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Fonte:
https://www.liberliber.it/

Per la storia
del brigantaggio nel Napoletano

di
Salvatore Di Giacomo

I.


Qualche mese fa, discorrendo in caffè col dottor Penta, uno de’ più valorosi e perspicaci psichiatri ch’esercitano a Napoli la loro illuminata professione, egli, a un punto, mi mostrò - l’aveva avuta proprio in quel giorno - la suggestiva pubblicazione del capitano Eugenio Massa, intitolata Gli ultimi briganti della Basilicata e peculiarmente dedicata a’ due famosi banditi Crocco e Caruso.

- Ecco Crocco - mi diceva il Penta, puntando l’indice sul ritratto del feroce brigante, posto, con quello del Caruso, a fronte del libro. - L’ho conosciuto a Santo Stefano, nel 1886, e l’ho, come si dice, pur intervistato laggiù. Ricordo d’aver guardato ne’ registri di quel Bagno Penale e d’avervi letto, a proposito di lui, ch’egli era stato condannato alla galera a vita per non meno di settantaquattro reati, tra omicidii, grassazioni, ricatti et similia.

- Una bella cifra - mormorai, con l’occhio su quel ritratto, che pareva ancor minaccioso.

- E pur quest’uomo non ha dato, appena giunto nel Bagno, da fare ad alcuno. Mi narrarono i suoi guardiani ch’egli, come si vide nella sua cella, segnò sulla bianca parete una croce nera. La poneva lì come per simbolo del suo passato, intendendo che si dovesse ritenere addirittura sepolto e obliato. E mutò vita, difatti. Diventò rispettoso, servizievole, provvido e opportuno paciere; perfino infermiere co’ suoi compagni malati. Lavorava tutto il giorno: gli era proibito d’uscire e di recarsi alle fatiche campestri che occupavano gli altri, ed egli se ne restava al Bagno a far la calza, e ne faceva di eccellenti, con una grande tranquillità e accontentandosi del compenso modesto che gli poteva offrire il regolamento economico di quel triste luogo.

- Intelligente?

- Sì, abbastanza. D’una non ricca intelligenza, ma chiara, ordinata, sicura. Sapeva leggere e scrivere e componeva anche versi. Mi scrisse anzi tutta la sua storia: un documento prezioso per me, che poi, non so come, andò disperso. Vi darò il suo ritratto. E un disegno che feci io stesso nel Bagno di Santo Stefano, ove ritrassi parecchi di quei galeotti.

- E s’era pentito? Si mostrava pentito del mal fatto?

- Almeno così diceva. Si ricordava commosso, e devo credere, non solo in apparenza, de’ suoi genitori, degli amici, de’ compagni, alcuni de’ quali lodava per il loro coraggio. Ma bisognava sentirlo parlare del Caruso, del brigante ch’era stato suo fidatissimo e che appresso lo aveva non pur tradito ma rincorso pe’ boschi e per le montagne come una belva stanata! Allora gli occhi gli lampeggiavano, i suoi pugni stretti e levati minacciavano, tutta la sua persona fremeva. Parola d’onore, non avrei voluto esser Caruso in quel punto!

- E questo libro del Massa, l’avete letto?

- No, gli ho dato una scorsa, in fretta. Ma lo leggerò. Pel momento lo presto a voi.

- Mandatemi quel disegno, ancora...

- Subito ve lo mando. Gli somiglia, questo sì. Non è perfetto ma gli somiglia.

Ci lasciammo. Io non avevo molto da fare in quel giorno e mi misi a errare per via Costantinopoli, soffermandomi di volta in volta davanti a qualcuno di que’ panchetti di libri vecchi e di stampe che han sempre per me una pericolosa attrattiva, poiché mi pigliano parecchi quattrini e mi affollano, a mucchi, il mio poco capace studiolo. Impenitente bouquiniste, tuttavia, io seguito a frugar su pe’ muricciuoli ove, di mezzo alle collezioni di francobolli che gli scolaretti comperano a un soldo il foglio e alle fotografie stinte de’ comici, delle chanteuses e de’ maestri di musica, talvolta spunta un rame del Volpato o del Morghen, un’incisione del Bartolozzi, o di Vidal, o del Perelle, preziose carte ingiallite e logorate che un collezzionista s’affretta a togliere dallo sguardo profano per portarsele a casa e chiuderle scrupolosamente nelle gonfie sue cartelle.

V’è, dunque, una specie di benefica telepatia, una corrente simpatica pure per noialtri? Non saprei dire: certo è che a qualche mezz’ora appena dal discorso che avevo tenuto in caffè sui briganti eccoti che nella via di Costantinopoli m’abbatto in una piletta di fotografie brigantesche le quali m’occhieggiano, di tra un mucchio di libri e cartoline illustrate, dal panchetto d’un rivendugliolo. M’accosto, faccio lo gnorri e mostro d’indugiarmi nella contemplazione d’un rimario del secolo decimottavo. Lo prendo fra mani e lo sfoglio.

- Poca spesa - mi fa il rivendugliolo, che s’è levato e mi si avvicina, con la pipetta in bocca.

- Peuh! Tutto sudicio! E senza frontespizio!

- Datemi sei soldi e pigliatevelo.

- Che sono quelle brutte fotografie?

L’uomo si cava la pipa di bocca e sentenzia:

- Quelle? Brutte? Mi dispiace di dirvi, caro signore, che per quelle li ci vogliono gl’intenditori. M’hanno offerto dieci lire e non le ho volute dare.

- Davvero? E chi sono i fotografati? Grandi uomini, poeti, musicisti celebri?

- Quelli sono briganti, signor mio.

