Ringraziamo Edoardo Vitale per averci autorizzato a pubblicare questo articolo di Silvio Vitale, compianto fondatore e direttore della rivista "L'Alfiere".
Buona lettura e tornate a trovarci.
Conobbi Tommaso Pedio nell'ottobre del 1984, durante un convegno che si tenne a Napoli, nella villa Pignatelli, sul Brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d'Italia.
Pedio vi svolse una relazione su Reazione e brigantaggio in Basilicata.
Il succo del suo intervento, che ribadiva una tesi già sostenuta
in precedenti suoi studi, fu l'interpretazione del brigantaggio come
classe sociale contrapposta a quella dei galantuomini che avevano
aderito al regime piemontese per conservare ed estendere la propria
egemonia.
Alla base di questa contesa, che fu vera e propria guerra civile, Pedio
non poneva, tuttavia, il mero interesse economico. Descrivendo la
protesta contro le usurpazioni demaniali e il drastico contenimento
degli usi civici e, censurando l'egoismo dei galantuomini, metteva in
evidenza una questione di denegata giustizia, un problema eminentemente
morale. Ne parlammo insieme mentre lo accompagnavo rapidamente in
macchina alla stazione perché potesse prendere il treno per
Potenza.
Qualche anno dopo, avendo progettato con l'editore Capone di Cavallino
la pubblicazione del mio "Congiurati di Frisio", un tentativo di
insurrezione borbonica a Napoli durante l'occupazione piemontese, e
avendo lo stesso Capone chiesto a Pedio di dare un giudizio sul lavoro
e eventualmente scriverne la prefazione, ebbi occasione di scambiare
una breve corrispondenza con lo storico lucano e di reperire, su suo
consiglio, ulteriori fonti sul tema della repressione nel Mezzogiorno
che costituiva lo sfondo del mio libro.
Nel gennaio del 1995 la prefazione di Pedio comparve in apertura
de "Congiurati di Frisio", edito non da Capone, impegnato in altre
iniziative, ma dalla cooperativa il Cerchio di Rimini.
L'anno dopo mi recai a Potenza dove incontrai Pedio nel sul studio e
potei a lungo conversare con lui. Lo ricordo affabilissimo. Mi
introdusse in due stanze sovraccariche di libri e di carte, che
occupavano gli scaffali, i pavimenti, i tavoli e perfino sedie e
poltrone.
Disinvolto ed agile in quel bailamme dall'instabile equilibrio, fece
emergere, quasi come un prestigiatore, due sedie su cui ci accomodammo.
Fu lui naturalmente a parlare per primo. Dopo il 1860 - disse -si
è preteso di scrivere la storia sulla scorta delle apologie
risorgimentali dei vincitori, lo ho voluto dare voce ai vinti, a quelli
che furono costretti a combattere per difendere elementari condizioni
di vita. Ho contrastato la banale interpretazione del brigantaggio del
Sud secondo cui vi sarebbero stati solo unitari da un lato e reazionari
dall'altro.
Vi fu un ben più profondo contrasto politico alimentato dalla
forte componente militare che andò ad irribustire le bande. Esse
espressero anche esigenze sociali che finirono per essere prevalenti
nella conduzione della guerriglia. Insomma respingo la semplicistica
riduzione dei briganti a criminali comuni.
Sosteneva queste cose con voce pacata e decisa. Ma dava alle sue
affermazioni un tono interrogativo come per indagare se per caso io la
pensassi in modo diverso.
Non potevo che essere d'accordo. E lui proseguì. Disegnò
a grandi tratti la secolare storia del Sud dai Normanni ai Borbone, ma
per giungere a un obiettivo da centrare: l'eversione della
feudalità che, dopo decenni di preparazione, ebbe la sua
conclusione con i Napoleonidi.
Fu questa una gran truffa - sbottò Pedio -, non servì a
ripartire più equamente la terra o a renderla più
produttiva, insomma non servì alla nazione. Se ne giovarono i
vecchi feudatari, non più titolari di tradizionali privilegi, ma
ormai liberi proprietari delle loro terre, che potevano interdire ai
contadini o vendere, e se ne giovarono i galantuomini cui si
aprì la possibilità di accedervi senza dover rendere
conto né allo stato né alle popolazioni.
