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Secolo d'Italia - Giovedì 24 maggio 2001

Basta con le "vulgate"

Intervista a Paolo Mieli, autore di "Storia e Politica"

Aldo Di Lello


Dal 1796 a oggi, la storia italiana è la vicenda di varie guerre civili. Su tutti questi conflitti s'è imposta regolarmente la visone semplificata dei vincitori. Ma oggi è venuto meno il tempo di un esame sereno. La storiografia di sinistra? Non nega la necessità di una revisione. Pretende però di imporne i criteri. Emblematico il caso della mancata pubblicazione, due anni fa, della prefazione di Herling ai "Racconti di Kolyma" di Salamov. La memoria condivisa?on è la memoria uguale per tutti, ma quella che affronta i capitoli più scomodi.


Paolo Mieli è tra gli uomini di cultura che cercano di liberare il dibattito storiografico dalle ipoteche dell'ideologa. E' una visione autenticamente laica del passato quella che emerse dal suo libro Le storie, la storia pubblicato due anni fa. Lo stesso approccio viene ora confermato dal suo nuovo volume, Storia e politica - Risorgimento, fascismo e comunismo pubblicato in questi giorni da Rizzoli (pp. 387, L.35000).


La particolarità del discorso di mieli sta nella sua capacità di abbracciare i problemi della memoria storica italiana in un grande sguardo di due secoli. Uno dei motivi dell'insufficiente modo di "sentirci nazione è la permanenza, lungo un lunghissimo arco di tempo, di una sorta di "sindrome" di guerra civile.


La tendenza alle lotte intestine è dunque una costante della vicenda italiana dagli anni delle insorgenze ai nostri giorni?


Certamente. Nel mio libro considero i due secoli ed oltre che vanno dal 1796 a oggi come la storia di una lunga e complicata guerra civile, o per meglio dire, di più guerre civili. A volte questo conflitto è stato combattuto direttamente, altre volte è rimasto allo stato latente.


Occorre andare tanto indietro nel tempo per capire le anomalie del presente?


Occorre andare alla sorgente del fiume della storia. Non ci dobbiamo limitare a giudicare i problemi che arrivano alla foce.


Non dipenderà anche dal ruolo svolto dalla storiografia italiana?


Bè, diciamo che la storiografia coeva o immediatamente successiva agli avvenimenti si impone normalmente come storiografia dei vincitori. Come tale, nasconde le ragioni dei vinti e ne demonizza il ruolo. Si tratta comunque di un fenomeno fisiologico. Il problema nasce dalla storiografi, per così dire, del "secondo momento", quella che narra gli eventi a partire dai trenta o quarant'anni seguiti al loro verificarsi.


E questa seconda generazioni di storici tende, anch'essa, a essere faziosa invece di…


Invece di cominciare a depositare la parte più violenta della memoria e riflettere sulle zone d'ombra e le aree grigie.


Perché si verifica un così curioso fenomeno?


Perché la storia italiana è una storia travagliata, circostanza che ha complicato il lavoro degli studiosi. Prendiamo a esempio il periodo a cavallo tra l''800 e il '900. In quel periodo emerse una tendenza a considerare gli aspetti problematici del processo di unificazione nazionale. Poi però il dibattito sul Risorgimento come mito finì dentro il fascismo.


Per cui, il nuovo dibattito storiografico, quello del secondo dopoguerra, risultò condizionato dalla necessità di trovare radici sane al Risorgimento. Capitò così che figure come quella di Filippo Buonarroti, visto come un protocomunista dalla cultura di sinistra, risultarono sopravvalutate rispetto al ruolo storico che avevano effettivamente svolto.


Siamo insomma a un'idea politicizzata di Nazione. Quali altre anomalie sono state prodotte da questo approccio storiografico?


A esempio, il rimane in ombra di una strana circostanza.


Vale a dire?


Il fatto che Il Risorgimento fu compiuto senza consenso di popolo, laddove il brigantaggio (ma si tratta di un'espressione fuorviante) e, prima ancora le insorgenze furono invece movimenti ad ampia partecipazione popolare. Mi pare davvero strano che non siano stati dedicati volumi e volumi ad analizzare tale particolarità. Certo, vari studiosi hanno affrontato, qua e la, il fenomeno, ma rimane il fatto che, fino a tre anni fa, fino cioè al momento in cui se ne occuparono alcun storici di matrice cattolico-tradizionalista, le insorgenze erano pressoché ignorate nella "vulgata".