Io fingo di ridere, lui ribatte che la collezione è preziosa, io comincio con offrirgliene dieci lire, egli ne vuole venti e infine riesco a impossessarmi del mucchietto di documenti per quindici lire e cinquanta centesimi.

- E potete pur dire d’aver fatto un ottimo affare! - mi grida dietro il rivendugliolo.

Ho saputo pur da chi l’ha comprate: da un commissario di polizia a riposo. Torno al caffè, mi faccio servire un cappuccino, accendo un sigaro e mi sprofondo nell’esame delle fotografie brigantesche, mentre, alla stessa tavola, due inglesi si rimpinzano di sardine e di burro.


II.


Sono una cinquantina. E mi sciorinano allo sguardo, sotto la più impressionante forma iconografica, la storia tutta quanta degli ultimi briganti della Basilicata. Ecco il famoso Giuseppe Schiavone, ex sergente borbonico, capobanda di centottanta briganti, ferito più di trenta volte, e compagno di Crocco e di Caruso; ecco la banda Masini, ecco la banda Coppolone, la banda Totaro, la banda Tranchella, la banda Ciardullo. Ecco Ninco Nanco ucciso a Lagopesole, ecco Chiavone, Tamburrini, il feroce Giovanni Volonnino, ecco Michele Volonnino detto il Guercio, che tenne la campagna per quattro anni e fu il braccio destro di Crocco, ecco Spinelli fucilato a Salerno, ecco le loro amanti, quale uccisa in uno scontro co’ bersaglieri del general Pallavicini, quale condannata ai lavori forzati, quale fucilata... Che orrore!

Ripongo la mia collezione in saccoccia e rincaso. Metto i ritratti sulla mia scrivania e mi pongo daccapo ad esaminarli attentamente. Sono piccole fotografie carte da visita: dietro ciascuna di esse è scritto il nome del fotografato; talvolta v’è pur la sua concisa biografia. I banditi son ritratti o soli o a gruppi di quattro o cinque; in questo secondo caso una numerazione progressiva risponde alla figura di ognun di loro e il numero, nel manoscritto o nello stampato ch’è dietro al ritratto, è seguito da una indicazione biografica. E sotto si legge: Il Presidente della Commissione Municipale pei danneggiati dal Brigantaggio, accettando la filantropica offerta del sottoscritto fotografo di cedere metà degli utili dei briganti fucilati in Melfi il 29 novembre 1864, a pro’ di essi danneggiati, prega le Autorità competenti sorvegliare che detti ritratti non vengano riprodotti in onta alla Legge sulla proprietà artistica. Ma il fotografo non si firma: firma invece il presidente e mi par di leggere F. Sorgente.

Osservo attentamente e a una a una le piccole fotografie. Sotto un breve arco diruto, davanti alla prigione di Melfi - la triste finestra a sbarre è lì nell’alto del muro - ecco cinque briganti che si son lasciati tranquillamente fotografare avanti d’esser fucilati.

Quello coricato per terra appiè de’ suoi compagni è Vito Rendola, ventenne, cavallaro di Sant’Agata; il primo a sinistra, in maniche di camicia, è Rocco Marcelli, ventiquattrenne, da Arzano, tavernaio: costui funzionava da carnefice. Quello seduto è Giuseppe Schiavone; il suo vicino ammantellato è il ferocissimo Giuseppe Petrella, vaccaio da Deliceto, sanguinario, coraggioso e crudele. L’ultimo, Pietro Capuano, è un contadino di Arzano che si dette al brigantaggio per scampar la leva...


III.


Non so quale de’ nostri cortesi vicini di oltr’Alpi, udendo parlar dell’Italia, abbia esclamato, sorridendo: Ah, oui, le pays des brigants! Poco piacevoli parole, convengo; ma l’Italia meridionale, fino a quarantanni addietro, se l’è meritate. Nessuna storia regionale è più fosca e più disonorevole della storia del brigantaggio nelle nostre provincie: sono orrori inenarrabili, sono episodi di una tragicità eschiliana, sono eccidii spaventosi di cui perdura il ricordo straziante e terrorizzante in centinaia di famiglie rurali.

Quali le cause improvvise d’un somigliante e così duraturo flagello? Cause politiche, sopra tutto, che in su’ principii del brigantaggio gli conferirono quasi una fisonomia cavalleresca e un impeto, se si può dire, patriottico. S’era nell’autunno del 1861. Da sei mesi solamente il figlio di Ferdinando II di Borbone aveva lasciato Gaeta per ritirarsi a Roma: da un anno soltanto Giuseppe Garibaldi era entrato vittorioso in Napoli, fremente ancora dei moti del quarantotto e non precisamente tutta quanta favorevole a’ conquistatori. Tuttavia, non in Napoli, ove sarebbe stata quasi impossibile e certamente pericolosa, ma nelle provincie del Napoletano la reazione, trascorsi i primi momenti di bollore, principiava a opporre al nuovo sistema di governo le sue studiate resistenze, giovandosi a punto di quello stato confusionario in cui naturalmente era caduto un paese ove ogni elemento di disordine era favorito fatalmente dalle conseguenze tumultuarie di una rivoluzione e dall’avvento d’un novello regime che appena trovava il tempo e il modo di organizzarsi. Quello ch’era inesorabilmente finito sugli spalti di Gaeta lasciava, specie nelle provincie, un sordo rimpianto e il desiderio di una restaurazione che i Vandeani delle Puglie, della Basilicata e delle Calabrie caldeggiavano nella maniera più manifesta.

