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Ringraziamo Edoardo Vitale per averci autorizzato a pubblicare questo articolo di Silvio Vitale, compianto fondatore e direttore della rivista "L'Alfiere".

Buona lettura e tornate a trovarci.

Webm@ster - 2 giugno 2006
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Fonte:
L'Alfiere - Anno XI n3 fascicolo 30 - ottobre 2000 - pag 3

Ricordo di Tommaso Pedio

di SILVIO VITALE

Conobbi Tommaso Pedio nell'ottobre del 1984, durante un convegno che si tenne a Napoli, nella villa Pignatelli, sul Brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d'Italia.


Pedio vi svolse una relazione su Reazione e brigantaggio in Basilicata. Il succo del suo intervento, che ribadiva una tesi già sostenuta in precedenti suoi studi, fu l'interpretazione del brigantaggio come classe sociale contrapposta a quella dei galantuomini che avevano aderito al regime piemontese per conservare ed estendere la propria egemonia.


Alla base di questa contesa, che fu vera e propria guerra civile, Pedio non poneva, tuttavia, il mero interesse economico. Descrivendo la protesta contro le usurpazioni demaniali e il drastico contenimento degli usi civici e, censurando l'egoismo dei galantuomini, metteva in evidenza una questione di denegata giustizia, un problema eminentemente morale. Ne parlammo insieme mentre lo accompagnavo rapidamente in macchina alla stazione perché potesse prendere il treno per Potenza.


Qualche anno dopo, avendo progettato con l'editore Capone di Cavallino la pubblicazione del mio "Congiurati di Frisio", un tentativo di insurrezione borbonica a Napoli durante l'occupazione piemontese, e avendo lo stesso Capone chiesto a Pedio di dare un giudizio sul lavoro e eventualmente scriverne la prefazione, ebbi occasione di scambiare una breve corrispondenza con lo storico lucano e di reperire, su suo consiglio, ulteriori fonti sul tema della repressione nel Mezzogiorno che costituiva lo sfondo del mio libro.


Nel gennaio del 1995 la prefazione di Pedio comparve in apertura de "Congiurati di Frisio", edito non da Capone, impegnato in altre iniziative, ma dalla cooperativa il Cerchio di Rimini.


L'anno dopo mi recai a Potenza dove incontrai Pedio nel sul studio e potei a lungo conversare con lui. Lo ricordo affabilissimo. Mi introdusse in due stanze sovraccariche di libri e di carte, che occupavano gli scaffali, i pavimenti, i tavoli e perfino sedie e poltrone.


Disinvolto ed agile in quel bailamme dall'instabile equilibrio, fece emergere, quasi come un prestigiatore, due sedie su cui ci accomodammo.


Fu lui naturalmente a parlare per primo. Dopo il 1860 - disse -si è preteso di scrivere la storia sulla scorta delle apologie risorgimentali dei vincitori, lo ho voluto dare voce ai vinti, a quelli che furono costretti a combattere per difendere elementari condizioni di vita. Ho contrastato la banale interpretazione del brigantaggio del Sud secondo cui vi sarebbero stati solo unitari da un lato e reazionari dall'altro.


Vi fu un ben più profondo contrasto politico alimentato dalla forte componente militare che andò ad irribustire le bande. Esse espressero anche esigenze sociali che finirono per essere prevalenti nella conduzione della guerriglia. Insomma respingo la semplicistica riduzione dei briganti a criminali comuni.


Sosteneva queste cose con voce pacata e decisa. Ma dava alle sue affermazioni un tono interrogativo come per indagare se per caso io la pensassi in modo diverso.


Non potevo che essere d'accordo. E lui proseguì. Disegnò a grandi tratti la secolare storia del Sud dai Normanni ai Borbone, ma per giungere a un obiettivo da centrare: l'eversione della feudalità che, dopo decenni di preparazione, ebbe la sua conclusione con i Napoleonidi.


Fu questa una gran truffa - sbottò Pedio -, non servì a ripartire più equamente la terra o a renderla più produttiva, insomma non servì alla nazione. Se ne giovarono i vecchi feudatari, non più titolari di tradizionali privilegi, ma ormai liberi proprietari delle loro terre, che potevano interdire ai contadini o vendere, e se ne giovarono i galantuomini cui si aprì la possibilità di accedervi senza dover rendere conto né allo stato né alle popolazioni.


