Per il capo dei socialisti, Bettino Craxi, è ormai una tradizione passare a Caprera la prima domenica di giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera, si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri quadrati di quell'isola, Craxi medita su colui che qualcuno ancora chiama "l'Eroe dei Due Mondi".
In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome,
trasformandolo in "Eroe dei Due Milioni", alludendo alla pingue rendita
assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche
sulla "povertà" di colui che (stando a quanto si leggeva nei
libri edificanti) "donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere
per sé". Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi
documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito
"francescano" del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale
integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono
aprire nuove prospettive sui retroscena dell'epopea risorgimentale. Ci
sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell'Eroe
in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco.
Prima di venire a quelle novità, vediamo ciò che
già si sapeva: come se la passava, economicamente, Garibaldi?
Era davvero così povero come vorrebbe il mito?
Va detto che sin dal 1854 aveva abbastanza denaro per comprare almeno
parte di un'isola come, appunto, Caprera. Quando vi si ritirò,
dopo la spedizione contro siciliani e napoletani, la sua azienda
agricola contava una trentina di dipendenti e altre decine di persone
(tra cui i membri della numerosa famiglia) ne vivevano. I capi di
bestiame superavano i 500 e, in una rada, era ancorato un grande
panfilo regalatogli da un ammiratore.
Poiché le abitudini di Garibaldi erano frugali (e poiché
ciò che gli interessava era la "gloria" e non il denaro),
avrebbe potuto vivere da benestante, non fosse stato per i figli -
Ricciottì e Menotti - che si misero a speculare sul boom
edilizio di Roma divenuta capitale italiana. Una storia poco
edificante, anche dal punto di vista patriottico: i due, cioè,
parteciparono a quel "sacco urbanistico" che, in pochi anni, distrusse
la vecchia Roma, divenuta terra di conquista di speculatori che
crearono orribili quartieri "da rendita" dove erano splendidi parchi,
rovine antiche, palazzi medievali e rinascimentali. Già ne
parlammo. Ricciotti e Menotti finirono però per lasciarci le
penne e, disperati, ricorsero, per soccorso, al famoso padre.
Sparsasi la voce delle difficoltà in cui si trovava la famiglia
Garibaldi, il Governo (sempre pronto a tenere buono un uomo dei cui
colpi di testa diffidava: e non a torto) deliberò un "Dono di
gratitudine nazionale" di ben 50.000 lire l'anno vita natural durante.
Una somma enorme, pari alla rendita di due milioni di lire-oro. Da qui
il beffardo nomignolo cattolico di "Eroe dei Due Milioni" inventato
dall'implacabile Civiltà Cattolica.
Garibaldi cercò di salvare le forme: sulle prime respinse la
rendita con sdegnate parole; poi ci ripensò e finì
coll'accettarla, approfittando del fatto che al governo era salito
Agostino Depretis, uno dei Mille. E pensare che, poco più di un
anno prima, saputo che il Parlamento aveva votato la legge che lo
faceva ricco rentier, aveva gridato: "Cotesto governo, la cui missione
è impoverire il Paese per corromperlo, si cerchi dei complici
altrove!". Ma, si sa, si deve pur campare...
Anche se si tratta di un episodio che mal si inquadra con il mito, tra
le tante riserve cui la storia quella "vera" - obbliga davanti a
Garibaldi, non c'è più quella di avidità di
denaro. Le grandi somme da lui dilapidate furono inghiottite da una
torma di familiari, profittatori, parassiti, oltre che dalla sua
nullità come amministratore di se stesso.
Adesso, ecco la sconcertante rivelazione. Viene dal convegno "La
liberazione d'Italia nell'opera della Massoneria", organizzato a Torino
nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del
Piemonte, con l'appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono
stati pubblicati gli Atti, a cura dell'editrice ufficiosa dei massoni.
Una fonte sicura dunque, visto il culto dei "fratelli" per quel
Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento - poco più
di due paginette, ma esplosive - a firma di uno studioso, Giulio Di
Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille.
Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore
della ricerca: "Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa
materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene
solitamente riferito è un modesto versamento - circa 25.000 lire
fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all'atto dell'imbarco da
Quarto".
E invece, lavorando in archivi inglesi, l'insospettabile Di Vita ha
scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata
l'enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè
(chiarisce lo studioso) "molti milioni di dollari di oggi". Il
versamento avvenne in piastre d'oro turche: una moneta molto apprezzata
in tutto il Mediterraneo. A che servì quell'autentico tesoro?
Sentiamo il nostro ricercatore: "È incontrovertibile che la
marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente
agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici
alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa
illuminazione sia stata catalizzata dall'oro". Anche perché ai
finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi,
palesi) frutto di collette tra tutti i "democratici" di Europa e
America, del Nord come del Sud.
Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici
voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano
militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma
con le "piastre d'oro" versate al generale napoletano, Ferdinando
Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si
può forse valutare meglio un'impresa come quella dei Mille che
mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di
solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari
iniziali.
Ma c'è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da
Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui
viaggiava, l"'Ercole", affondò per una esplosione nelle caldaie
e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma
l'inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora
chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell'intendenza, amministrava
i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione
sull'impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno
evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a
Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno
confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un
atto doloso.
Si cominciava bene, dunque, con quella "Nuova Italia" che i garibaldini
dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di
corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove
finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille
erano a conoscenza?
In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in
effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo
sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto
la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel
porto di Palermo fu firmata la resa dell'isola).
Come riconosce il "fratello" Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era
quello già ben noto: aiutare Garibaldi per "colpire il Papato
nel suo centro temporale, cioè l'Italia, agevolando la
formazione di uno Stato protestante e laico". Le monarchiche isole
pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un
Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche
l'Italia, "tenebroso antro papista", fosse liberata dal cattolicesimo.
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