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Il Mattino del 13 luglio 2004


MEZZOGIORNO E UNITÀ

Attraverso documenti inediti Di Fiore rilegge il Risorgimento e racconta
il crollo delle Due Sicilie
in un saggio pubblicato dalla Utet

La storia la scrivono i vincitori ma poi, nel sedimento del tempo, si riesce sempre a intravedere le ragioni e il valore degli sconfitti. L'ha fatto Giampaolo Pansa per i caduti dall'altra parte della guerra di liberazione del 1943-1945, lo fa ora Gigi Di Fiore con I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli (pagg. 368, E 19), bello e determinante saggio appena uscito per l'Utet.

In nove mesi - il breve arco di tempo dallo sbarco di Garibaldi alla caduta di Francesco II a Gaeta - morirono sotto la bandiera del re napoletano quasi tremila uomini, e molte migliaia furono i dispersi e i deportati. Erano, quasi tutti, persone senza fortuna: pastori, contadini, artigiani.

Proto duca di Maddaloni, quando il loro sangue era ancora caldo, il 20 novembre 1861, denunciò al Parlamento italiano la codardia dei generali per esaltare il valore di un esercito ingiustamente detto «di Franceschiello».

Quelle cifre, quei dati, li hanno dimenticati tutti a lungo. Di Fiore ci spiega perché ciò avvenne, fin dalla prima pagina: la voglia di blandire i Savoia al potere, l'interesse del fascismo a enfatizzare il Risorgimento per consolidare il mito nazionalistico su cui si reggeva, la miopia di storici patentati, accademici e politici (con le eccezioni di Nitti, di Gramsci, di Croce che riconobbe la dignità di quei vinti).

Si è fatta una gran confusione tra valori di fondo e verità dei fatti, tra morale e storia. Lo scenario degli studi tuttavia sta cambiando e il contributo di Gigi Di Fiore è importante, anche perché egli ha avuto modo di consultare inedite carte di archivio e documenti e memorie di famiglia finora tenuti riservati.

Difendere l'indissolubilità dell'Italia, Di Fiore lo chiarisce bene, non può annullare il dovere di narrare i fatti come avvennero, dando voce a coloro cui è stata negata, sottolineando gli errori e i soprusi dei Savoia A partire dal fatto che quella piemontese fu una conquista militare senza legittimità giuridica, un'annessione frutto di una guerra non dichiarata e poi di una «creatività istituzionale» frettolosa e approssimativa. Il prezzo per i meridionali, non solo per quelli schierati sul campo con il loro re, fu alto.

Se i combattenti subirono carcere, esilio, epurazioni, agli altri toccò un repentino cambio di moneta, una burocrazia sconosciuta, il saccheggio delle risorse. Se è esagerata la descrizione, fatta dai nostalgici, delle meraviglie finanziarie e industriali dei Borbone, è un fatto che dal Sud lo Stato piemontese diventato italiano ricavò conforto per le sue casse languenti; al Sud trovò i soldati delle guerre nuove e i mercati per piazzare i propri prodotti. La storia, come sapete, si è ripetuta e in certi casi si ripete.

Ebbe molti alleati, in questa operazione, Cavour, il vero stratega. Ottenne il favore, per diversi motivi, di potenze straniere e godette perfino dell'appoggio di meridionali, non solo degli esuli antiborbonici, ma anche di larga parte della borghesia, soprattutto dei latifondisti che vedevano nuove possibilità di arricchimento.

Nacque il meccanismo di controllo del voto - del consenso - che diede frutti marci ma di lunga durata. La reazione dei così detti «briganti» si risolse in un nuovo massacro: 5512 ammazzati. Di Fiore mette in evidenza che dalla sinistra partirono subito obiezioni e proteste per le condizioni sociali del Mezzogiorno nel nuovo assetto. E invano si chiese a Vittorio Emanuele di rinunciare a quel dinastico II che ribadiva anche dal punto di vista formale l'immagine dell' annessione.

Ragionando di grandi temi; esibendo prove; gettando luce sulla misteriosa ribellione di due battaglioni di soldati svizzeri un anno prima di Garibaldi; illustrando nel dettaglio la sventurata epopea di Gaeta che si concluse con la tragica beffa di bruciare le bandiere per impedire che i piemontesi le usassero come trofei, Di Fiore non dimentica le vite, impastate nel bene e nel male. Quelle di chi mancò al dovere, come il generale Landi che a Calatafimi fece suonare la ritirata di fronte a un nemico stremato. Soprattutto quelle di chi scelse la dignità estrema.

Ad esempio, il generale Matteo Negri, colpito in prima linea a cavallo sul ferreo ponte del Garigliano. Ad esempio, il capitano Ludovico Quandel che lasciò l'esercito piuttosto che firmare le umilianti clausole del patto di capitolazione.

Tutto questo Di Fiore racconta col rigore dello studioso, con la sciolta chiarezza del giornalista che è, con una scrittura agile e sorvegliata. La stessa struttura del libro è concepita per tenere avvinto il lettore: la storia che scorre e un apparato imponente di note, ottanta pagine preziose a chi vuole sapere nel dettaglio.

La parte narrata si chiude con la profezia di Maria Sofia, l'ultima regina di Napoli: «I Savoia non sono stati chic con noi Borbone... Dio non voglia che anche loro non abbiano da difendere, dall'esilio, i loro patrimoni personali». Avvenne 85 anni dopo. 

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