Fu questo il
primo anno in cui il vessillo
borbonico dello Stato indipendente delle Due Sicilie non sventolava
piú nelle nostre terre, che, avviluppate in un plumbeo sudario
di morte, cercavano di liberarsi dai nuovi barbari invasori: i predoni
e assassini piemontesi. Gli avvenimenti, di cui siamo certi, elencati
cronologicamente, volutamente scarni di ogni commento, fanno
inequivocabilmente comprendere cosa deve essere stato per le nostre
popolazioni vivere in quegli anni.
Non
dimentichiamolo. Non dimentichiamolo
mai.
Alla fine
dell'anno 1861, la statistica,
fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo
semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e
4.096 fra arrestati e costituiti. Le cifre fornite, tuttavia, furono
molto al disotto del vero, in quanto non comprendevano quelle delle
zone della Capitanata, di Caserta, del Molise e di Benevento, dove
comandava il notissimo assassino Pinelli.
Al
Senato di
Torino, il ministro della
guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata
napoletana, imprigionati in varie località della penisola,
avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano
state migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine
quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l'odio e la sete di
vendetta. L'economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche
erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere provincie.
La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior
parte della popolazione, che trovò nell'emigrazione l'unica
possibilità di sopravvivenza alla pulizia etnica fatta dai
piemontesi.
Antonio Pagano
Il 1°, in Sicilia, insorse Castellammare del Golfo al grido di
«fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la
Repubblica». Furono uccisi il comandante collaborazionista della
guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali.
Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi,
spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da
Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi.
Il 3 gennaio arrivarono nel porto di Castellammare la corvetta
«Ardita» e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma
con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono
costretti alla fuga. I piemontesi subito incominciarono a fucilare
centinaia di insorti catturati, tra cui alcuni preti. A Palermo
comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una
bandiera gigliata.
In quei giorni il generale borbonico Tristany, accompagnato da una
decina di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento
con il comandante partigiano Chiavone, al quale ripeté la
richiesta di subordinare le sue forze alla sua azione di comando
affidatogli dal Re Francesco II.
A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe
piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila
persone, per lo piú parenti dei ricercati, comprese donne e
bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee
vicine alla città, in condizioni disumane, dove furono lasciate
prive di luce e di aria, senza possibilità di sfamarsi.
Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei
partigiani napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si
ebbero tumulti per l’applicazione della legge che aveva imposta la
nuova tassa detta il decimo di guerra.
Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per
effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della
Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle
industrie dell’ex Reame provocando il definitivo fallimento degli
opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di
Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio. Vennero
smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di
Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti
in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la
produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione
diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime
emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera e propria diaspora.
Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già
devastate Terre Napoletane e Siciliane soprattutto le forze umane
piú intraprendenti.
A questo grave disastro si aggiunse l’affidamento degli appalti (e le
ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in
Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il
drenaggio fiscale operato dai piemontesi nelle Due Sicilie. La solida
moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta
piemontese, provocando la piú grande devastazione economica mai
subita da un popolo.
Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano, una banda di 140 patrioti a
cavallo attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono
decimati. A Napoli militari piemontesi isolati caddero vittime di
attentati. A Mugnano, la banda partigiana di Angelo Bianco, caduta in
un agguato, fu completamente assassinata dai bersaglieri e dalle
vigliacche guardie nazionali.
Il 1°, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e
fanti assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e
catturando una donna. Proprio in quel giorno il turpe traditore Liborio
Romano, quale deputato, propose nel parlamento piemontese di vendere
tutti i beni demaniali e degli istituti di beneficenza delle Due
Sicilie a prezzo minore del valore reale, a rate fino a 26 anni,
pagabile con titoli di Stato al 5%.
Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto
del 46° fanteria nel bosco di Montemilone.
A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli
"sospettati" di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso
giorno, alcuni gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti
dalle truppe piemontesi nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a
Scafati sfuggí ad un agguato tesogli dalle collaborazioniste
guardie nazionali di Castellammare.
A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due
ufficiali piemontesi. Il generale La Marmora, in visita a Pompei,
sfuggí ad un attentato da parte della banda di Pilone. A Napoli
venne minacciata da Pilone la stessa duchessa di Genova, cognata di
Vittorio Emanuele, a cui Pilone intimò con una lettera di non
uscire da Napoli, pena la cattura.
