Numerosi circoli nel Sud sono impegnati a riscrivere le vicende dell’Unità, «falsata» dagli storici sabaudi
di
Ottavio Rossani
Sulla facciata del palazzo reale a Napoli campeggia, nella nicchia all'estrema destra, la statua bianca di Vittorio Emanuele II con la spada sguainata. È in buona compagnia perché nelle altre nicchie ci sono i capostipiti delle dinastie che hanno governato il Regno delle Due Sicilie: normanni, svevi, angioini, aragonesi, Gioacchino Murat, eccetera. L'anomalia disturba. Sarà banale, ma Vittorio Emanuele II messo lì è il simbolo della falsità storic dice Pietro Golia, giornalista ed editore, animatore di Controcorrente , associazione culturale e casa editrice i cui libri rileggono l'epoca dell'unificazione dell'Italia e riabilitano i Borboni.
L'ultimo, appena uscito, è il romanzo di Gianandrea De
Antonellis Non mi arrendo che ambienta una storia d'amore nell'assedio
di Gaeta, esaltando l'eroismo dei soldati napoletani asserragliati con
i sovrani Sofia e Francesco II. «Vittorio Emanuele non è
un fondatore del Regno, come gli altri personaggi - continua Golia - ma
l'affossatore, il conquistatore, colui che con l'inganno ha tolto il
terreno sotto i piedi al "caro cugino", come lo chiamò
nell'ultima lettera in cui lo rassicurava di non avere mire
espansionistiche».
Che Pietro Golia abbia simpatie borboniche è chiaro. Ma non lo
dice. Anzi corregge e precisa: «Ci sono molti gruppi borbonici e
neoborbonici (o tradizionalisti, come preferiscono chiamarsi), ma quasi
tutti sono pragmatici: non si può tornare indietro. Il nostro
obiettivo non è far tornare i Borboni, ma recuperare la
verità sulla formazione dell'Italia unita. Facciamo convegni,
pubblichiamo libri, organizziamo feste ed eventi culturali. Emerge una
cosa importante: i Borboni non sono stati oscurantisti e retrogradi,
come gli storici sabaudi e i loro successori hanno stabilito per
legittimare la conquista del Sud, e il brigantaggio non fu un fenomeno
criminale ma una resistenza popolare all'esercito piemontese invasore.
Gli studi sul brigantaggio vanno a ruba: credo perché nel
brigantaggio si riscopre il "pensiero ribelle" contro la cultura
omogeneizzante delle multinazionali». Pietro Golia è uno
dei tanti rappresentanti di associazioni e circoli e case editrici che
adottano i Borboni, i Lorena, il Papa come riferimenti storici alle
loro aspirazioni non politiche (forse prepolitiche) di una maggiore
conoscenza, reale e critica, del periodo risorgimentale. E sono gruppi
di pressione sugli storici, prima che sulla società.
L'associazione Anti89 di Firenze, presieduta da Giuseppe Pucci
Cipriani, attraverso la casa editrice Effedieffe, ha pubblicato un
centinaio di libri. Pucci Cipriani dirige la rivista Controrivoluzione
che ha il sostegno del pretendente al granducato di Toscana, Sigismondo
d'Asburgo Lorena. Ha organizzato un convegno a Civitella del Tronto (si
conclude oggi) sul tema «Tradizione e globalizzazione: le patrie
contro la repubblica universale». Tra i partecipanti, Massimo De
Leonardis, università Cattolica, studioso del Risorgimento come
«guerra di religione», che ha appena pubblicato tre saggi
nel volume La rivoluzione italiana (Il Minotauro), a cura di Massimo
Viglione, sulla situazione degli Stati preunitari. Altri circoli in
molte città del Nord hanno per riferimento gli Asburgo del
Lombardo-Veneto.
A Rimini è attivo Il cerchio , guidato da Francesco Mario
Agnoli; a Napoli e a Bari il Solco che fa capo a Marco Francesco De
Marco, il quale dice «accoglieremo i Savoia a pomodori» nel
caso dovessero ritornare in patria. La cooperativa editrice il Giglio
di Napoli pubblica ricerche soprattutto sul rapporto tra Stato e
Chiesa. Quando è stato presentato, giorni fa, l'ultima opera La
difesa del Regno sull'assedio di Gaeta, prima del dibattito è
stato eseguito l'inno borbonico scritto da Paisiello. «Nessuna
nostalgia e nessuna pretesa che tornino i Borboni - precisa Giovanni
Turco -. Necessità invece di recuperare la memoria storica, che
smentisce l'arretratezza del Regno delle Due Sicilie, decretata dalla
storiografia ufficiale». Il decano di tutti questi storici e
animatori neoborbonici è Silvio Vitale, con la rivista L'Alfiere
, a Napoli.
«Questa revisione ha riscoperto la situazione reale degli Stati
preunitari - dice Paolo Macry, università di Napoli, autore di
imponenti studi sull'Ottocento - che la storiografia "classica" ha
volutamente sottovalutato e disprezzato». «A parte gli
atteggiamenti folcloristici di certi gruppi che non m'interessano -
ribatte lo storico Giuseppe Galasso, università di Napoli -
ricerche innovative non ne vedo. Si esalta tanto il regno borbonico
come un Paese ben amministrato e avviato alla modernizzazione, ma non
era così. Come può essere caduto in soli tre mesi uno
Stato così funzionante e amato dal popolo? La verità
è che quello Stato era arrivato alla sua consunzione. L'esercito
fu l'unica componente che si battè con onore e dignità.
Ma ovviamente non bastava». «Quando si fece l'Unità,
il ceto dirigente si pose il problema della nuova organizzazione dello
Stato - ricorda Alfonso Scirocco -. Una commissione studiò un
progetto di Stato decentrato, ma il Parlamento lo bocciò. Con il
modello napoleonico imperante, non poteva essere altrimenti». Il
vaso «neoborbonico» comunque è stato aperto. E i
fumi che ne escono sono tanti e molto diversi. C'è tanta materia
da analizzare. E il «filone» tira anche sul piano
editoriale.
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