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LUNEDì 18 DICEMBRE 2006 – CORRIERE DELLA SERA
SUD Dalla legge Pica alla rivolta di Scanzano, il saggio di Raffaele Nigro riapre la questione

Banditi o rivoluzionari? Il ritorno del brigante

Gli storici divisi e c'è chi vuole una strada per Carmine Crocco
di CARLO VULPIO

L’ultima volta che i briganti sono ricomparsi da protagonisti sulla scena politica italiana è stato esattamente tre anni fa, quando il governo decise di realizzare a Scanzano .Ionico, in Basilicata, il sito unico nazionale di stoccaggio delle scorie radioattive. La popolazione lucana, poco più di seicentomila persone, si ribellò e organizzò la protesta “dal basso» e in maniera spontanea. La regione venne bloccata, ogni valico diventò un check poìnt da cui i “ribelli» decidevano chi e che cosa far passare, e si arrivò anche a minacciare la secessione della Basilicata dall'Italia e la proclamazione di una repubblica lucana attraverso un referendum, qualora la decisione del governo non fosse stata ritirata (come poi è accaduto).

Per dare forza politica e identitaria a una protesta trasversale e di massa, che culminò in una marcia di centomila persone sulla strada Taranto-Reggio Calabria, gli slogan, l'immagine e l'immaginario più adatti, veloci, condivisi, “simpatici», non potevano che essere — in una terra di briganti e di un brigante di un certo livello come Carmine Crocco – quelli che volevano i briganti simbolo della riscossa contro l'iniquità e la sordità del potere.

Proprio come le ballate popolari non hanno mai smesso di celebrare. Non solo nel Sud Italia, ma in tutto il Paese e in Europa, dai tempi di Robin Hood all'ultimo successo disco-pop di appena due anni fa. “Dragostea din tei», gradevolissima canzonetta romena che esalta l'amore dì un hajduk, uno di quei briganti gentiluomini che nei Balcani difendevano i cristiani dalle vessazioni dei turchi e combattevano tutte le ingiustizie (e se il brigante è un grande amatore, la leggenda è completa).

Da questo impasto di mito e storie vere prendono forma i briganti raccontati da Raffaele Nigro nel suo ultimo libro, Giustiziateli sul campo (Rizzoli, pp. 699, € 26), che non è un romanzo, ma un poderoso lavoro storiografico, una sorta di storia della letteratura del e sul brigantaggio e, allo stesso tempo, un dizionario biblio-grafico-cronologico per sapere tutto ciò che c'è da sapere su briganti e brigantaggio (e origini della questione meridionale), persino come lì hanno rappresentati la pittura, il teatro, il cinema, nelle versioni “impegnata» e “di cassetta».

Delinquenti e romantici, spavaldi e feroci, mercenari e uomini d'onore. I briganti sono stati tutto questo. Ma sulla scia dì un altro grande studioso del fenomeno, Tommaso Pedio, Nigro rifiuta la riduzione del brigantaggio a fenomeno delinquenziale e ne accoglie la più convincente interpretazione di “rivolta anarcoide, risposta selvaggia, priva di regole e di programmi, di un popolo stremato da antiche que-stioni economiche».

Una rivolta in cui può accadere che il brigante diventi ciò che Friedrich Schiiler, nel dramma I Masnadieri, voleva che fosse: “Un giustiziere contro la madre di tutti gli inganni: la politica». Le riflessioni di Nigro però risultano efficaci non solo perché superano la visione del “brigante romantico», ma anche perché insistono sull'uso che del brigantaggio è stato fatto di volta in volta dal potere.

La Chiesa, per esempio, che con Sisto V faceva radere al suolo i paesi che ospitavano i briganti, non si fece scrupolo di armarli contro gli insorti della Repubblica napoletana nel 1799, della Repubblica romana nel 1849 e di sostenerli in funzione antiunitaria contro i piemontesi. Ma anche questi ultimi, scrive Nigro, sono stati vittime “dell'ironia della storia», perché anche il Piemonte ha avuto i suoi briganti: nei 1796, contro l'occupazione francese. E non erano briganti tanto diversi da quelli che l'Italia unificata dai Savoia decise di far “giustiziare sul campo» con l'applicazione, dal 1863 al 1865, della “legge Pica», che dichiarava lo stato dì guerra, istituiva i tribunali speciali e consentiva le esecuzioni sommarie. La legge Pica fece un numero imprecisato di vittime. Ma il Parlamento della nuova Italia, sostiene Nigro, “non volle vedere nella rivolta sociale delle province una violenta reazione all'aggressione piemontese».

