La storia non ha mai una sola faccia. E solo chi sa coniugare la memoria con l’oblio, ovvero con la capacità di rimettere in discussione verità che sembrano divenute dogmi, può raggiungere la verità di giudizio sui fatti, vicini e lontani, della nostra storia. Una sfida, quella lanciata dal giornalista e saggista Paolo Mieli (allievo di Renzo De Felice, già direttore della Stampa e del Corriere della Sera, ora direttore editoriale della Rcs) dirompente nella sua apparente banalità, almeno per la cultura italiana.
Tanto che il suo ultimo libro, «Storia e politica. Risorgimento,
Fascismo, Comunismo», pubblicato da Rizzoli, ha sollevato
polemiche tra gli intellettuali italiani, e ha raccolto ieri al
Sancarlino un numerosissimo pubblico, per il primo incontro dedicato ai
libri «Freschi di stampa», coordinato da Carla Boroni, ieri
anche nelle vesti di intervistatrice.
Freschissimo di stampa, in realtà, il libro di Mieli non lo
è (è uscito prima dell’estate) ma attualissimo rimane il
suo insegnamento. Tanto più in un momento in cui la situazione
politica internazionale azzera ogni certezza. E proprio alla guerra in
atto in Afghanistan, e ai possibili scenari futuri, Mieli ha dedicato
il «viatico» affidato al pubblico in chiusura
dell’incontro, parlando da giornalista più che da storico (
«la storia - ha spiegato - comincia solo vent’anni dopo i
fatti» ).
«Sugli sviluppi del conflitto in corso, un’idea chiara la avremo
solo tra qualche mese, nella primavera del 2002. Se rimarrà un
"braccio di ferro" tra Usa e talebani, se proseguirà con
attacchi in tono minore, questa cosa tragica che è la guerra
resterà entro un canale controllato, sia pure in una situazione
complessa e non risolta. Se invece assisteremo ad un altro attentato
terroristico della portata di quello delle Torri gemelle - ha aggiunto
Mieli - e magari in un Paese diverso dagli Usa, allora potremmo parlare
davvero dell’inizio della terza guerra mondiale. E in questo caso, la
cosa migliore che possiamo fare, fin da ora, è prepararci un
piano mentale per affrontarla, parlare con i nostri familiari, i nostri
amici, cercare di capire cosa sta accadendo e come potremo reagire.
Insomma, non arrivarci mentalmente impreparati».
La strada, ci dice Mieli, passa anche dalla nostra capacità di
affrontare la realtà senza pregiudizi e preconcetti. E qui entra
in gioco la storia, e l’incapacità, tutta italiana, «di
saperla scrivere due volte, come avviene in tutti i Paesi normali: la
prima dalla parte dei vincitori; la seconda, a distanza di tempo, dalla
parte dei vinti. E questo per una malintesa idea di revisionismo, per
il suo uso strumentale volto a colpire chi mette in discussione le
verità che si ritengono acquisite».
È stato così per il Risorgimento, «che non fu un
movimento di massa, come ci hanno raccontato, ma di una élite
liberale»; per il Fascismo, «che non è mai stato
riconosciuto, al di là di tutte le sue aberrazioni, come
espressione di un sentimento di partecipazione popolare ad un’idea di
nazione, dopo il primo momento di unificazione nelle trincee della
Grande guerra»; infine per il dopoguerra, quando chi era stato
fascista ha falsificato la propria appartenenza originaria, per
accreditarsi una sorta di verginità, ha spiegato Mieli,
ripercorrendo le «tappe» su cui è costruito il suo
saggio.
E via così fino ad oggi, quando dopo la caduta del blocco
sovietico, «nessuno, a parte Bertinotti, Diliberto e pochi altri,
ha avuto il coraggio di riconoscere la propria fede comunista: sembrava
che nessuno lo fosse mai stato.
L’Italia ha riprodotto il teatrino della mistificazione del proprio
passato: negando di esser stati comunisti, tanti intellettuali di
sinistra avevano bisogno di un’altra tradizione a cui ancorarsi, e
così hanno rispolverato, anzichè rivisitarlo, quel
groviglio che è la nostra storia dal 1860 ad oggi, facendosi
eredi di quel pasticcio».
L’alternativa mancata, almeno fino ad ora, è invece il
riconoscimento «di quei mille rivoli di cui si compose
l’unità d’Italia, dall’opposizione dei cattolici a quella del
meridione liquidata come "brigantaggio"», una eredità
complessa «in cui ognuno avrebbe potuto riconoscersi».
«Ogni storico - spiega Mieli - è un uomo del proprio
tempo, che inconsapevolmente proietta sul passato le idee che ha sul
presente».
E il rischio che si corre ancora oggi, proseguendo su questa strada,
è altissimo: «Affrontare i nuovi problemi internazionali
lasciando irrisolti quelli che riguardano il nostro passato, significa
permettere che anche sull’analisi di questioni come l’islam e il
terrorismo internazionale si riversino tensioni politiche, valutazioni
che dipendono dalla "ex-eità" di chi le affronta, dal suo essere
cioè erede di una cultura o di una appartenenza su cui non si
è fatta chiarezza.
Tutto questo non aiuta a capire, ci rende fragili e deboli. E -
conclude Mieli - in questa proiezione sul presente di vecchi schemi e
modi di pensare, soprattutto disonesti».
Giovanna Capretti
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