Il brigantaggio, di que’ tempi, aveva cominciato per profittare della poca sorveglianza militare: erano i soldati tenuti altrove e da più urgenti necessità di difesa. Poi, scompigliato quell’esercito e disordinatamente rovesciatosi esso stesso, in gran parte, nelle provincie ove la mala pianta già rampollava al rezzo de’ folti boschi e de’ monti, i soldati medesimi o s’erano aggregati a quelle bande scorrazzatrici o n’erano a un tratto divenuti condottieri.

Chiavone - si licet parva componere magnis - ex capitano borbonico già guardacaccia a Sora, scimmiottava Garibaldi anche nella maniera di vestire. S’era fatto da prima chiamar capitano, appresso colonnello, all’ultimo generale. Di chi? Egli diceva di Francesco II o del Papa. I suoi bollettini erano difatti pubblicati a Roma ove li spediva e dove Francesco II, pure sconfessando in continui manifesti la sua connivenza con quell’ambiguo esercito ch’egli lasciava sul territorio napoletano, si dice che fomentasse que’ tentativi, in segreto.

Si dice ancora - anzi, nelle sue Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle Provincie Napoletane il Monnier proprio lo afferma recisamente - che un comitato generale borbonico si riunisse in Roma sotto la denominazione di Associazione Religiosa e che presidente di esso fosse il conte di Trapani, zio di Francesco. Un altro Comitato era a Napoli, altri si organizzavano man mano nelle provincie e vi preparavano armi, uomini, resistenza. Insomma pareva che dovesse seguir nel napoletano quel ch’era accaduto nella Vandea: les paysans si gettavano sulle loro vecchie armi e insorgevano.

«Che cosa era dunque il brigantaggio? - si chiedeva Pietro Colletta nel 1830. - Esaminiamolo in fatto e in diritto, ossia in coloro che lo componevano, e nello scopo che s’erano prefisso. Nel 1806 e nel 1807 vi si dedicarono gli antichi campioni del 1799, Fra Diavolo, i Pizza, i Guerriglia, i Furia, gli Stoduti e altri ancora di pessima fama. Ma in quegli anni stessi furono uccisi, presi o intimiditi, dacché le facili manovre del ’99 non erano più bastevoli nel 1806, occorrendo altri tentativi ed altri uomini.

«Era un mestiere difficile e fatale, cui soltanto la disperazione poteva indurre. Ecco perché in Sicilia si vuotavano le prigioni e le galere e si reclutavano i malfattori napoletani i quali avevano fuggito la loro patria. Orde numerose ne irruppero nel regno durante i due primi anni, sia per ritardare l’assedio di Gaeta (appunto come avviene ai nostri tempi), sia per secondare le spedizioni di Maida e di Mileto».

Ma dopo quell’epoca le imprese del brigantaggio furono più ristrette. Si sbarcavano pochi uomini in una spiaggia deserta e bene spesso durante la notte: essi si gettavano nell’interno delle provincie. Se erano ben avventurati rubavano, uccidevano, distruggevano case, mèssi, armenti: se erano perseguitati si imbarcavano di nuovo, e ritraendosi in Sicilia o a Ponza (allora occupata dal principe di Canosa) più ricchi erano di spoglie e di misfatti meglio venivano rimeritati con lode e con denaro. Soldati francesi presi all’improvviso e uccisi, un piccolo corpo di guardia sorpreso, un corriere assassinato, una valigia postale rubata, erano allori quali non ne furon colti mai su’ campi di Austerlitz e di Waterloo.

«Gli atti perdendo così la loro natura, il delitto divenendo sorgente d’industria, questa lebbra infestò tutto il reame: i malfattori, gli oziosi, gli uomini avidi dell’altrui proprietà si univano ai briganti, ingrossavano le bande della Sicilia o si formavano in bande da loro medesimi. Tutti avevano per scopo il furto e la carneficina».

In queste sue pagine che fanno parte del primo volume delle Opere inedite o rare del Colletta costui non s’indugiava su’ nomi de’ capi di que’ banditi. Ma non è chi non conosca le gesta di Taccone e di Quagliarella, di Laurenziello, di Parafante, Benincasa e Nierello, del Boia e del Giurato, del Bizzarro e di Fulvio Quici, di Antonelli e di Basso Tomeo, che durante i due regni di Giuseppe Bonaparte e di Murat misero a sacco e a fuoco la Calabria, la Basilicata e gli Abruzzi.

Nelle provincie meridionali il così detto brigantaggio politico è da costoro trionfalmente inaugurato e s’apre qui con esso paurosamente il secolo decimonono. Ma già è capitata ne’ medesimi luoghi, una somigliante irruzione barbarica agli scorci del secolo precedente: rampollata dalle orde reazionarie del cardinal Ruffo la mala pianta ha già dato masnadieri famosi: Fra Diavolo è stato l’eroe delle montagne, avanti di diventar quello del melodramma di Auber, leggiadra glorificazione della polvere da sparo e di quella... di cipria.

La fantasia degli scrittori ha conferito una romantica fisonomia a’ capi di quelle guerrillas: pochi anni ancora e, terminata la bisogna del cardinal Ruffo in favore della restaurazione borbonica, il suo colonnello Panedigrano avrà ne’ racconti popolari, nella novella esotica, nella canzone e nel pamphlet col ritratto, una quasi leggendaria apoteosi. Su’ primi dell’aprile del 1799 - il Ruffo badava in quel mese a sollevar Cosenza contro i francesi - un nugolo di galeotti s’era abbattuto dalla Sicilia sulle Calabrie.