Torniamo ora al no “brigantesco» alle scorie nucleari da stivare a Scanzano Ionico, perché è da lì che tutto è cominciato, anche l'idea del libro di Nigro.

La protesta non era preconcetta, né frutto della “sindrome Nimby» (Noi in my hackyard, “Non nel mio cortile»), poiché, come è stato ampiamente dimostrato, la scelta fu poco meditata, gli studi sulla “tenuta» del territorio furono scarsi e insufficienti, la decisione nascosta alle popolazioni fino all'ultimo.

Quanto più percepita come iniqua e autoritaria la decisione, tanto più considerata giusta la ribellione: ecco dunque spiegata la rievocazione dei briganti “buoni» e il ritorno di fiamma delle mai sopite polemiche sul brigantaggio, che da sempre dividono la storiografia e gli stessi “testimoni» diretti, con punte di violenta contrapposizione sulla interpretazione del brigantaggio degli anni immediatamente successivi all'unità d'Italia (guerra di resistenza all'occupazione piemontese o manifestazione reazionaria filoborbonica e filopapista?).

Subito dopo i fatti di Scanzano, si accapigliano il prefetto di Potenza e il sindaco di un piccolo comune potentino, Latronico, che ai briganti voleva dedicare una strada. “Criminali», li definisce il prefetto. “No, patrioti», ribatte il sindaco. Nella disputa, intelligente e documentata, svolta sulla Gazzetta del Mezzogiorno, si inserisce Raffaele Nigro, che abbozza le tesi che poi esporrà nel suo libro.

Resta il problema della intitolazione delle strade “politicamente corretta». Domanda: perché si, per esempio, ai generali Enrico Cialdinì e Luigi Cadorna, e perché si, anche dopo le ultime rivelazioni sui fatti di Ungheria del 1956, a Palmiro Togliatti, e invece no a Ghino di Tacco o a Carmine Crocco?




CONTROCANTO

Non celebriamo i fuorilegge nessuno si comportò da eroe

di Antonio Carioti

Vie e piazze intitolate ai briganti? II professore Alfonso Scirocco, storico del Mezzogiorno e biografo di Garibaldi, risponde di no: “Erano in maggioranza fuorilegge che vivevano alla macchia, intimidendo, taglieggiando, uccidendo le presunte spie. Anche un capobanda di una certa statura come Giosafatte Talarico, di cui mi sono occupato, dovette per forza di cose agire così. Nessuno di loro si comportò in modo tale da poter essere oggi ricordato come un eroe».

È sbagliato, aggiunge Scirocco, vederli come partigiani legittimisti, in lotta contro i Savoia per restaurare il regno di Napoli: “Questo può valere al massimo per figure minori, come Giuseppe Tardio e il sergente Romano, e per il biennio 1861-62, quando il Sud pullulava di militari sbandati dell'armata di Francesco II. Ma nessun principe reale o generale borbonico osò andare a mettersi alla testa dei briganti: sapevano che erano ribelli ad ogni ordine costituito, nemici giurati della classe possidente. Ci andò lo spagnolo José Borjés, che però rimase deluso è fini fucilato dai bersaglieri. Invece il brigante Chiavone venne eliminato non dalle truppe italiane, ma da Rafael Tristany, un altro spagnolo al servizio dei Borbone: evidentemente non vedeva in lui un valoroso alleato».

Secondo Scirocco, neanche le teorie di Eric Hobsbawm (nella foto) giustificano un'immagine idealizzata del brigantaggio, semmai ne offrono una visione più ampia e meno provinciale: “I suoi studi dimostrano che certe forme di rivolta sociale, con aspetti criminali, sono tipiche di tutte le società rurali quando lo Stato è debole. Infatti il brigantaggio era già diffuso prima dell'unità d'Italia: in Calabria fu incessante dal 1799 in poi».








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