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La Stampa - 14/03/2003

A TORINO SI E´ APERTO IERI E SI CONCLUDE DOMANI UN CONVEGNO
CHE ANALIZZA L´USO POLITICO DEL PASSATO

Marco Neirotti

A ciascuno la sua Storia e i suoi revisionismi

«LA Storia siamo noi». Un verso di Francesco De Gregori è diventato slogan, titolo di trasmissioni tv, modello di dialogo. Ma «la storia siamo noi» si riferisce a quando la facciamo, la Storia, a quando tentiamo di intervenire, nel piccolo, piccolissimo, pur sapendo che «dalla parte sbagliata si muore».


E anche da quella giusta. Ma quando non siamo noi la Storia, allora lei è quello che ci raccontano, ci insegnano, ci fanno leggere sui libri e ci vendono per verità. E anche quella che ci correggono cammin facendo. Eccola qui, la parolaccia: il revisionismo. Ma rivedere è davvero sbagliato? Rivedere non serve a capire meglio?


Può darsi, ma può darsi anche che a rivedere si vada di proposito, per aggiustar le cose al servizio di una ideologia. Per questo la parolaccia «revisionismo» acquista nobiltà per come viene trattata (da ieri a domani, alla Fondazione Agnelli di Torino) in un convegno organizzato da «Historia Magistra», Associazione Culturale per il Diritto della Storia e la Fondazione Piemontese Istituto Antonio Gramsci. Per iniziativa del professor Angelo d´Orsi, si incontrano studiosi di tre generazioni, da Della Peruta a Verucci, Bravo, Macry, a Pavone, Traniello, Vivarelli, Franzinelli, Agosti, Salvadori, Della Loggia, Galasso.


Rileggere la Storia è il senso delle tre giornate. E dalle parole di tutti, fin dall´inizio, emerge chiaro un punto fermo: rileggere la Storia significa, sempre e comunque, rileggere se stesso, capire che cosa si sta facendo.


Si piega una realtà a un´idea? O si scopre in un documento che alle nostre idee crea problemi?


In queste giornate si parla di Risorgimento, di Italia Liberale, di fascismo, di 8 settembre, di Salò e Resistenza. Sarà interessante, domani, l´incontro conclusivo, presieduto da Giuseppe Galasso, su «revisioni storiografiche e revisionismi ideologici».


Perché è lì il nodo.


C´è una cosa della quale il lavoro storico non può essere privato: è la visione dello studioso, è il suo lavoro sui documenti, su realtà che comunque va a leggere. Eppure l´influenza dell´ideologia, della politica, del sospetto di appartenenza proprio questa base vanno a minare, da parte di chi scava nel passato, da parte di chi giudica chi nel passato è andato a scavare. In apertura di convegno, proprio d´Orsi mette in risalto l´assurdo per il quale - occupandosi di fascismo e di vicinanze al fascismo di intellettuali italiani - si ritrova osteggiato, comunque nemico di una intellighenzia di sinistra cui appartiene e, insieme, si ritrova suo malgrado aspirato da una cultura di destra che avverte: avete visto?


lo dicono anche loro, anche quelli non sospetti di scelte.


È fango, questa fase della storiografia. Fango non nel senso che lo si tira addosso agli altri, ma fango nel senso che da un momento all´altro diventa sabbie mobili, prigione. Cioè ideologia. D´Orsi ha fatto citazioni dolorose. Quando uscì, per Einaudi, il suo La cultura a Torino tra le due guerre, gli domandavano: «Ma tu non ti sei domandato a chi avrebbe giovato il tuo libro?» (come ad accusarlo di una confessione di una parte), oppure: «Era proprio il caso di tirar fuori certe cose?».


Eccolo qui, il vero dilemma dello storico, del quale stanno disquisendo con rispetto reciproco a Torino. Il centro della questione è molto più basso, e insieme più profondo, dei dibattiti saccenti o delle grandi rivelazioni.