Indisciplinati - scrive 1’Helfert nella sua Storia di Fabrizio Ruffo - e dalla stessa prigionia corrotti e inselvatichiti, invece di combattere il nemico contro il quale erano stati sguinzagliati, costoro amaron meglio gittarsi alla campagna: e sfidando tutte le disposizioni dell’autorità costituite assaltarono villaggi, predarono case e alcune anche bruciarono, portando da un luogo all’altro la sterminatrice opera loro. Parecchi erano nativi di Calabria ed avevano antiche contese da terminare o vendette da pigliare di chi sapevano o credevano che avesse avuto colpa della lor condanna. Il Ruffo cercò di richiamare que’ briganti e rimetterli sotto la regola del servizio militare.

Così Nicola Gualtieri, detto Panedigrano, fu assunto al grado e agli onori di colonnello: così, più tardi, Fra Diavolo appariva a bordo del Culloden: e a questa apparizione si riferisce senza dubbio un passo d’una lettera che il Nelson scrive al conte Spencer il 24 aprile: The communication with Naples is so open that a General took a boat from the city and came on board Troubridge to consult about surprising of St. Elmo, who where expected to make off on the 27 th. Maria Carolina era meglio informata di questo provvido avvento: «Per il Fra Diavolo - scriveva il 23 di aprile al cardinale - si è spedito anche da Procida per vedere di averne una comunicazione diretta e tanto necessaria per dirigerlo e tirarne buon uso».

Con Fra Diavolo, con Michele il Pazzo, co’ due feroci Mammone il Ruffo proseguiva e rincorreva la precipitosa ritirata francese. Le colonne straniere, che a mano a mano si ritiravano dalle città che avevano occupato, vi lasciavano, anche da parte loro, i segni più orribili della distruzione e del saccheggio: quella del Macdonald, che s’era trovata fra’ monti d’Itri e di Fondi, vi andò a ogni passo perdendo uomini e bagagli: ma quella del Vatrennes, che aveva preso d’assalto S. Germano e incendiato il monastero di Montecassino, s’era fermata a Isola, ove la popolazione reazionaria aveva già eretto trincee per impedire al nemico il passaggio del Liri.

La battaglia fu violenta: le case, finalmente, scalate, gli abitanti uccisi, posto il fuoco a’ palazzi più signorili, la scena divenne orrenda. Briachi di vittoria e di vino, i francesi distrussero tutto e ripartirono lasciando un mucchio di fumanti rovine. La colonna Vatrennes s’unì poco appresso a quella del Contard e procedette trionfante attraverso il territorio di Roma e di Toscana. Ma da per tutto - soggiunge l’Helfert - dietro le loro spalle il popolo si sollevava, abbatteva gli alberi della libertà, imprecava a coloro che lo avevano fin allora governato e per la vittoria delle armi imperiali faceva voti al cielo. In Arezzo e nel territorio senese, in Valdarno e Valdichiana risonavano da per ogni dove le grida: Viva Maria! Viva Ferdinando! Viva l’imperatore!

Il brigantaggio del novantanove fu dunque veramente politico. Furono veramente e studiatamente assoldati nelle file de’ realisti que’ banditi che poco prima avevano tenuto la prigione o le selve: un fondo pittoresco disegnò, in seguito, a ridosso di quelle figure quasi eroiche, la facile immaginativa de’ romanzieri; Fra Diavolo percorse, nel suo costume schilleriano, non pur tutte le Calabrie e la Puglia, ma tutta la letteratura del secolo nuovo. E col ripristinato governo, che quasi rifaceva a suo profitto e in sua difesa le coscienze e i caratteri, ebbe gloria cavalleresca e ammirazione e vanto illustrativo fin nelle più piccole borgate, ove ogni bella contadina sognava d’esser rapita dall’irresistibile cavaliero e portata a dosso del suo cavallo focoso.


IV.


Qualche dato biografico e qualche notizia aneddotica su’ briganti della fine del settecento. Michele Marino, detto Michele il Pazzo, venditore di cacio - altri dice garzone vinaio - fu impiccato il 29 agosto 1799. Era stato co’ Borboni, poi s’era voltato dalla parte de’ Francesi e così, nella reazione, era finito sulle forche. Son portrait - scrive il generale francese Thiébault che l’ebbe molto in pratica - qui, certes, n’a jamais été fait, existe par celui de monsieur de Charrette. C’était la même taille, la même corpulence, les mêmes traits, sourtout le même oeil de qui ne prouve pas que la figure de M. de Charrette fut très noble, ni que celle de Miguel ne fut pas caractéristique. Or, sul nostro Albo del 17991, servendoci del bel ritratto dello Charrette ch’è nel volume La Révolution Française, abbiamo ricostruito il ritratto del Pazzo, che, a quanto ne scrive il Marinelli nel suo Diario, aveva, nel 1799, quarant’anni soltanto. Il Thiébault descrive minutamente il costume che Michele il Pazzo indossava in quei tempi: Une veste de chasse et un pantalon de drap vert avec gilet écarlate, le tout galonné en argent, des bottes, un chapeau à trois cornes brodé et surmonté d’un panache, plus un grand sabre à large ceinturon, argent et rouge, un col noir et des épaulettes de colonel. Nel 1860 fu presentata a Garibaldi la vecchia superstite sorella di Michele il Pazzo. Ella aveva 87 anni e rammentava, con grande lucidità di mente, le sanguinose scene accadute davanti alla sua casa.

Di Fra Diavolo non esistono ritratti. V’è, tuttavia, in un piccolo libro publicato nel 1801 - del quale Benedetto Croce crede autore quel Bartolomeo Nardini che stampò a Parigi, nel 1803, le sue Mèmoires sulla rivoluzione del ’99 - un’incisione sopra legno che rappresenta il brigante sanfedista. Mentre ancora era in vita - scrive il Croce a illustrazione di quel volumetto - Fra Diavolo porse argomento a un romanzo storico che è in un raro libercoletto ch’io posseggo e che s’intitola: Les exploit et les amours de frére Diable, général de l’armée du Cardinal Ruffo, traduit de l’italien de B.M. par A. C E. à Paris, chez Onorier libraire, An. IX, 1801, di pp. 179, in 32.