Dal tuo libro emerge una critica a certo "antirevisionismo"della storiografia di sinistra. Questa non nega la necessità di una revisione, ma si chiude poi a riccio quando tale operazione non è essa stessa a condurla. Pare di capire che l'intellighenza di sinistra pretenda di continuare a fissare i criteri dello "storiograficamente corretto" e dello storiograficamente scorretto".


Emblematico mi sembra il caso di Gustaw Herling, del quale parlo nel capitolo conclusivo. Si tratta di un grandissimo scrittore che due anni fa, nel suo ultimo anno di vita, scrisse una prefazione per "I racconti di Kolyma" di Salamov, pubblicati da Einaudi.


In quello scritto Herling metteva sullo stesso piano i "gemelli totalitari", cioè il comunismo e il nazismo. Ebbene, per aver scritto quelle cose, vide la sua prefazione cassata dal libro. Oggi, dopo due anni, questo concetto viene invece ammesso tranquillamente perché, nel frattempo , tale idea è stata fatta propria da autori di sinistra. Chi se ne fa portavoce dovrebbe però, prima di tutto, chiedere scusa alla memoria di Herling per non averlo difeso quando era il momento.


Insomma, ancor oggi è difficile discutere di storia.


Ed è sbagliato. Bisogna partire dal presupposto che tutto si può discutere. La storia non è fatta di asserzioni ma di intelligenti indagini, sempre suscettibili di essere capovolte da chi dispone di nuovi documenti oppure ritiene di dover avanzare nuove idee e punti di vista. Questo non significa che si debba imporre una "nuova vulgata", ma che non ci debbano essere più "vulgate". Intendiamoci, è comprensibile che alla fine di una guerra o di una grave lacerazione si imponga una visione semplificata dei fatti. Mi sembra però assurdo che un simile atteggiamento si mantenga per cinquant'anni o addirittura un secolo. A questo proposito vorrei ricordare un episodio curioso accaduto a Mac Smith.


Vale a dire?


Nel 1946, quando era un giovane studioso appassionato dell'Italia, venne a Torino e chiese di consultare le carte di Cavour. Con sommo stupore, apprese che non era possibile visionare quei documenti dal momento che riguardavano il modo in cui il Sud era stato conquistato da Piemonte: in quell'anno infuriava il moto separatista siciliano e si temeva che la divulgazione di quelle carte avrebbe appiccato l'incendio anche in altre parti del Paese. Ne nacque un caso e solo alcun anni dopo, per l'intervento di benedetto Croce, fu possibile consultare i documenti di Cavour. Parliamo di carte che erano ritenute pericolose anche ottanta, novant'anni dopo.


Lo stesso discorso vale per il fascismo e l'antifascismo?


In questo caso entrano in campo anche i sentimenti e le memorie personali. Io per esempio sono di famiglia antifascista da più generazioni. Mio padre era ebreo e abbiamo avuto parenti morti nei campi di concentramento. Lungi da me quindi l'idea di rivalutare in alcun modo il fascismo. Dico però che, se mi avvicino oggi in sede storica agli avvenimenti del '43-'45, devo saper distinguere. Mi chiedo perché dei giovani parteciparono alla Repubblica sociale senza avere la benché minima idea di cosa stesse accadendo nei campi di concentramento in germani. Mi interessa saperli perché la mia ostilità al nazismo e al fascismo si rivolge anche contro le altre forme di totalitarismo.


Non tutti la pensano così.


Ho il sospetto che tutti quelli che lanciano invettive non lo facciano perché temono davvero che si voglia riabilitare il fascismo, ma perché si oppongono alle indagini sull'altro versante, quello comunista. Tutto questo è sleale.


Com'è da intendere l'idea della memoria condivisa?


Non è la memoria uguale per tutti. Bisogna conservare la propria memoria, ma nel rispetto di quella altrui. Non si tratta di semplice omaggio a tutti i morti, ma della capacità di indagare tutte le zone d'ombra. Il rispetto per i caduti è un primo passaggio. Il secondo consiste nel cambiare atteggiamento verso i capitoli ritenuti scomodi. Il loro esame non deve essere visto come un riconoscimento compiuto verso i "nemici", ma come la conquista di un modo corretto, sincero e intellettualmente onesto di custodire la propria memoria.


Intervista di Aldo Di Lello



Storia e politica. Risorgimento,

fascismo e comunismo

Paolo Mieli

Edizioni Rizzoli - Pag. 390 - euro 17,04  

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