«Senza piloto ’a varca nun cammina» è l’antico proverbio napoletano che all’indomani dell’unità d’Italia sarebbe riecheggiato fra le strade dell’ex capitale borbonica, intendendo che quando manca una buona amministrazione una nazione non prospera.
Fu nel settembre 1860 che l’esercito piemontese
passando attraverso lo Stato pontificio entrò nel Regno di
Napoli, sconfiggendo sul Volturno l’ultimo presidio delle truppe
borboniche, già duramente messe alla prova dai garibaldini.
Quindi, con i plebisciti convocati da Cavour, si decideva
l’annessione del Regno di Napoli al resto dell’Italia in
via di unificazione, la quale poteva finalmente superare l’antica
frammentazione, mentre il Sud perdeva la sua secolare anacronistica
autonomia.
Eppure, la tanto agognata unità si rivelò
ben presto per il neonato governo una questione difficile da
affrontare, non solo per i problemi che il processo
d’unificazione inevitabilmente comportava, ma per
l’emergere di profonde differenze sociali, economiche e culturali
fra le regioni del nuovo stato.
L’urgenza di dare un assetto politico
all’Italietta, che doveva affacciarsi timidamente tra i colossi
della piazza europea, fece prevalere la più facile soluzione del
piemontismo, con il quale si estendevano gli ordinamenti piemontesi su
tutta Italia, mettendo a tacere con la forza le diverse esigenze locali.
Non stupisce, perciò, se agli occhi del popolo
meridionale l’intera faccenda risorgimentale si era conclusa con
una “conquista piemontese”, che aveva ignorato altre
proposte come il federalismo o il decentramento moderato suggerito da
Cavour.
Il Regno borbonico perse per sempre la sua fisionomia di
stato, trasformandosi in un insieme di province che da quel momento in
poi divennero il Sud povero e arretrato di un’Italia già
stanca e distratta al suo nascere.
Le industrie del Mezzogiorno furono presto colpite dalla
concorrenza esterna con l’abolizione delle vecchie tariffe
protezionistiche imposta dal nuovo governo.
Napoli, l’antica capitale, si vedeva privare delle
sue importanti funzioni amministrative ed economiche, con la chiusura
di uffici e ministeri, la soppressione della corte e
dell’esercito borbonico, con la conseguente partecipazione
marginale alla politica e alla cura dei propri problemi.
Restava irrisolta la vecchia questione agraria, che anzi
s’aggravò per il forte peso fiscale e la coscrizione
obbligatoria per la leva che privava per cinque anni le campagne delle
sue forze più giovani.
L’incapacità della classe di governo a
cogliere le aspettative del Sud e l’avvio di processi di
industrializzazione solo al Nord segnarono subito negativamente il
rapporto tra le due realtà italiane.
Lo scontento e la delusione si tradussero dopo pochi anni
nel fenomeno del brigantaggio, strumentalizzato dagli stessi Borboni
nella speranza di riconquistare il trono, aiutati dalla Chiesa.
Nel 1863 il governo, che temeva per l’unità,
emanò la Legge Pica con la quale si autorizzava l’esercito
a combattere contro i briganti. I paesi meridionali scenario delle
eversioni, furono cinti d’assedio e repressi duramente con
migliaia di morti e ventimila condanne ai lavori forzati. La vicenda
ebbe fine nel 1865, ma servì a sensibilizzare la società
italiana sulla questione, trasformando il problema meridionale in
problema nazionale, e alimentando una torrenziale produzione letteraria
e giornalistica, tesa ad indagarne le cause, nella quale emersero gli
scritti acuti di studiosi quali Fortunato, Franchetti, Sonnino.
Il vessillifero della “questione meridionale”
fu Pasquale Villari, con le sue Lettere Meridionali del 1875, prima
denuncia del degrado civile e dello sfruttamento del Sud. Lo storico
napoletano analizzava l’intero processo risorgimentale, asserendo
che quest’ultimo aveva portato «solo una rivoluzione
politica» non sociale. Il profondo malcontento scaturiva come
reazione di una popolazione che non era stata preparata
all’evento e che aveva visto quel nuovo potere estraneo e nemico,
in quanto aveva deposto con la forza l’antica legittima dinastia:
i Borboni del Regno delle due Sicilie.
Del resto, già subito dopo l’unità, lo
Stato si era rivelato assente verso quella parte dell’Italia, al
punto che in occasione di alcuni terremoti devastanti le regioni del
Sud, si deliberò di non intervenire nell’opera di
ricostruzione, lasciando l’iniziativa ai privati.
Bisognerà attendere un settantennio prima dell’adozione di
una incisiva e idonea politica d’intervento sul territorio,
mentre il Meridionalismo se da un lato attirava l’attenzione sul
problema, d’altra parte alimentava, non meno d’oggi, una
visione parziale del Sud, legata ai suoi limiti di miseria e
arretratezza.
Si finì così per l’offuscare un
passato pur ricco di slanci economici e culturali, malgrado gli
evidenti errori della precedente amministrazione borbonica.