L’incisione del frontespizio rappresenta Fra Diavolo in abito da frate, armato di carabina, pistola, pugnale, sciabola ed accetta. Nel romanzo egli è fatto Calabrese e la scena delle sue azioni è messa in Calabria. Infine vi si dice che, trattato ingratamente dal re, da sanfedista si mutò in giacobino e corse a ribellare i popoli delle Calabrie, ma che le truppe del re repressero prontamente l’insurrezione ed il perturbatore fu preso e condotto a Napoli dove un vil gibet vit terminer ses jours.

Tutte invenzioni, tranne quella dell’ultimo particolare della morte sulle forche, che fu invece una predizione. Cinque anni dopo quest’augurosa fantasia del romanziere Fra Diavolo, ch’era diventato colonnello di Ferdinando III, essendosi recato per conto della Corte Borbonica e degl’Inglesi sul continente, per ripetere contro la seconda occupazione francese il giuoco riescitogli nel ’99, fu catturato a Baronissi, condotto a Napoli, giudicato sommariamente e impiccato nel Largo del Mercato il 12 novembre 1806.

Era nato a Itri, in terra di Lavoro, diocesi di Gaeta. Qui un famoso fuoruscito, Giuseppe Rezze, si pose a capo, ne’ principii del secolo decimonono, di ben 6.000 scellerati, co’ quali si prometteva di mettere a sacco mezzo Reame di Napoli.

Un documento curioso su Fra Diavolo è la lettera che il Principe di Castelcicala manda al direttore della Polizia nel 1798. La riproduco: «Dal maresciallo Arriola mi è stata comunicata la seg. sovrana Risoluzione. Rapportata al re la Relazione del Capitan Generale Don Francesco Pignatelli del 25 ottobre del caduto anno, circa la domanda fatta da Michele Pezza d’Itri di venirgli commutata in servizio militare la pena che avrebbe dovuto subire pe’ due omicidii imputatigli ed accaduti in rissa nella di lui Patria, S. M. mi ha comandato e risoluto che il Pezza passi a servire per tredici anni in uno dei Reggimenti esistenti in Sicilia. Lo partecipo a S. E. per l’adempimento».

Ed ecco, ancora, per i grafologi, le firme di tutti que’ galantuomini.

V.


Siamo a’ principii del secolo decimonono. La mala pianta rifiorisce e si torna a pensare di sradicarla.

Carlo Antonio Manhès, nato il 4 novembre del 1777 in Aurillac, dipartimento del Cantal, nel 1810, col grado di generale è spedito a domare il brigantaggio che desola la Calabria, la Basilicata e le Puglie. Di que’ tempi tutto il regno di Napoli è percorso daccapo da spaventevoli bande i cui capi dimostrano una ferocia che fino a questo punto era soltanto attribuita alle belve. Siamo a’ tempi dell’Antonelli e di Parafante, il primo, originario di Fossaceca e arbitro di tutto il territorio chietino. L’altro, che s’aggira in quello di Cosenza, non è meno audace né men crudele. Parte da Cosenza un battaglione di soldati: Parafante lo appura e spedisce all’ufficiale che li comanda una specie d’araldo d’armi: badasse a non procedere co’ suoi militi, egli lo avrebbe raggiunto e circondato sulla via che da Cosenza conduce a Rogliano. L’ufficiale rimanda l’araldo: badasse Parafante a non farsi trovare, piuttosto. Ma nel luogo indicato ecco i briganti: il battaglione è sbaragliato, venticinque soldati son fatti prigionieri, assieme ai luogotenenti Filangieri e Guarasci. Si raduna una specie di consiglio di guerra e Parafante lo presiede.

È stabilito che i luogotenenti morranno per mano de’ loro stessi soldati. Costoro rifiutano.

- Eseguite! - esclama il brigante - e avrete salva la vita!

- I soldati rifiutano ancora. Filangieri e Guarasci si fanno avanti e li arringano: - Eseguite. Vi perdoniamo. Eseguite: ve lo comandiamo. Voi tornerete alle vostre famiglie e soltanto due uomini morranno. Eseguite. Il nostro sangue non griderà vendetta contro di voi...

Pallidi e tremanti i soldati ascoltano la voce commossa de’ loro capi. Intorno stanno i briganti, in silenzio. È un tramonto. Quale scena solenne e tragica, degna della penna d’Hugo o del pennello di Goya! Ecco, vinta l’irresoluzione angosciosa, i soldati si mettono in fila; Guarasci e Filangieri si stringono l’uno all’altro, i soldati spianano le armi.

- Fuoco! - grida Guarasci.

E la scarica li stende morti.

- Ora a quelli altri! - urla Parafante a’ compagni.

E in men che si dica i soldati son trucidati. Si dà fiato alle trombe, i briganti saltano sui loro cavalli, spariscono. E al lume dorato d’un de’ magnifici tramonti calabri i ventisette cadaveri sono lì abbandonati alla notte sopravvegnente e agli uccelli di rapina ed a’ lupi vaganti!

