Gaeta, a Messina o nell'eroica Civitella del Tronto alle cannonate
liberatrici dell'esercito italiano. Civitella si è arresa solo
il 20 marzo del 1861, tre giorni dopo la tronfia proclamazione del
Regno d'Italia.
E molte migliaia di soldati napoletani hanno preferito affrontare la
prigionia e la morte nei campi di concentramento piuttosto che abiurare
al loro giuramento di fedeltà ai Borbone. Nessuno ha fatto
altrettanto per i Savoia, figuriamoci per quelli un po' fighetti delle
ultime generazioni.
Alla Padania i Borbone non hanno fatto niente di male, i Savoia
sì. Basterebbe questo per fare alzare in piedi anche noi al loro
inno, altro che scrivere vaccate!
Se poi oggi si comincia a organizzare un movimento legittimista
napoletano che vuole andarsene dall'Italia, noi non possiamo che essere
con loro: combattiamo la stessa battaglia di libertà da Roma. Se
poi si vogliono rimettere sul trono un Borbone, sono solo fatti loro.
Credo che sia del tutto fuori posto che un organo di stampa
indipendentista pubblichi in prima pagina un articolo anti-borbonico e
patriottardo nella peggiore salsa italionesca. È anche peggio
ancora che lo faccia con elegante prosa Citiana e con citazioni
storiche sballate.
Questo ci porta a fare alcune brevi considerazioni sulla politica
culturale del nostro quotidiano. Neanche le (speriamo ultime) giornate
di sbando organizzativo che sta vivendo "La Padania" possono
giustificare cadute di livello del genere.
Si è sempre sostenuto (e in questi ultimi giorni lo si è
sottolineato con vigore) che la vera forza della Padanità deve
essere rappresentata dalla cultura identitaria: per questo abbiamo
inventato le pagine "Noi Padani" che ci siamo conquistate, con l'aiuto
di tanti collaboratori, con la solidarietà di tanti lettori e
dei più sensibili dirigenti del Movimento, strappando spazio a
pagine di cultura (si fa per dire) e di costume zeppe di tette
televisive, vicende di pederasti, notizie di guepieres e canzonette.
Per questo abbiamo sempre lottato (non sempre vittoriosamente) contro
la peggiore italionità lessicale, piena di Nord per Padania,
Alto Adige per Sud Tirolo, Paese per paese, eccetera. Ma tavanate come
quella sull'inno Borbonico sono veramente eccessive, soprattutto in
questi giorni di sofferenza del Movimento.
Il titolo di apertura dello stesso numero de "La Padania" era: "Lega,
l'ora del repulisti". Non è il caso di cominciarlo anche nel
nostro giornale?
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