Provai a proseguire io: I Borbone, all'epoca della Restaurazione, rimasero l'unico punto di riferimento per le classi meno abbienti. Per questo si ebbero l'odio delle consorterie borghesi, liberaleggianti e infine unitarie.


Qui Pedio non mancò di formulare una riserva: anche sotto i Borbone i possidenti ebbero modo di mantenere le loro posizioni dominanti. E furono borbonici fin quando, con l'avvento delle luogotenenze piemontesi, videro, e colsero, l'occasione per impadronirsi delle residue terre demaniali o ecclesiastiche, costringendo le popolazioni a scegliere tra la miseria, il brigantaggio o l'emigrazione.


Improvvisamente Pedio interpolò la conversazione con un'affermazione perentoria: Sa, io sono di sinistra, anzi di estrema sinistra... Risposi: Ed io all'opposto. Convenimmo che si potevano avere diversi punti di vista purché - e qui usammo il gergo avvocatesco comune ad entrambi - nulla si inventasse "in punto di fatto".


Pedio proseguì: Al tempo dei Borbone, nonostante il rapporto tra le classi fosse già sbilanciato in favore dei possidenti, si ebbero enormi progressi nel campo manifatturiero e industriale con benefici effetti in tutto il Meridione. Nel 1860 il regno delle Due Sicilie era economicamente all'avanguardia di tutti gli stati italiani.


Qui Pedio s'impennò: Non condivido la tesi di Giustino Fortunato sulla endemica arretratezza del Sud. Nel 1860 il regno delle Due Sicilie era economicamente all'avanguardia di tutti gli stati italiani.


La Questione Meridionale? Nacque dopo, con l'unificazione. Ed è perdurata e perdura come conseguenza dell'acquiescenza della classe dirigente meridionale alla politica italiana orientata a convogliare al Nord tutte le risorse della Nazione.


Era circa l'una del pomeriggio e uscimmo per fare un po' di strada insieme e prendere un caffè. A un tratto si fermò e mi chiese: Ma perché lei è nel MSI? Aggiunse che, durante il Ventennio, la classe dirigente meridionale, fattasi fascista, continuò ad essere succuba degli interesse del Nord. Gli risposi che all'epoca la politica mediterranea del fascismo riaccese le speranze del Sud, che i meridionali smisero di emigrare...


Risposte quasi ovvie. Perché avevo aderito al MSI? Per amor di patria, perché ero disgustato dal tradimento e dal trasformismo e sentivo un debito di coerenza con i vinti di allora. A ben vedere essi si aggiungevano ai vinti del secolo precedente.


Mi prese sottobraccio e andammo a sorbire il caffè. Ricordo che concluse sulla necessità di una nuova storiografia che indagasse a fondo i documenti. Dopo oltre un secolo e mezzo dall'annessione piemontese - soggiunse - vi sono ancora accademici per i quali è inammissibile che, tra i sovrani preunitari, vi sia stato qualcuno meno reazionario e più illuminato del re di Sardegna!


Ci salutammo.


Qualche anno dopo, in vista dello svolgimento di uno dei convegni tradizionalisti di Gaeta, gli telefonai per pregarlo di voler intervenire. Precisai che era atteso da tutti i partecipanti con l'interesse dovuto alla sua indefessa e preziosa attività scientifica.


Rispondendo, adottò il "voi" il luogo del "lei" usato in precedenza. Considerato l'uso spiccatamente napoletano del "voi", mi parve di sentirlo benevolmente vicino. Mi apostrofò: Ma voi sapete quanti anno ho?...Me lo scandì, ed io ora non rammento quanti fossero. Ricordo solo che riebbi nella mente l'immagine di quell'uomo sereno, pago di aver servito con onestà il proprio ideale storiografico e, con esso, la gente del Sud.


Nel febbraio scorso, alcuni amici di Potenza mi comunicarono che Pedio era morto.

Non dirò retoricamente che lui vive ancora nei libri che ha lasciato. E' questa una verità che non consola, un modo di esorcizzare una perdita. Tale essa rimane nello scorrere de! tempo e nel rifluire dei sentimenti.



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L'Alfiere - Anno XI n3 fascicolo 30 - ottobre 2000 - pag 3






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