Ah, sì, ci voleva Manhés! Il suo nome suonava lì per i piani della Basilicata e della Puglia come la tromba di Gerico: un terrore profondo, non appena la sua presenza fosse annunziata dalle solite spie de’ briganti, si spandeva in quelle file e le ricacciava nel più folto della boscaglia. Nessun quartiere: presi con le armi alla mano i banditi eran fucilati, i loro manutengoli subivano la medesima sorte; l’Antonelli, catturato e ricondotto a Chieti, vi entrava posto a cavallo d’un asino e con in capo una mitra infamante; Parafante era passato per le armi; il Bizzarro - che per non farsi tradire da’ vagiti del suo bambino gli aveva spezzato la testa contro un albero - era ucciso nel sonno dalla moglie, madre della vittima innocente.

Dall’ottobre al dicembre del 1810 milledugento briganti furono chiusi nelle prigioni delle Calabrie: non si giurò più Santo Diavolo, ma si disse, da quel tempo: Santo Manhès! Egli era stato implacabile. Istromento d’una giustizia vendicativa, non aveva indietreggiato davanti ad alcuna violenza, pur di strappare dalle più resistenti radici quella vegetazione obbrobriosa.

Così, sul principio del 1811 non s’udiva più parlare di briganti. E pareva che proprio non si dovesse più tornare a que’ foschi tempi, quando per effetto della controrivoluzione, seguita fin dall’arrivo di Garibaldi, negli Abruzzi, in Terra di Lavoro e nella Basilicata e nelle Puglie le bande nefaste si ricomposero e si cominciò a parlare di Cipriano e di Giona La Gala, di Carmine Donatello Crocco, di Ninco Nanco e di tutti i loro emuli o le loro amanti, i cui ritratti maschili e muliebri, dopo più di due ventennii, io ritrovo per una curiosa combinazione sulla panchetta del vecchio rivendugliolo di via Costantinopoli.

VI.


In che maniera allarmante abbia cominciato a riprosperare il brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l’avvento di Garibaldi si può conoscere spogliando specie quel Giornale di Napoli che, da borbonico ch’era stato, ora si mutava, mutatis temporibus, in una patriottica gazzetta cittadina. Fu dal 1861 che, nella rubrica della cronaca locale, v’occupò, fin quasi agli scorci del 1864, non piccolo spazio la continua narrazione delle gesta di nuove bande armate che s’erano andate organizzando appena l’ultimo de’ Borboni aveva dovuto riparare a Roma.

Chi si mettesse, per avventura, a scriver di que’ tempi e di que’ fatti potrebbe ben comporne, ricostruendoli tutti quanti sulle sincrone e particolareggiate narrazioni che ne sono andate stampate o si sono udite da spettatori di quelle orribili scene, meglio di una dozzina di volumi. E in questi, documentata ed esposta da un critico sereno, potrebbe non pure la storia ma ritrovarsi la psiche delle nostre provincie, tra la cui gente primitiva, ancor oggi separata in buona parte dalla civiltà morale, non si potrebbe nemmeno adesso dir che questa sia penetrata in tutto.

Tutto, ancor cinquant’anni addietro, favoriva in questi paesi il brigantaggio: la povertà degli agricoltori, la rapacità e la protervia signorile, la supina ignoranza degli abitatori, la mala influenza del prete, la superstizione, il fanatismo. Un libro, publicato dal conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, nel 1864 capitano nel Corpo Reale di Stato Maggiore Generale, descrive que’ tempi e quelle scorrerie senza riguardo a nomi e a cose, e pare un ferro rovente accostato a una piaga. Un altro libro, che s’intratterrà particolarmente della reazione del Melfese e del brigantaggio ha in corso di stampa in questo momento il dottor Basilide del Zio, che ha già publicato, co’ ritratti del Crocco e del Caruso, un interessante volume intorno alle loro confutabili autobiografie2. Quello del capitano Massa già mi fornisce molte e curiose notizie sul famigerato brigante di Rionero in Vulture, che, a quanto il Massa ne scrive, continuò a mettere assieme i suoi ricordi, nel bagno di Santo Stefano, a’ 27 di marzo del 1889.

Il padre di Crocco era pastore e contadino: sua madre, Maria Gera, era una donna di grande bontà d’animo. Si alzava all’alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i suoi cinque figliuoli e poi si metteva a lavorare, tranquilla. Siamo al 1836, in aprile. I due primi figliuoli della Maria, Donato e Carmine, stanno attorno ad una tavola e mangiano una minestra di fave: la madre, incinta, li guarda. Improvvisamente un magnifico levriero balza nella stanzuccia, afferra un coniglio che mangiucchia in un cantuccio e via sulla strada.

I ragazzi si levano e gli corrono appresso; il levriero ha già ammazzato il coniglio. Donato Donatelli dà di piglio a un randello, e così forte percote sul capo il cane che questo cade morto. Il signore al quale il cane apparteneva si precipita nella casupola, distribuisce colpi di frusta a’ ragazzi, inviperisce contro la donna che li difende e, imbestialito, le scaraventa un calcio nel ventre. La povera donna si sconcia, ammala, diventa pazza. Un bel giorno una fucilata, dal fitto d’una macchia, è sparata contro il signore: e il padre di Carmine Crocco, il marito della Maria, è arrestato come sospetto di mancato assassinio. Egli invoca un alibi: difatti era innocente. Ma pareva così evidente la causa a delinquere nello sciagurato, che nessuno gli dà retta ed il povero pastore è menato nelle carceri di Potenza. Dopo trentuno mesi il vero colpevole è scoperto: il padre di Crocco è liberato. Ma la Maria è morta. E Carmine Crocco ha soltanto quindici anni. La vendetta deve cominciare.

«Io - scrive Crocco - non avevo paura di nessuno, e sentivo in me il bisogno di prevalermi sui miei simili, distinguermi dall’ordinario, fosse pure con pericolo della vita». E la terribile storia della sua vita di bandito s’inizia qui con uccisioni, ricatti, assalti temerarii a’ paeselli della sua provincia, distruzioni, spogliazioni, incendii e ruberie d’ogni sorta. Crocco comanda un piccolo esercito di 700 uomini; espugna Avigliano, entra in Melfi e ne fa suo quartiere generale.