È tutto nella differenza fra «revisione», intesa come «andare a rileggere» situazioni ed episodi e collegamenti, e «revisionismo», inteso come intervento ideologico, cioè asservimento del lavoro dello storico a una ideologia.


Qui si citano Furet, Nolte, De Felice. E si citano anche quali autori talora di provocazioni. In realtà la questione è spostata di lato, è agganciata a due piani di rilettura. Non a caso sono state invitate tre generazioni di storici, quella formatasi negli Anni 50 e quella che in quegli anni è nata, poi ancora quella che della seconda generazione è diventata allieva.


Se ne accorgono discutendo, gli storici, di come cambia quella frase che dice «la storia siamo noi»: siamo noi anche mentre la raccontiamo, non soltanto mentre la viviamo.


Siamo la Storia perché alla Storia aggiungiamo qualcosa di nostro, per esempio l´occhio con cui andiamo a rivedere brandelli di passato. Se ascolti con pazienza gli storici che si raccontano, scopri di tutto: «La Storia serve? Non lo so, ma è divertente» (citazione da illustre maestro). Invece sanno che serve: «È democrazia».


Però è un cammino pilotabile, aggiustabile. Il centro del dibattito sta tutto lì, nell´onestà di chi va a rileggere. Ha ragione d´Orsi quando dice che uno storico che si limiti a prender per buono quello che gli hanno passato quelli più anziani è più un facchino che uno uno studioso. Il ricercatore ha diritto ad andare a rivedersi ciò che gli hanno passato.


Ma come lo fa? Con la sua cultura, la sua preparazione, i suoi modelli, i suoi confronti. E qui tutto può mutare. Eccola, la revisione, ed ecco perché tre generazioni di storici. Che cos'è Stalin, che cos'è Hitler di fronte a Milosevic?


Come il passato condiziona la lettura di un presente che è ancora cronaca e già storia, ma come questo presente di cronaca condiziona la Storia?


 Il dibattito della storiografia «revisionista» nel senso peggiore è un esempio di battaglia ideologica dove talora i morti sono più palline da ping pong in una gara che vittime cui portare rispetto: la Risiera di San Sabba? Vuoi mettere le foibe?


Questo insegnamento vien fuori da questi tre giorni: un conto è la Storia, un conto è la lettura personale e onesta della Storia, un terzo conto è il gioco delle tre carte con la Storia, fino a ribaltare, ingannare, nascondere, far ricomparire.


Si parlava ieri di «pratica rigorosa della ricerca documentale, fuori da ogni autocensura in nome di una qualche cautela politica, o di intenti cripticamente agiografici» e altrettanto lontana da «qualsivoglia intendimento accusatorio».


Ottima intenzione. Quello che ci si aspetta dall´ultima giornata è sentirsi dire «come si fa» a seguire quei buoni propositi. Coltiviamo tutti un´idea, se non un´appartenenza, una simpatia. Lo storico riesce davvero ad avere un unico amore, una moglie senza amanti chiamata Storia? A sentir loro è possibile. Ma è altrettanto vero che chi ama ha slanci.


Per questo è giusto il richiamo che esce da questo convegno, pur nel rispetto delle idee, delle generazioni: si metta in campo il proprio vissuto storiografico, che coincide con il proprio tragitto esistenziale, intellettuale, politico.


Però lo si faccia scoprendo le carte. La Storia deve essere racconto e spiegazione e invece si avvita, almeno in parte si avvita. Si avvita sul gusto della rilettura da biografia popolar-best seller, si avvita sull´aggiustamento ideologico di chi quel giorno ha deciso quella rilettura, si avvita anche sul momento più faticoso, che forse è quello degli storici più giovani: io rileggo così perché così io sto leggendo così, e così mi misurerò con i miei maestri.


La Storia è chi la fa, ma è anche chi la scrive. Per questo - nemici o cultori di una revisione che non deve essere revisionismo come ideologia - val la pena di ricordare la raccomandazione del professor d´Orsi: «Il silenzio è comunque la più crudele e ingiusta delle armi».

 



 

 

 

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