I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il
controllo della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci,
soprattutto nel Gargano e in Lucera, dove furono eseguite pene di morte
per la violazione dei piú piccoli divieti. Il col. Fantoni in
terra di Lucera, dopo aver vietato l’accesso alla foresta del Gargano,
fece affiggere un editto che disponeva che: «Ogni proprietario,
affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la
pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette
persone saranno altresí obbligate ad abbattere tutte le stalle
erette in quei luoghi ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i
quali andranno in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno,
senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come
briganti e come tali fucilati».
L’8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si
rifugiarono sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un
reparto del 41° fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati,
ma anche questi furono fucilati dopo qualche giorno. Durante una
riunione in una masseria di S. Chirico in Episcopio, la banda di
Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata ed assalita da
ingenti forze piemontesi, ma l’inattesa e violentissima reazione dei
patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due
morti e molti feriti, Cioffi riuscí a sganciarsi con tutti i
suoi uomini. I cadaveri dei due patrioti morti in combattimento furono
esposti dai piemontesi nella piazza della Maddalena a Sarno.
Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato dai partigiani e,
sottoposto ad un giudizio, fu giustiziato; poi la sua testa fu apposta
su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla popolazione.
Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro
Fumel, emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante :
«Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il
brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante,
vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà
data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli
sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che, in onta degli
ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di
aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano
nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare
autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne
di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre
giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito di
trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei
Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà
considerato come complice dei briganti.» Costui, un sanguinario
assassino, praticò metodicamente il terrore e la tortura contro
inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere ogni
possibile aiuto ai patrioti.
Questi orrendi misfatti ebbero un’eco perfino alla camera dei Lords di
Londra, dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a
proposito del proclama del Fumel, affermò : «Un proclama
piú infame non aveva mai disonorato i peggiori dí del
regno del terrore in Francia», per cui gli ufficiali che avevano
emanato quegli ordini furono allontanati dai propri reparti.
Il famoso comandante Crocco, aveva diviso la sua banda di circa 600
uomini in sei gruppi, e l’aveva disseminata nei boschi di Monticchio,
Boceto, San Cataldo e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide
scorrerie misero a sacco le masserie dei traditori nella zona di
Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco assaltò la guardia
nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale Franzini
in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini.
Il 1°, Crocco riuní nel bosco di Policoro, presso la foce
del Basento, i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso
e Cavalcante, in previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico
in Roma (Clary e Statella) di attaccare Avezzano con duemila uomini
comandati da Tristany. L’operazione aveva il fine tattico di
allontanare le truppe piemontesi dal confine pontificio per lunghi
tratti, onde permettere ad altre forze borboniche di invadere gli
Abruzzi con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del
Reame. Era previsto anche uno sbarco, sul litorale ionico, di elementi
legittimisti spagnoli e austriaci. Una spia infiltrata, Raffaele
Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che presero
contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via
terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri.
Il 3 e il 4 marzo Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul
Bradano, con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune
perdite. Nei giorni successivi, l’8 marzo, a S. Pietro di Monte
Corvino, si ebbe un altro scontro di patrioti contro piemontesi, che
subirono numerose perdite. Il giorno dopo Crocco sconfisse alcuni
reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di
Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore
Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio
di Altamura ancora prima dell’arrivo dei garibaldini.
Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove, dopo aver requisito
armi e munizioni, fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio
Emanuele. Il governatore piemontese dispose che tutto il 7°
reggimento di fanteria venisse destinato a catturare Pilone.
A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio
Colucci, che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva
segnalato ai patrioti l’arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato
catturato e processato da un tribunale di guerra che lo condannò
alla pena capitale.
Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani
napoletani, vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe
piemontesi. Tra gli episodi piú importanti sono da ricordare
quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso sterminò
alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti
dell’8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad
Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di
morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo
stesso giorno, a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in
fuga un centinaio di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17
lancieri del «Lucca», che ebbe anche 4 dispersi. La
provincia di Bari, la terra d’Otranto ed il Tarantino erano tuttavia
controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi furono
molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si
unirono ai briganti. Tra questi disertori è da ricordare come
esempio quello dell’operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato
con medaglia d’argento al valor militare nella battaglia di Palestro
del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere i «briganti»,
fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne
addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro
piemontese, Antonio Pascone.
Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un
Commissione con il compito di studiare le condizioni delle provincie
meridionali. Tale Commissione, presieduta dai massoni Giuseppe
Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra l’altro, di iniziare numerosi
e svariati lavori pubblici, istituire nuove scuole comunali per
«illuminare» la gioventú, l’incameramento totale dei
beni religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali.
Per la risoluzione del «brigantaggio» la commissione
proponeva anche l’invio di Garibaldi a Napoli e l’aumento delle guardie
nazionali.
Il giorno 4, la legione ungherese, già "usata" da Garibaldi
nella sua spedizione, riuscí ad infliggere alcune perdite a
Crocco tra Ascoli e Cerignola.
Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de’ Marsi dove si era
asserragliato un reparto del 44° fanteria, che si difese
efficacemente.
Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a
Muro, Aquilonia e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e
facendo numerosi prigionieri.
A Torre Fiorentina, presso Lucera, l’8 aprile, i lancieri di Montebello
uccisero trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti
patrioti di Coppa e Minelli, che furono quasi completamente distrutti:
40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre
«tentavano la fuga». In Sicilia, ad Apaforte, Stincone, S.
Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando alle fiamme le
cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli animali
per protesta contro le vessazioni dei piemontesi.
Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10
aprile le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a
Falvaterra. Le armi avrebbero dovuto servire per il piano d’invasione
capeggiato dal Tristany.
Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come «Largo di
Castello», dov’è situato il Maschio Angioino, fu fatta
chiamare Piazza Municipio dal sindaco massone Giuseppe Colonna.
In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai
cavalleggeri «Lucca», che fucilarono 21 patrioti.
Duro colpo anche alla banda di Crocco che il 25 aprile 1862, alla
masseria Stragliacozza, subí un improvviso attacco dai
piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini.
Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a
Napoli a bordo della nave «Maria Adelaide» e fece un
donativo alla statua di S. Gennaro per ingraziarsi i Napoletani.
Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il «miracolo».
Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le
sue azioni di guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un
distaccamento del 37° fanteria. Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa
e Minervino, i patrioti di Summa persero 15 uomini per un fortunoso
attacco dei cavalleggeri. Nell’occasione fu ferito Ninco-Nanco. Nel
prosieguo dell’azione alcune guardie nazionali catturarono una donna,
la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi
ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la
fucilarono.
Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli
appalti per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami.
Il direttore del giornale «Espero» di Torino che aveva
avuto il coraggio di denunciare alla pubblica opinione le speculazioni
commesse da Bertani e dall’Adami, fu condannato per diffamazione e per
ingiurie a due mesi di carcere e a 300 lire di multa. Naturalmente lo
scandalo, che cointeressava anche una trentina di deputati piemontesi,
fu insabbiato alla maniera savoiarda.
Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio.
Intanto, allo scopo di impossessarsi dell’industria napoletana del gas
per ricompensare gli inglesi dell’aiuto ricevuto, i governanti
piemontesi avevano subdolamente fatte fare numerose critiche per la
qualità del servizio, indicendo una gara per una nuova
concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, ed il 12
maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto
dell'illuminazione a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova
Società venne costituita il 18 ottobre dello stesso anno con il
nome di «Compagnia Napoletana d'Illuminazione e Scaldamento col
Gaz», che verso la fine dell'anno seguente inaugurò un
nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto.
Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano,
incontrati presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di
battersi e si diedero alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania
vi fu un’insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa
dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili. Il giorno dopo
Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi con i
patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di
assalire anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a
rifugiarsi nel territorio pontificio.
A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una
delle prime figlie di Ferdinando II, e l’arciduca Carlo Lodovico,
fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio
nacque l’erede al trono dell’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando,
che fu sempre uno strenuo nemico dell’Italia dei Savoia. L’uccisione di
Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914 fu la causa determinante dello
scoppio della I guerra mondiale.
Il 29 maggio a Mola di Gaeta fu catturato, e poi fucilato dai
piemontesi, il conte rumeno Edwin Kalchreuth, il famoso capo patriota
«conte Edwino», ex ufficiale della cavalleria borbonica che
aveva agito unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli
Abruzzi.