Agli ordini suoi ha capibanda feroci come Coppa e Ninco Nanco, Caruso e Sacchitiello, Totaro e Masini, che poi costituiscono per conto loro altre bande e dal 1860 al 1864 seminano di terrore e di stragi i boschi di Lagopesole e di Avigliano, Venosa, Ricigliano e Muro, Montescaglioso e Moliterno, Pietragalla e Balvano, antiche e piccole cittadine poste sui monti o tra le boscaglie e difese così dalle loro torricelle come dalla guardia nazionale collocatavi a garentia degli abitanti; un piccolo esercito pieno di ardore e di coraggio, che divide coi bersaglieri e con la fanteria che sono al comando del Pallavicini i pericoli e gli onori della custodia di que’ luoghi.

Dal 1860 al 1864 non v’è stato giorno in cui que’ militi avventizii e i soldati non abbiano avuto a combattere o a snidare quelle orde feroci, le quali pareva che non dovessero mai perdere numero ed audacia. Così, mentre se ne inseguiva una parte a Ricigliano, un’altra si rintanava ne’ pressi di Pescopagano e spediva a un possidente di que’ luoghi, il signor Gaetano Laviano, i biglietti di ricatto de’ quali qualcuno m’è riescito aver tra mani e di cui mi piace di riprodurre la grafica e l’imperioso tenore. Il povero Laviano, spesso costretto a fornir denaro, armi, bestie e polvere da sparo, serba gelosamente questi biglietti, e io devo alla sua cortesia di poterne dare un fac-simile.


VII.


E ci son voluti quasi cinque anni e più per completamente poter purgare quelle regioni e svellerne dalle radici la mala pianta del brigantaggio. A uno a uno que’ masnadieri sono stati o catturati o uccisi in conflitti co’ soldati o fucilati sugli spiazzi de’ villaggi ove poco prima avevano seminato la distruzione e l’orrore. Ed ecco, dai giornali dell’epoca, qualche appunto per l’ultima fosca e sanguinosa storia di que’ banditi.

Il famoso Michelangelo Coppa, del quale si dice che bevesse il sangue delle sue vittime, è arrestato e fucilato a Potenza nel maggio del 1864. Reginalda Carriello, amante del brigante Pietro Rezza, si costituisce a Marsica il 14 gennaio del 1865, col resto della banda Masini, che pochi mesi prima è stata accerchiata da’ soldati presso Stigliano. In questa azione militare i soldati perdono tre dei loro compagni. La banda Masini ha dieci morti: quattro briganti son fatti prigionieri.

Il terribile Vincenzo di Giani, detto Totaro, si costituisce con altri sette compagni il 9 febbraio 1865. Nel marzo dello stesso anno si costituiscono Francesco Schiavone, Leonardo Scocuzza e Antonio di Montescaglioso, della banda Coppolone.

Marianna Olivieri, moglie del brigante Monaco, è fucilata nel gennaio del 1864.

Ninco Nanco è ucciso da guardie nazionali e da carabinieri, il 14 marzo del 1864, a Lagopesole. È ucciso per un suo fratello. È arrestata l’amante di Ninco Nanco, Maria Lucia di Nella, diciottenne, vestita da uomo. Ninco Nanco aveva 30 anni: era nativo di Avigliano. Gli si trovano addosso 103 pezzi da dieci lire. Il cadavere è trasportato a Potenza. La Di Nella è condannata a dieci anni di galera.

Il maggiore Galli, comandante il presidio di Bisaccia, ha ordine di perquisire la casa di tal Donato Rago a Rionero. Vi arresta i due briganti Agostino e Vito Sacchitiello e un’amante di Crocco, Rita di Ruvo.

Masini è ucciso in uno scontro, il 21 dicembre del 1864, in territorio di Padula. Il feroce brigante Spinelli e quattro altri banditi son presi vivi e fucilati a Salerno. Un’amante di Masini, Maria Rosa Marinelli, fugge da una finestra. La banda Tranchella è distrutta in uno scontro col 46° fanteria, nel bosco di Persano, il 25 novembre del 1864. È posta una taglia di 1.500 ducati al capobanda Tommasini. Un suo compagno carcerato l’appura: evade dalla prigione, uccide Tommasini e guadagna la taglia!

E potrei continuare, come nella cronaca spaventosa continuano i giornali che ho consultato e che m’hanno rimesso sott’occhi a una a una le orribili creature che il fotografo si piacque di tramandare ai posteri in effigie. Rivedo, atteggiate e fosche, tutte le donne che non si tolsero mai dal fianco de’ ferocissimi loro amanti per tutto il tempo durante il quale costoro fecero delle piccole borgate della Basilicata e della Puglia il teatro sanguinoso delle loro gesta. Ecco Maria Consiglio, moglie del Tardugno, condannata a venti anni; ecco l’amante di Nunziante d’Agostino, Filomena di Pasa, ventenne, anima della compagnia Tranchella; ecco la moglie del capobanda Coppolone, Arcangiola Codugno; ecco Elisabetta Blasucci, moglie del bandito Giovanni Libertone.

Qualcuna è bella, qualche altra ha la piacevolezza volgare delle contadine, qualche altra - come quella virile Filomena Pennacchio - ha, stampati sul volto minaccioso e torvo, i segni d’un animo fiero e crudele. La innamorata di Ninco Nanco, una fanciulla, da’ tratti di molta finezza e dalla figura non antipatica, si lascia fotografare vestita da uomo e con tra le mani un fucile!