Infatti, un forte incentivo all’ammodernamento di
istituzioni quasi immobili era avvenuto già durante il
dispotismo illuminato dei regni di Carlo Borbone e Ferdinando IV, in
cui operò una figura di grande rilievo, esperto di diritto: il
toscano Bernardo Tanucci. Egli si impegnò in un’opera di
riorganizzazione della giustizia e si scagliò contro i privilegi
baronali ed ecclesiastici, arrivando nel 1767 a far espellere i Gesuiti
dal Regno di Napoli. Sul piano economico invece i Borboni si avvalsero
dei validi contributi tecnici dei migliori esponenti del ceto
intellettuale napoletano, quali Genovesi, Palmieri, Galanti, Pagano,
Cuoco, mentre Filangieri e Caracciolo condussero una battaglia contro
l’inadeguatezza dei vecchi istituti giuridici. Fu nel 1788 che
Domenico Caracciolo, come ministro di re Ferdinando IV, abolì il
feudale tributo della chinea al soglio papale, cooperando a frantumare
un sistema secolare di anacronistiche consuetudini medievali. Queste
ultime furono poi spazzate via del tutto allorquando il Regno di Napoli
fu travolto dai fermenti francesi e conobbe prima, nel 1799, una breve
stagione repubblicana e poi, nel 1806, il benefico governo napoleonico
di Giuseppe Bonaparte, nel quale si scomposero le grandi
proprietà fondiarie del baronaggio.
Con l’aumento demografico, eredità del
fertile settecento europeo, il restaurato governo borbonico si assunse
la responsabilità di strappare terre alle paludi malariche,
realizzando una “Amministrazione generale delle
bonificazioni” che impegnò valenti uomini, come Bartolomeo
Grasso e Afan de Rivera, in una considerevole opera di riequilibrio
ambientale. Si veniva a creare così una “cultura del
territorio”, fatta di conoscenze ed esperienze di generazioni che
si sarebbe perduta nel 1860, quando il governo italiano lasciò
anche l’attività bonificatrice all’iniziativa
privata.
La produzione ortofrutticola e quella dei gelsi, delle
viti e degli olivi, avevano sempre contraddistinto l’immagine
solare del rigoglioso giardino mediterraneo, favorito dal clima mite,
ma dopo l’unificazione prevalse una visione di un Sud rurale e
arido, senza grandi risorse né slanci rinnovativi. Tuttavia va
ricordato che il regno borbonico con efficaci misure protezionistiche
aveva alimentato non solo diverse imprese industriali, ma il lavoro
casalingo di varie manifatture. Si pensi all’antica tradizione
della sericoltura, vanto della Calabria nel cinquecento, alle imprese
laniere di Arpino, Isola Liri e Sora, alle lavorazioni del vetro e
delle maioliche napoletane, alle famose porcellane della Real Fabbrica
di Napoli – città tra l’altro nota, insieme con
Solofra, per le sue concerie di pelle (molto richiesti erano i guanti
bianchi) – e alle rinomate filande specializzate in velluti, che
si affiancarono all’antica fabbrica di San Leucio, creata proprio
dai Borboni.
Inoltre il Regno vantava del cantiere-arsenale di
Castellammare e della fonderia di Pietrarsa. Fruttuose erano poi le
industrie alimentari di Torre Annunziata e Gragnano, e grazie anche al
capitale straniero, quelle della carta, tra cui la Lefebvre, che
esportava nei maggiori mercati europei. Ed è grazie
all’intraprendenza estera di un meccanico francese e alla
collaborazione di un ingegnere calabrese che nel 1833-34 a Capodimonte
nasceva la Macry & Henry, industria metalmeccanica.
Dunque i benefici della rivoluzione industriale avevano
sedotto persino la dinastia borbonica, che, per consolidare la propria
immagine in Europa, nel 1818 fece partire da Marsiglia il primo
battello a vapore: il Ferdinando I, di produzione francese.
E non si dimentichi che nel 1839 s’inaugurava, per di più, la prima linea ferroviaria d’Italia: la Napoli-Portici.
Tuttavia, il mutamento istituzionale, la politica
liberistica e filonordista del nuovo governo e il consolidarsi in parte
del Sud di una mentalità antagonista con lo Stato centrale
– che portò a infeconde forme occulte di potere illegale,
per il procacciamento e la gestione di risorse locali –
produssero gli storici danni dell’economia meridionale, e
alimentarono ben presto lo stereotipo impopolare contro cui il
Mezzogiorno tutt’oggi lotta, malgrado gli evidenti segni di una
ripresa.
Alla tenacia degli eredi dell’ex Regno di Napoli,
con le infauste vicende storiche di cui fu scenario, sia
d’augurio l’antico proverbio napoletano:
«chi sémmena ’mmiez’a ’e lacreme, arrecoglie ’mmiezo a’ priézza», intendendo che chi pur nella sofferenza ha seminato, poi raccoglie nella gioia.
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