In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2,
il
44° fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del
Lavoro, perdendovi cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase
Pescosolido, dove fece rifornimenti per il suo raggruppamento. Ad Acqua
Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, i patrioti uccisero 11 guardie
nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. Numerosi patrioti di
Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti da reparti del
42° fanteria.
Il giorno 15, la legione ungherese, in un drammatico ed imprevisto
scontro, distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27
uomini. Presso Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi
ungheresi perse 13 uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce
la 4ª compagnia del 33° bersaglieri fu assalita da Crocco e da
Coppa, subendo molte perdite. A S. Marco in Lamis fu catturato il capo
patriota Angelo Maria del Sambro e quattro suoi compagni, tra cui il
dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 3° Dragoni
napoletano, piú volte decorato. Furono tutti immediatamente
fucilati.
Numerosi furono gli scontri contro i piemontesi, particolarmente tra il
61° ed il 62°, e i patrioti che presidiavano i boschi di
Monticchio, di Lagopesole e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo
essersi riunito con i patrioti abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio
Tamburini sull’altopiano delle Cinque Miglia, invase Pietransieri e
attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto.
Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno
lo fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo
condannò a morte per rapina e omicidio. La fucilazione di
Chiavone volle essere anche un esempio per far attenere i patrioti alle
direttive impartite dal Comitato Borbonico.
Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata
da numerosi reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco
il 7° fanteria, rinforzato da colonne mobili della guardia
nazionale, riuscí a circondare sulle alture della cittadina il
gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un furioso combattimento, il
grosso dei patrioti di Pilone, riuscí a sganciarsi, ma con
numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono
fucilati dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò
temerariamente in località Passanti una colonna di truppe
piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri che stavano per essere
fucilati.
Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20
maggio per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si
recò il 29 giugno a Palermo, dov’erano in visita i principi
Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, al Teatro «Garibaldi»,
pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che se fosse
stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All’indomani
si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la
conquista di Roma e di Venezia.
La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle
mani dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subite in
luglio dai piemontesi indusse il governo piemontese a sostituire il
comandante della zona, generale Seismit-Doda, con il generale massone
Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per tagliare i rifornimenti ai
gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, murare le porte e finestre
delle masserie e arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli
abitati. La reazione dei patrioti fu immediata con la rapida invasione
di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia di molte mandrie,
con l’incendio di masserie dei traditori collaborazionisti e con
ripetuti attacchi, nei pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia
Pescara-Foggia allora in costruzione.
Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece
fucilare due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che,
quali armati per la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano
commesso illegittimamente alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il
Tristany aveva voluto, con quest'episodio, dare carattere
esclusivamente militare alle azioni guerrigliere dirette soprattutto
contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. Lo
stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera
partí da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di
liberare l’isola dai piemontesi e per ripristinare il governo
borbonico. Con l’aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono
numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie
nazionali che prevaricavano sulla gente.
Il 1° luglio, da Roma, il Re Francesco II elevò formale
protesta diplomatica presso le cancellerie europee che avevano
riconosciuto i Savoia re d’Italia.
Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe
Tardio, uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo
gruppo di combattimento nell’ottobre del 1861 nella zona di Agropoli,
dopo aver eliminate le guardie nazionali che incontrava, invase con i
suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, Laurito, Foria, Licusati,
Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono molte
centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi
per i continui attacchi di migliaia di truppe piemontesi.
Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia
nazionale a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un
violento discorso contro Napoleone III che riteneva responsabile del
brigantaggio.
Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia
con i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora
numerosi scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano
all’improvviso ed improvvisamente sparivano. Il 16 luglio un reparto
del 17° bersaglieri, in un durissimo e prolungato combattimento,
uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello del famoso
Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti
abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori
ferroviari Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l’abitato che
fu saccheggiato. Ad Amalfi però la superiorità partigiana
si manifestò in tutta la sua evidenza quando il 22 luglio i
partigiani occuparono la città, tenendola addirittura per due
giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la legione ungherese uccise 12
patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle
zone di Piedimonte d’Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di
combattimento patriottici di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis
contrastarono ferocemente e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati
dai reparti del 39° e 40° fanteria.
Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano
invasero Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si
rifornirono di tutte le loro armi e munizioni.
Agli inizi di agosto i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello
Scenna,
in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina,
Carpineto, Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e
Roccascalegna, dove saccheggiarono le case dei collaborazionisti dei
piemontesi e li trucidarono.