Ne’ tempi in cui seguivano questi fatti non si parlava di profilassi sociale e nessun antropologo si metteva a suggerirla, poi che la scienza dalla quale è rampollata la conoscenza benefica di certe degenerazioni non ancora s’era potuta esprimere per proporre i suoi rimedii educativi. Le condizioni economiche de’ contadini del Napoletano intorno al 1860 erano tali, ripeto, da quasi giustificare gli eccessi briganteschi: l’uomo della campagna era un ilota malamente remunerato, oppresso dalla fatica perenne e dura, maltrattato, roso dall’usura e dall’odio.

«In nessun paese del mondo - scriveva il de Saint-Jorioz - l’agricoltore è tanto povero ed infelice quanto in queste contrade del Mezzogiorno. Egli è macilento, lacero, sudicio, sfinito, triste e muto: il suo sguardo torvo vi dice i suoi rancori contro i suoi oppressori: la sua apparente umiltà e la paura che addimostra in presenza d’un qualunque a lui superiore per condizione ed abito vi dicono lo stato di avvilimento e di demoralizzazione nel quale è caduto».

L’ambiente, dunque, così propizio alle manifestazioni più spaventose della umana brutalità, e uno stato di oppressione e di privazione in cui la rustica gente basilisca e pugliese fu tenuta durante il passato governo, sono, per gli scrittori e i cronisti di que’ fatti impressionanti, le cause principali di essi. Lo stesso studioso d’antropologia li mette tra’ naturali fattori di tanta criminalità, ma egli s’indugia, d’altra parte, nell’esame direi clinico di tutti questi individui che l’ergastolo, ove essi finiscono i loro giorni, gli mette sottocchi, e questo esame gli svela che non soltanto dall’ambiente e dalle condizioni sociali sono fecondati i germi di quella delinquenza, ma che in certe date classi inferiori quell’impulso è istintivo e naturale. In questo senso ha scritto il Penta ultimamente un’eccellente monografia su’ delinquenti e i delitti primitivi e ha fatto qua e là notare certi tipi di degradati, completamente inferiori, decaduti, morbosi.

È una di queste anomalie quella che raccolse sui monti basilischi e pugliesi i briganti che infestarono quelle contrade sui primi anni della seconda metà del secolo decimonono? Ninco Nanco non è forse un esemplare di somiglianti primitività degli abitatori delle nostre campagne? Intorno alla costui sanguinosa vita ha scritto ultimamente, con ricco corredo di notizie, il pretore di Avigliano, Quirino Bianchi. Quel volumetto può giovare alla storia del brigantaggio come tanti altri; è composto con cura e raccoglie documenti fin qua nemmeno risaputi intorno al ferocissimo bandito.

Forse al Bianchi, se egli avesse potuto conoscere e studiare Ninco Nanco quando costui era in vita, la indagine scientifica avrebbe dettato pagine, se meno aneddotiche, più complete e più svisceranti: lo studio diretto d’un simile individuo sarebbe, così, riuscito d’un particolare interesse, e la scienza avrebbe dato contributo maggiore all’esame e alle conclusioni che una delle più orribili piaghe sociali - la quale è stata davvero curata col ferro e col fuoco - le poneva al cospetto. È vero che dalle galere, ove parecchi ancora scontano le loro peccata, alcuni di questi superstiti banditi offrono all’acuta indagine dell’antropologo qualche deduzione interessante.

Ma poiché siamo giunti anche in materia di brigantaggio alle autobiografie e Crocco ultimamente fa licenziare alle stampe la sua, non vi pare che a traverso la narrazione degl’intervistati possa scivolare la menzogna o l’esagerazione e la scienza non possa riescire a farsi troppa strada o almeno a combinare positivi e precisi raffronti tra il suo giudizio e quel giudizio che desidera tramandare di sé a’ posteri un di que’ banditi?

Qui, dopo tutto, non è luogo da discorrerne: qui ho voluto soltanto riandare, or con la scorta pittoresca della rappresentazione grafica de’ luoghi, ora un po’ con quella Goyana delle persone, anzi delle personalità più spiccate del brigantaggio nel meridionale, concorrere soltanto a rinfrescarne e riassumerne la storia.

Chi trascorra adesso per le campagne di Ricigliano, ove le belle e brune contadine raccolgono le frutta o badano alla vendemmia, chi si soffermi per qualche ora nella pace silenziosa del convento di S. Michele a Monticchio, chi s’inoltri nel suo faggeto, chi s’abbeveri, sulle rocce antiche dell’archeologica Cisterna, della pura aria de’ monti, chi, insomma, conosca e respiri tanta fresca e tranquilla poesia non potrà mai immaginare come in mezzo ad essa abbia potuto prosperare tanta e così spaventosa scelleratezza.



Indice delle tavole


I

II



III

IV












V



VI












VII



VIII








IX



X






XI

XII






XIII

XIV



1La rivoluzione napoletana del 1799, illustrata con ritratti, vedute, autografi etc., a cura di B. Croce, G. Ceci, M. d’Ayala e S. Di Giacomo, Napoli, Morano, 1899.

22 Le reazioni del Melfese e il brigantaggio.



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TITOLO: Per la storia del brigantaggio nel Napoletano
AUTORE: Di Giacomo, Salvatore
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TRATTO DA: "Per la storia del brigantaggio nel Napoletano"
di Salvatore Di Giacomo;
collezione: Biblioteca Federiciana;
Osanna Edizioni;
Venosa (PZ), 1990

CODICE ISBN: 88-8167-009-7

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 aprile 2005

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ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
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PUBBLICATO DA:
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