Provai a proseguire io: I Borbone, all'epoca della Restaurazione,
rimasero l'unico punto di riferimento per le classi meno abbienti. Per
questo si ebbero l'odio delle consorterie borghesi, liberaleggianti e
infine unitarie.
Qui Pedio non mancò di formulare una riserva: anche sotto i
Borbone i possidenti ebbero modo di mantenere le loro posizioni
dominanti. E furono borbonici fin quando, con l'avvento delle
luogotenenze piemontesi, videro, e colsero, l'occasione per
impadronirsi delle residue terre demaniali o ecclesiastiche,
costringendo le popolazioni a scegliere tra la miseria, il brigantaggio
o l'emigrazione.
Improvvisamente Pedio interpolò la conversazione con
un'affermazione perentoria: Sa, io sono di sinistra, anzi di estrema
sinistra... Risposi: Ed io all'opposto. Convenimmo che si potevano
avere diversi punti di vista purché - e qui usammo il gergo
avvocatesco comune ad entrambi - nulla si inventasse "in punto di
fatto".
Pedio proseguì: Al tempo dei Borbone, nonostante il rapporto tra
le classi fosse già sbilanciato in favore dei possidenti, si
ebbero enormi progressi nel campo manifatturiero e industriale con
benefici effetti in tutto il Meridione. Nel 1860 il regno delle Due
Sicilie era economicamente all'avanguardia di tutti gli stati italiani.
Qui Pedio s'impennò: Non condivido la tesi di Giustino Fortunato
sulla endemica arretratezza del Sud. Nel 1860 il regno delle Due
Sicilie era economicamente all'avanguardia di tutti gli stati italiani.
La Questione Meridionale? Nacque dopo, con l'unificazione. Ed è
perdurata e perdura come conseguenza dell'acquiescenza della classe
dirigente meridionale alla politica italiana orientata a convogliare al
Nord tutte le risorse della Nazione.
Era circa l'una del pomeriggio e uscimmo per fare un po' di strada
insieme e prendere un caffè. A un tratto si fermò e mi
chiese: Ma perché lei è nel MSI? Aggiunse che, durante il
Ventennio, la classe dirigente meridionale, fattasi fascista,
continuò ad essere succuba degli interesse del Nord. Gli risposi
che all'epoca la politica mediterranea del fascismo riaccese le
speranze del Sud, che i meridionali smisero di emigrare...
Risposte quasi ovvie. Perché avevo aderito al MSI? Per amor di
patria, perché ero disgustato dal tradimento e dal trasformismo
e sentivo un debito di coerenza con i vinti di allora. A ben vedere
essi si aggiungevano ai vinti del secolo precedente.
Mi prese sottobraccio e andammo a sorbire il caffè. Ricordo che
concluse sulla necessità di una nuova storiografia che indagasse
a fondo i documenti. Dopo oltre un secolo e mezzo dall'annessione
piemontese - soggiunse - vi sono ancora accademici per i quali è
inammissibile che, tra i sovrani preunitari, vi sia stato qualcuno meno
reazionario e più illuminato del re di Sardegna!
Ci salutammo.
Qualche anno dopo, in vista dello svolgimento di uno dei convegni
tradizionalisti di Gaeta, gli telefonai per pregarlo di voler
intervenire. Precisai che era atteso da tutti i partecipanti con
l'interesse dovuto alla sua indefessa e preziosa attività
scientifica.
Rispondendo, adottò il "voi" il luogo del "lei" usato in
precedenza. Considerato l'uso spiccatamente napoletano del "voi", mi
parve di sentirlo benevolmente vicino. Mi apostrofò: Ma voi
sapete quanti anno ho?...Me lo scandì, ed io ora non rammento
quanti fossero. Ricordo solo che riebbi nella mente l'immagine di
quell'uomo sereno, pago di aver servito con onestà il proprio
ideale storiografico e, con esso, la gente del Sud.
Nel febbraio scorso, alcuni amici di Potenza mi comunicarono che Pedio era morto.
Non dirò retoricamente che lui vive ancora nei libri che ha lasciato. E' questa una verità che non consola, un modo di esorcizzare una perdita. Tale essa rimane nello scorrere de! tempo e nel rifluire dei sentimenti.
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