In Pantelleria la banda Ribera non riuscí in un tentativo di
giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose
perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano.
L’imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei
patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altri
500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già
sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente.
La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi,
finalizzata a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad
emanare il 3 agosto un proclama con cui, senza mai nominare il
nizzardo, condannava la sua iniziativa.
Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le
case di alcuni traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto,
disgustati per l’ingrata opera di repressione, gli ussari e la fanteria
ungherese stanziati a Lavello, Melfi e Venosa si misero in movimento
per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati e disarmati dai piemontesi,
furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine di La Marmora, che
li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia riuscirono a
fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi.
Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del
marasma causato da Garibaldi, si erano lanciati in una cruenta
offensiva e invasero i comuni di Campomaggiore, nel potentino, e
Flumeri, nell’avellinese. La cittadina di Sturno fu occupata e tenuta
fino al 7. Intensi combattimenti vi furono per tutto il mese nell’Alta
Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, Pescopagano,
Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese
scovato era immediatamente fucilato.
Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le
truppe piemontesi e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina,
in Sicilia, sette volontari per Garibaldi della colonna Tasselli, dei
quali cinque disertori piemontesi, vennero catturati da un reparto del
47° fanteria, comandato dal maggiore De Villata, e fucilati sul
posto. Trentadue ufficiali della brigata «piemonte», che
avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e
privati del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per
«mancanza contro l’onore». A Torino, fu varata una legge
che disponeva una «spesa straordinaria» di lire 23.494.500
per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle
guardie nazionali.
Verso la metà del mese, dal carcere di Granatello di Portici, vi
fu un’evasione in massa di detenuti politici, che andarono ad
ingrossare le bande partigiane.
Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano
occupato Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava
per la Sicilia, entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora
proclamò il 20 lo stato d’assedio in tutta la Sicilia e
dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire la
penisola con il suo Corpo di Volontari.
Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l’appalto per la
costruzione delle ferrovie nel sud dell’Italia, per cui fu costituita
la società delle Strade Ferrate Meridionali. Nel consiglio
d'amministrazione della società facevano parte ben 14 deputati
piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 lire per il
loro «interessamento». Vice presidente della società
fu nominato Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a
Bastogi di 20 milioni di lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365
chilometri di ferrovia da costruire. Tra i finanziatori vi erano la
Cassa del Commercio di Torino, i fratelli massoni Isaac e Emile Pereire
di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo (di cui
Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori
delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il
fratello di Cavour, il marchese Gustavo, Nigra, Tecchio, Bomprini,
Denina, Beltrami.
Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra
Melito e Capo d’Armi, lo stato d’assedio fu esteso il 25 agosto a tutto
il Mezzogiorno. Approfittando dello stato d’assedio i piemontesi
saccheggiarono moltissime chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu
soppressa la libertà di stampa e di riunione. Anche la posta fu
censurata. Fu instaurata una feroce dittatura militare. I principali
comandanti patrioti di Terra d’Otranto, allora, si riunirono nel bosco
di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l’unità del
comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di
competenza. Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a
cavallo, suddivisi agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo
(Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, F.S. L’Abbate, Antonio
Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciariello), Francesco
Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe Valente (Nenna-Nenna, ex
ufficiale garibaldino).
In quei giorni, tutta la Terra d’Otranto rimase sotto il totale
controllo dei patrioti.
Sull’Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del
governo savoiardo (che fino allora l’aveva nascostamente appoggiato),
vi fu uno scontro tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di
Garibaldi, che fu intenzionalmente ferito e fatto prigioniero. I
piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono a Fantina, senza alcun
processo, sette disertori piemontesi che erano con Garibaldi, che a
seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel forte di
Verignano. Pochissimi popolani l’avevano seguito nell’avventura, la
maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli
invasori piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli
e 93 condanne ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse
anche 76 medaglie al valore.
Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti
ad Apice, in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno
scontro a fuoco con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a
Castronuovo.
Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre
reparti
piemontesi di stanza nell’Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a
Monteleone, alla masseria Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei
Lombardi. Il 6 settembre i patrioti riuscirono a disarmare la guardia
nazionale di Colliano, nelle terre di Campagna (Salerno). Notevole, il
7 settembre, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, di
bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento
patrioti, che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15
uomini. Dopo qualche giorno, l’11 settembre, i patrioti di Crocco e di
Sacchetiello si vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S.
Antonio (Foggia) attaccando un drappello di venti bersaglieri del
30° battaglione che furono tutti uccisi. A Carbonara i patrioti di
Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° battaglione,
comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono liberate
dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera.
In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in
tutta l’isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere con la
minaccia di ritorsioni quasi quattrocento isolani a collaborare con le
truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard,
governatore militare dell’isola, fece avanzare il 18 settembre le
truppe a raggiera per setacciare tutta l’isola. I patrioti erano
nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della
Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile,
ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in
cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa
del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l’aria
irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti
sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col
tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte
le spese dell’operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono
incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera,
riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14,
processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per
impiccagione e gli altri ai lavori forzati.
A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferí con tutta la
sua corte nel Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone,
dopo averlo fatto ristrutturare, poiché erano secoli che non era
stato abitato.
Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in
luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e
arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un
«guardapiazza» (quello che oggi viene chiamato mafioso) di
colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal
principe Raimondo Trigona di Sant’Elia, senatore del regno, delegato da
Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese
sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all’oscuro
delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che
i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano
il solo scopo di «sconvolgere l’ordine» per poter
permettere e giustificare la feroce repressione cosí da
eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese.
L’indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di
quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il
bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato
carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa.
In quel mese di ottobre vi furono moltissime, alcune violente,
manifestazioni di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della
Basilicata. I contadini si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi
per protestare contro gli abusi e le violenze dei soldati piemontesi.
Alcuni contadini furono fucilati "per dare l'esempio".
Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella
masseria S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i
carabinieri di Cellino e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre
militari furono uccisi «perché portavano il pizzo
all’italiana» e nove, furono sfregiati con l’asportazione di un
lembo dell’orecchio, per essere cosí «pecore
segnate». I gruppi di Tardio invasero i paesi di S. Marco La
Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono le guardie nazionali e ne
saccheggiarono le case.
Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le
truppe francesi e subí la perdita di due ufficiali.
Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei
prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione
degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino
all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo
ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo
portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine
di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da
eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe
successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese
suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica.
Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri
attaccò il 2 novembre a Tremoleto i patrioti di Petrazzi,
uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud fu diviso in zone e sottozone
con posti fissi di polizia e fu raddoppiato il numero dei carabinieri.
I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta il 4 novembre
presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise le sue
bande in piccoli gruppi piú manovrabili, seguendo la tattica di
Crocco. A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso
attaccarono il 5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria,
massacrando il comandante ex garibaldino dei «mille»,
capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, inseguiti
da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro
un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite.
A Torre di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e
cavalleggeri del «Lucca» in un furibondo combattimento
distrusse l’8 novembre l’intera banda di Pizzolungo. Quelli che erano
stati fatti prigionieri furono immediatamente fucilati.
Il 16 novembre, nonostante l’opposizione di La Marmora, fu revocato da
Rattazzi lo stato d’assedio nelle provincie meridionali, ma in
realtà rimasero ancora in vigore la soppressione ed il divieto
di introdurre nel Mezzogiorno tutta la stampa non governativa e la
sospensione delle libertà d'associazione e di riunione.
Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini solo
per il fatto di essere «sospetti» patrioti borbonici. In
Capitanata, per ordine del generale Mazé de la Roche e del
prefetto De Ferrari, furono compilate liste d'assenti dal domicilio e
dei sospetti, furono istituiti fogli di via senza dei quali nessuno
poteva uscire dagli abitati, imposero l’abbandono delle masserie e il
divieto di portare generi alimentari nelle campagne. Cosí
nell’avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli assenti,
ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, il
bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l’arresto dei parenti dei
patrioti fino al terzo grado. Le popolazioni, che già vivevano
nel terrore e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi
in modo veramente tragico, anche perché ogni attività
lavorativa fu in pratica soppressa e la vita economica e sociale ne fu
paralizzata.
Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a
esponenti liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di
«Pizzichicchio» s'impadronirono addirittura della
cittadina, dove liberarono i detenuti dalle carceri e eliminarono tutti
i possidenti liberali, che erano stati particolarmente oppressivi con i
loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. Furono
abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra
le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco,
che però giorni dopo fu arrestato dai piemontesi.
Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia
nove patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di
sorpresa. L’indomani a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno
squadrone cavalleggeri «Saluzzo» attaccò un
centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri venti,
tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano,
in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie,
disperdendone la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei
liberali conniventi dei piemontesi.
Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti
che, dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati «per
tentata fuga» due giorni dopo.
Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da
Roma ne coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal
generale Bosco, il gruppo di combattimento del colonnello Tristany si
dissolse. Gli ufficiali stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i
gregari si riversarono in altri gruppi patrioti.
Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di
una delazione, riuscí a sorprendere alla masseria Monaci, nei
pressi d'Alberobello, alcuni gruppi patrioti di Romano, di cui
fucilò 14 uomini, compreso il capo partigiano La Veneziana.
Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso
assaltarono vittoriosamente a Torremaggiore la 13ª compagnia del
55° fanteria, che tornava da Castelnuovo Daunia, dove aveva
compiuto operazioni di leva. La compagnia ebbe molte perdite.
A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti
i consiglieri ed il prete come «sospetti» e li fecero
incarcerare a Larino. A S. Croce di Magliano, su segnalazione del
sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe piemontesi a
circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove furono
sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante
della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con
cento uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare
in un bosco circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino.
Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono
violenti tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i
prigionieri. Vivevano in fetore insopportabile. Erano stretti insieme
assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di
cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato
venne ucciso da una sentinella solo perché aveva profferito
ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano
nemmeno di cosa fossero accusate ed erano loro sequestrati tutti i
beni. Spesso la ragione per cui erano imprigionate era solo per rubare
loro il danaro che possedevano. Molti detenuti non erano nemmeno
registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e
condannati senza alcuna spiegazione logica.
Questo era il governo dei Savoia, «vera negazione di Dio».
A Torino, per acquietare l’opinione pubblica, fu nominata il 15
dicembre una Commissione d’inchiesta sul «brigantaggio»,
dopo che vi erano state numerose denunce contro le barbarie commesse
dalle truppe piemontesi contro patrioti che difendevano la
libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari,
federalista convinto, aveva detto «...potete chiamarli briganti,
ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone sul
trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio? nel fatto che
1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono
semidei, dunque, sono eroi! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo
visitato le province meridionali avevo veduto una città di
cinquemila abitanti distrutta, e da chi ? dai briganti ? NO!» La
città era Pontelandolfo, rasa al suolo con orrende stragi,
insieme a Casalduni, il 14 e 15 agosto 1861 per opera dei bersaglieri
di Cialdini.
Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a
sgominare i patrioti dell’avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel
Molise, dove uccisero 5 uomini, catturando anche una partigiana.
La banda partigiana di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da
fanteria, cavalleria e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei
pressi di Melfi. Furono tutti uccisi appena catturati.
Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina
Barcana, nei pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero
morire atrocemente tra le fiamme.
Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli inviarono una petizione
al Re Francesco II con la quale, nell’indicare le barbarie degli
invasori piemontesi, riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei
Borbone e la speranza di un prossimo ritorno sul trono delle Due
Sicilie.
Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri «Saluzzo», stanziato
a Gioia del Colle, salvò un drappello di guardie nazionali di
Acquaviva che erano stati circondate dai patrioti. In Capitanata,
reparti dell’8°, del 36° e del 49° fanteria, comandati dal
colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre da un consistente numero di
patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti.
L’anno si chiuse con una relazione alla Camera di Torino sulla
situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di
15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli
scontri a fuoco di una certa consistenza nell’anno furono 574. I
Duosiciliani emigrati all’estero furono circa 6.800 persone. Le forze
piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di
fanteria, 51 «quarti» battaglioni di altri reggimenti, 22
battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di
artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400
bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex
militari borbonici.
Il piemonte, che era lo Stato piú indebitato d’Europa, si
salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno
l’unificazione del «suo» debito pubblico con gli abitanti
dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai
traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti
pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la
«liberazione» e dei lavori pubblici (affidati alle
speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate
proprio alle regioni «liberate». Anche l’arretrato sistema
tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che
fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice
e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione,
indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento
di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno
del 24 per cento della ricchezza «italiana».
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